2.4 Realismo diretto

A metà degli anni Novanta (si veda Putnam 1995) Putnam comincia a ripensare, e a ridimensionare, anche il suo realismo interno, rendendosi conto che esso, e l’acclusa teoria epistemica della verità, non è altro che un tentativo fuorviante di sostituire il quadro inintelligibile del realismo metafisico. Il punto è che le tesi del realismo metafisico non vanno semplicemente negate, come in fondo faceva il realismo interno, e questo perché la negazione di asserzioni inintelligibili è a sua volta inintelligibile. Cercare di raggiungere un qualcosa come una descrizione assoluta di come il mondo è, non è uno scopo chiaro, quindi non è un fallimento la nostra incapacità di ottenere questa descrizione proprio perché è l’idea stessa di una tale descrizione a non essere comprensibile.

In Sense, Nonsense and the Senses, del 1994, Putnam si sposta dal linguaggio alla percezione allo scopo di ripensare radicalmente l’idea stessa di percezione. La sua intenzione è di ottenere una maniera ragionevole per render conto dell’esperienza – e in sostanza rispondere all’antica fondamentale domanda della filosofia della percezione: in che modo noi percepiamo il mondo? – evitando i trabocchetti della metafisica, e allo scopo di imboccare una “terza via” tra la “metafisica reazionaria” e il “relativismo irresponsabile”. Del resto, molti dei problemi filosofici sarebbero causati da un’idea di percezione, affermatasi col pensiero moderno e poi implicitamente adottata anche dalle emergenti scienze cognitive, “mediata” da un’interfaccia cognitiva (costituita dai “dati sensoriali”) tra le menti e il mondo, quindi basata sul postulare una qualche entità intermedia. E sia il realismo metafisico che quello interno hanno questo punto debole, appunto il ritenere che “la percezione comporti un’interfaccia tra la mente e gli oggetti ‘esterni’ che percepiamo. […] Interfaccia che è supposta consistere di ‘impressioni’ (o ‘sensazioni’ o ‘esperienze’ o ‘dati sensoriali’ o ‘qualia’), e queste concepite come immateriali. Nelle versioni materialiste l’interfaccia è stata a lungo concepita come consistente di processi del cervello” (Putnam 1994b, p. 43). E inoltre, questa idea di percezione si basa su due assunzioni altrettanto errate, ossia che non possiamo raggiungere mai direttamente gli oggetti, e che siamo connessi ad essi solo causalmente e non cognitivamente.

Al contrario, egli ritiene necessario il ritorno a una percezione diretta, quindi non mediata, che rinunci insomma all’idea di interfaccia. La nuova forma di realismo che sviluppa è appunto un realismo diretto, o naturale (o anche, riprendendo James, un realismo ingenuo, ma non tanto ingenuo da credere che le cose in sé, da percepire, esistano). Tale realismo insiste sull’“idea che le cose ‘esterne’ possono essere esperite (e non soltanto nel senso circolare di causare ‘esperienze’, intese come modificazioni della nostra soggettività)” (ibid., p. 23). C’è bisogno, afferma esplicitamente Putnam (riprendendo John Austin), di una “seconda naïveté” (ibid., p. 21), ingenuità che consentirebbe alla metafisica di avvicinarsi al senso del mondo comune, al modo col quale la gente di fatto lo sperimenta, abbandonando così l’idea delle rappresentazioni mentali, dei dati dei sensi, e di altri intermediari fra noi e il mondo.

Anche i concetti di verità, sia del realismo metafisico (la verità intesa come corrispondenza), ma anche del realismo interno (la verità come qualcosa di interno a un linguaggio), risultano ora, per Putnam, inevitabilmente oscuri e problematici. La verità non può essere solo qualcosa di interno a un linguaggio, ma “è una relazione rappresentazionale fra le espressioni del linguaggio degli utenti e una realtà largamente non-linguistica, anche se i tentativi metafisici di descrivere questa relazione come corrispondenza (o come un qualche surrogato epistemico) portano a dei problemi” (Pihlström 2005, p. 1974). Come riassume ancora Pihlström, la verità non può essere definita più esplicitamente di quanto possano esserlo altre nozioni irriducibili, semantiche o epistemiche. È certo un elemento chiave nel nostro network concettuale, è una nozione che “coinvolge il mondo” (world-involving) – come lo sono nozioni quali “credenza”, “pensiero” – intrecciata con le nostre abitudini pratiche di azione nel mondo in cui viviamo (sia quello sociale che quello naturale). Questa concezione della verità è descritta come pragmatista, ma non nel senso di appartenenza a una “teoria” rivale delle altre (corrispondentiste, epistemiche), ma nel senso dello spirito pluralistico del pragmatismo: tutte quelle posizioni catturano qualcosa di genuino ma nessuna coglie l’intima natura della verità.