C'è scuola e scuola: oltre cent'anni fa il Bauhaus!

Una ricorrenza importante per ricordare un’esperienza didattica unica nel suo genere dal punto di vista sia metodologico sia creativo.

La scuola del Bauhaus nacque a Weimar nell’aprile del 1919 e operò in Germania fino al 1933; in realtà ebbe sede a Weimar fino al 1925, a Dessau dal 1925 al 1932 e a Berlino dal 1932 fino al 1933, anno in cui interruppe le sue attività con l’avvento del nazismo. Il nome completo, ideato dallo stesso Walter Gropius, era Staatliches Bauhaus e il termine Bauhaus richiamava la parola medievale Bauhütte, indicante la loggia dei muratori.

Nel corso del 2019, al compimento dei cento anni, tantissime sono state le pubblicazioni e gli articoli sulle varie vicissitudini, anche logistiche, sulle grandi personalità che hanno insegnato nella scuola e sul movimento artistico da essa scaturito. Citiamo alcuni nomi tanto per averne un’idea.

Gli insegnanti che arrivarono al Bauhaus appartenevano a nazionalità diverse e a estrazioni culturali diverse: erano artisti, architetti, artigiani, designer e sono tuttora figure di primissimo piano della cultura europea. Ne citiamo alcuni nella convinzione che tutti gli altri non riportati sono dello stesso spessore culturale: Oskar Schlemmer, Walter Gropius, Wassily Kandisky , Paul Klee, Johannes Itten, Laszlo Moholy-Nagy, Hannes Meyer, Ludwig Mies van der Rohe, Marcel Breuer, Josef Albers, Gunta Stölzl, Otto Dorfner e Helene Börner.

I docenti del Bauhaus, 1926. Da sinistra: Josef Albers, Hinnerk Scheper, Georg Muche, László Moholy-Nagy, Herbert Bayer, Joost Schmidt, Walter Gropius, Marcel Breuer, Wassily Kandinsky, Paul Klee, Lyonel Feininger, Gunta Stölzl, Oskar Schlemmer

 

In questo intervento desideriamo soprattutto soffermarci sulla scuola, sulla struttura didattica e sulle scelte metodologiche.

Inizialmente, uno dei principali obiettivi del Bauhaus fu quello di unificare arte, artigianato e tecnologia. Si può dire che nella scuola del Bauhaus assistiamo alla nascita del design intesa come “unione di tecnica ed arte”, uno dei concetti riformatori dell’ideologia di Gropius.

Il Manifesto del Bauhaus, redatto da Walter Gropius nel 1919, recitava nel seguente modo: “Una comunità di lavoro composta da abili artisti-artigiani che lavoreranno in perfetta unità d’intenti e comunanza di concezione artistica alla realizzazione di opere architettoniche in tutta la loro complessità di aspetti”. Il tutto con un solo obiettivo “riportare l’architettura, la scultura e la pittura all’artigianato, con la convinzione che le belle arti dovessero essere unificate sotto il primato dell’architettura”. Cosa importantissima e di grande innovazione “la nuova scuola sarebbe stata aperta a “qualsiasi persona di buona reputazione, indipendentemente dall’età o dal sesso”; sembrava impossibile per quei tempi… uno spazio dove non ci sarebbero state differenze “tra il sesso più bello e quello più forte”. Una proposta all’avanguardia se si considera che in quegli anni le donne non potevano accedere a tutti i campi dell’educazione. Ma, ahimé, non fu proprio così! Il successo dell’apertura di una scuola così innovativa fu tale che ci furono più domande di iscrizione femminili che maschili e questo Gropius non se lo aspettava e fu, per lui, una grande sorpresa; la sintesi del suo pensiero, ahimè, era che le donne non erano fisicamente e geneticamente qualificate per certe arti perché pensavano in due dimensioni rispetto ai loro compagni maschili che potevano pensare in tre dimensioni.

La scuola accolse 200 studenti accuratamente selezionati che seguirono il corso preliminare, il cosiddetto Vorkurs, la prima importante innovazione di questa scuola; un corso obbligatorio della durata di sei mesi e fondamentalmente un corso di educazione formale. Tale attività didattica fu svolta inizialmente da Johannes Itten e poi da Moholy-Nagy. Al corso preliminare seguivano tre anni di corsi, dedicati allo studio della natura, dei materiali, del colore, della distribuzione degli spazi, ecc. e di laboratori.

I laboratori furono la grande novità della scuola, intesi come luogo di ricerca congiunta tra docenti e studenti che lavoravano in stretta collaborazione; d’altronde sia gli studenti che i maestri vivevano insieme nella scuola e questo consentiva una collaborazione che continuava anche nelle ore di riposo. In tal modo quella che possiamo definire la creazione artistica faceva parte del normale ciclo delle attività quotidiane e diventava qualcosa di estremamente spontaneo.

Ovviamente come si è già detto la componente studentesca maschile “fisicamente portata” venne indirizzata ai laboratori di scultura, pittura, metallo, fotografia, intaglio, ecc.; le donne invece “fisicamente non adatte” e limitate al pensiero bidimensionale, seguirono i laboratori di tessitura e ceramica; aggiungiamo che l’unico insegnante donna del Bauhaus era quello di tessitura.

Le donne non si fecero conoscere nell’immediato nella loro arte ma fecero carriera nella maturità; nella scuola supportarono le figure maschili e restarono invisibili. Facciamo un esempio per tutti; quando nel 1926 fu introdotta la sedia tubolare d’acciaio di Breuer, nota oggi con il nome Wassily (una vera e propria icona del Bauhaus!), questa non avrebbe avuto successo per quanto riguarda il legame forma-funzione senza il tessuto teso tra la struttura metallica della sedia, i braccioli e lo schienale. Il tessuto noto come Eisengarn (filato di ferro) fu ideato nel laboratorio di tessitura condotto da Gunta Stölzl (studentessa dal 1919 al 1925 e insegnante dal 1925 al 1931); nell’archivio di Harvard sono conservati quattro diversi campioni di questo tessuto (arancione, blu, oro e ovviamente quello nero) ma le foto in bianco e nero di allora fa sì che la Wassily verrà prodotta solo in nero. Ma, in tutto questo, l’unico nome citato con la sedia è quello di Breuer!

Walter Gropius aveva addirittura previsto la presenza di due docenti per ciascun laboratorio, che doveva essere diretto da un artista, per l’insegnamento della forma estetica e delle linee teoriche, e da un maestro artigiano, per apprendere l’importanza della funzionalità e della pratica.

Nella scuola mancava l’insegnamento di storia, poiché si presupponeva che tutto venisse disegnato e creato come se fosse la prima volta, piuttosto che con un riferimento ai precedenti; ma per un breve periodo si tennero anche lezioni di storia dell’arte, di anatomia, di grafia e di disegno naturalistico.

I prodotti eseguiti dalla scuola, progetti e oggetti, diventavano anche un modo per ottenere proventi per la scuola stessa che spesso costruì case popolari a basso costo per il governo di Weimar, ma non a discapito delle altre discipline dell’arte.

Ci piace ricordare, a questo proposito, un’altra docente: Alma Siedhoff-Buscher, inizialmente docente del laboratorio di tessitura, che chiese di passare a quello di scultura del legno; la sua richiesta fu accettata perché il suo interesse era il design per bambini: il gioco era un elemento importante all’interno del progetto del Bauhaus. I primi progetti della Buscher furono giocattoli creati per il mercato che procuravano alla scuola notevoli introiti. Nel 1923, progettò una serie di mobili per la scuola materna, un prototipo abitativo ideato da Georg Muche e costruito per la mostra del Bauhaus di Weimar dello stesso anno. I pezzi del mobilio comprendevano un armadio con pomelli neri a forma di palla, una gamma di scatole di legno luminose, alcune su ruote, che fungevano da blocchi di grandi dimensioni, un teatro di marionette e un deposito di giocattoli. Dopo la chiusura della mostra, il curatore britannico Nikolaus Pevsner acquistò i mobili per la propria casa, i suoi figli furono tra i primi bambini del ventesimo secolo ad abitare in un ambiente colorato con delle parti intercambiabili.

Ci piace ricordare il modo in cui descrive la scuola Vincenzo Lacorazza nell’articolo “Nizzoli e la forma standard”, pubblicato sul primo numero della rivista Civiltà delle Macchine nel 1953:

Fu merito della Bauhaus, la celebre scuola tedesca di architettura e arte applicata, aver rivoluzionato i metodi di produzione artistica. […]

La novità della Bauhaus consisteva nell’affrontare un problema logicamente, senza peso di tradizione, nel cercare il modo migliore, se si trattava di illuminare un tavolo di lavoro, di far arrivare la luce al tavolo e se di una sedia, che serve essenzialmente a riposare il corpo, di studiare una linea che aiutasse la funzione del riposo. La funzione divenne la parola d’ordine di quegli anni. In mano ad altri avrebbe forse potuto far nascere dei lampadari quadrati, per quegli artisti significò l’analisi obiettiva dei bisogni, lo studio del miglior modo di appagarli, la creazione e l’impiego di materiali nuovi per appagarli, la produzione industriale dell’oggetto che li appagava. L’opera prodotta acquistava così la capacità di penetrare e circolare illimitatamente nella società. Uno dei più grandi sconfitti era il preziosismo, il decorativismo. «L’evoluzione della cultura» aveva scritto a principio del secolo, un precursore di Gropius, l’architetto Loos «è sinonimo della esclusione dell’ornamento dall’oggetto d’uso. L’uomo del nostro tempo che insozza i muri con simboli erotici è un delinquente e un degenerato». Gropius, venti anni dopo, fece capire meno drammaticamente che la decorazione non aveva più alcuna ragione d’essere, era inutile. Siamo negli anni 1920-30. Si stavano perfezionando le grandi invenzioni. Si dovevano costruire adesso i simboli puri e semplici del loro significato. Nessuno meglio di coloro che, in seguito alla «scoperta» della fotografia, delle leggi geometriche della natura, di quelle fisiche della materia, avevano creduto di dover modificare col cubismo, astrattismo, razionalismo, la propria estetica, poteva esprimere più profondamente il nuovo tempo. Si giunge a un apprezzamento culturale della tecnica, in Germania attorno a Gropius, in Italia attorno a Persico. […]

L’apprezzamento non nacque senza equivoci. Dove esisteva una tecnica più progredita la sopravvenuta separazione dell’industria dall’artigianato fu più evidente. Essa aveva bisogno di una base democratica e dottrinaria. Le Corbusier era chiaro: «All’individualismo, prodotto di febbre, noi preferiamo il banale, il comune, la regola all’eccezione. Il comune, la regola, la regola comune ci appaiono come le basi strategiche del cammino verso il progresso e verso il bello». Kandinsky quasi contemporaneamente gli faceva eco da un altro pulpito: «Amo qualunque forma che è uscita necessariamente dallo spirito, che è stata creata dallo spirito, come detesto ogni forma che non è tale. Credo che la filosofia dell’arte, oltre all’essere delle cose, debba studiare con attenzione particolare anche il loro spirito. Solo allora sarà creata l’atmosfera che permetterà all’umanità di sentire questo spirito delle cose, di gustarlo inconsciamente alla stessa maniera dell’apparenza esteriore». In Italia si rischiò di confondere i mobili Cantù con le sedie di Brouer, l’architettura di Piacentini con quella di Terragni proprio per le storture demagogiche e mediterranee che presero le idee suddette. Il razionalismo venne da noi spiritosamente definito «l’estetica del bidet» e Ojetti asserì che a certi mobili esposti a una mostra dell’artigianato a Roma mancava «un poco d’intarsio». Amenità. Si deve alla fermezza di Edoardo Persico, architetto ad honorem, se in un clima di confusione spirituale potette formarsi e affermarsi quel gruppo di artisti che, tennero l’Italia legata al resto d’Europa e, per quanto riguarda le nuove forme industriali, l’opera di Marcello Nizzoli, cui è dedicato questo articolo”.

Da sottolineare anche che molti degli studenti del Bauhaus erano ebrei e questo potrebbe spiegare forse l’accanimento dei nazisti nel voler chiudere la scuola, cosa che come sappiamo accade nel 1933.

Il modello organizzativo e il design creato dal Bauhaus fu esportato dagli stessi docenti in tutto il mondo a partire dall’Europa prima e dagli Stati Uniti poi.

L’eredità della scuola non andò perduta, al modello del Bauhaus attinsero molte esperienze didattiche in tutta Europa, ne ricordiamo alcune e per prima la scuola di Ulm, fondata nel 1953. Ideatore dell’iniziativa, a Ulm, fu Max Bill (ex studente del Bauhaus). Il suo intento fu proprio quello di mettere in piedi nuovamente una scuola di progettazione, riproponendo in tutto i canoni didattici del Bauhaus. La Germania uscita dalla guerra è una nazione totalmente distrutta e quindi occorrerà attendere dieci anni perché l’idea di M. Bill si realizzi. Per aprire la scuola erano necessari i fondi e i primi finanziamenti vengono dati da Inge Scholl, che già nel 1946 in memoria di due nipoti fucilati dai nazisti aveva creato un’Università popolare. I primi contatti tra la Scholl e Bill erano avvenuti già nel 1947, si può quindi affermare che una prima fase della Scuola di Ulm avviene ancora prima della costruzione dell’edificio che la ospiterà. Infatti fino al 1952 (anno delle prime donazioni di materiale per poter costruire l’edificio) si alternarono alcune iniziative di promozione e alcune mostre itineranti. Nel 1953 inizieranno sulla collina del Kuhberg, che sovrasta la vecchia città di Ulm, i lavori di costruzione dell’edificio progettato da Max Bill e nel 1955 si avrà l’inaugurazione ufficiale della Hoschschule für Gestaltung (HfG) di Ulm con un discorso di W. Gropius, proprio a sottolineare la volontà di un collegamento ideale al Bahuaus.

Altre due iniziative nascono a Milano. L’Umanitaria, nata come Scuola del libro nel 1902, riprende nel 1947 e Riccardo Bauer (dapprima segretario e poi direttore del Museo sociale della Società Umanitaria, carica dalla quale fu rimosso dai fascisti nel 1924; nel 1945 Bauer fu il “rifondatore” della Società Umanitaria), a tal proposito, scrive:

L’Umanitaria viene riedificata avendo di mira complesse iniziative dirette alla preparazione sistematica di un concreto progresso sociale, affermando quella idea di armonica elevazione tecnica, morale e civile dei lavoratori che è anima della istituzione sin dalla sua origine. Ci basti dire che l’Umanitaria va a poco a poco risorgendo per essere ancora come un piccolo mondo al quale nessun problema relativo agli uomini che lavorano e vivono in società rimanga estraneo, nel quale si studino, si elaborino e si attuino in nuce tutte quelle provvidenze che valgano a rendere possibile un sostanziale elevamento, un sostanziale affinamento materiale e morale dei lavoratori di ogni categoria. Poi, l’onda della contestazione arriva fino all’Istituzione: Bauer è costretto a dimettersi, arriva un nuovo commissariamento; infine una sfortunata legge statale revoca le prerogative formative. Le scuole passano alla Regione Lombardia. L’Umanitaria tuttavia non muore. Mentre un gruppo di docenti andranno a fondare una nuova scuola, i nuovi dirigenti reinventano l’impegno sociale, dando vita da un lato a nuove forme di “assistenza”, dall’altra sviluppando l’apparato culturale. Negli anni ‘90 nasce la Fondazione Humaniter (centro di volontariato, solidarietà e tempo libero); si realizzano rassegne di teatro, musica, cinema, arte e poesia completate da concorsi e borse di studio, e poi convegni, corsi di aggiornamento, mostre e pubblicazioni di libri.

La più giovane è stata l’Istituto Statale d’Arte Maxi sperimentale di Monza (ISA) nata nel 1967 dalla crisi dell’Umanitaria; molti docenti decidono di fondare una nuova scuola con le sezioni di design e comunicazione visiva, con un potenziamento dei laboratori e con uno stretto legame con il territorio. Molte delle caratteristiche del Bauhaus diventano, ovviamente personalizzati, principi per l’ISA e in particolare la consapevolezza che non sono solo gli studenti ad apprendere dai docenti ma anche al contrario anche i docenti apprendono dagli studenti. Ma purtroppo, anche qui, tutti i successi ottenuti durante quasi cinquanta anni di attività niente hanno potuto contro la burocrazia ministeriale che ha eliminato questa tipologia di Istituti scolastici. Per fortuna l’eliminazione, da parte del Ministero, degli Istituti d’Arte non ha significato anche l’eliminazione dei principi che continuano a fare l’occhiolino nella didattica di docenti illuminati che, fortunatamente, esistono sempre.

 

Versione PDF