Da Milano a Kyoto

All'inizio di dicembre, per dodici giorni, Milano ha ospitato i rappresentanti dei governi di 188 diversi Paesi che hanno dato vita a COP9, la Nona Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti del Clima.

COP9 ha prodotto una serie di risultati che i tecnici non hanno esitato a definire importanti. Ha stabilito, per esempio, come e quanto è lecito investire in riforestazione per assorbire anidride carbonica dall'atmosfera. Ha aumentato i fondi disponibili per lo sviluppo sostenibile dei Paesi del Terzo Mondo. Ma, ancora una volta, a Milano non si è realizzato l'evento più atteso: non è scattata la fase operativa del Protocollo di Kyoto, lo strumento legale assurto a simbolo della volontà della comunità internazionale di avviare a soluzione quello che molti considerano il più grande problema ambientale dell'umanità, il cambiamento del clima globale.
Mentre la riunione milanese era in corso, Science, la rivista dell'Associazione americana per l'avanzamento delle scienze (AAAS), ha pubblicato una nuova review, opera di due noti climatologi degli Stati Uniti, che conferma la presenza di un'impronta umana nel cambiamento del clima globale.
I due eventi sincroni confermano la crescente divergenza che si sta verificando tra la conoscenza scientifica e la gestione politica dei problemi ambientali globali. Aumenta la conoscenza ma, almeno in questa fase, diminuisce la capacità di affrontarli.
La sensazione che il clima planetario stesse cambiando con una velocità insolita è emersa nella seconda parte degli anni '80 dello scorso secolo. Le Nazioni Unite si fecero carico del problema e indicarono due strade d'azione: primo, saperne di più; secondo, fare in modo che la comunità internazionale fosse pronta in caso di bisogno.

Sulla scorta della prima indicazione, nacque l'Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), un gruppo di scienziati provenienti da diversi che ebbe l'incarico di monitorare l'evoluzione del clima (o, almeno, le conoscenze sull'evoluzione climatica) e indicare gli strumenti tecnici, economici e sociali migliori per un'eventuale azione umana.

 

La prima riunione plenaria dell'Ipcc si tenne nell'anno 1990. Gli "scienziati dell'Onu" affermarono che molte erano le incertezze di natura scientifica, ma che - pur nell'ambito di queste incertezze - era possibile confermare che un cambiamento climatico importante era in atto e che, probabilmente, questo cambiamento era accelerato da alcune attività umane (in primo luogo, l'uso dei combustibili fossili e la deforestazione).
Qualcuno sostenne, non del tutto a torto, che quella intergovernativa dell'Ipcc era "scienza negoziata" e che non poteva essere presa per oro colato. Di fatto gli scienziati dell'Ipcc lavorano operando delle review della letteratura scientifica esistente e talvolta, soprattutto nei comitati di studi economici e sociali, questa opera di review è, come dire, politicamente mediata.
In ogni caso, sulla base delle indicazioni dell'Ipcc nel 1992, a Rio de Janeiro, nell'ambito della conferenza delle Nazioni Unite sull'Ambiente e lo Sviluppo (Unced) quasi tutti i Paesi a Rio de Janeiro firmarono la Convenzione sui cambiamenti del clima, una sorta di legge quadro internazionale che riconosceva non solo la necessità di agire per minimizzare il previsto "riscaldamento globale", ma anche la specifica responsabilità di un gruppo di Paesi, industrializzati, che nel corso degli ultimi duecento anni hanno contribuito più di altri ad aumentare la concentrazione di gas serra in atmosfera. La Convenzione rimandava a successivi strumenti legali operativi, che nel gergo Onu vengono chiamati Protocolli, per la definizione di azioni concrete.
L'accordo per il Protocollo fu raggiunto a Kyoto nel 1996. Prevede che entro il 2008/2012 i Paesi industrializzati riducano complessivamente del 5,2% le loro emissioni di gas serra rispetto all'anno di riferimento 1990. Il Protocollo, sui cui dettagli si continua a discutere, entrerà in vigore non appena sarà definitivamente ratificato da almeno 55 Paesi responsabili di almeno il 55% delle emissioni di gas serra prodotte dai Paesi industrializzati.
Intanto l'Ipcc pubblicava un nuovo documento, in cui minimizzava le incertezze e dava, ormai, per definita la responsabilità umana nel cambiamento climatico e, in particolare, nell'aumento di 0,6 °C della temperatura media planetaria verificatosi nell'ultimo secolo. Questa presa di posizione veniva contestata in molti ambienti scientifici, soprattutto americani. Non ci sono prove certe della responsabilità umana. E, sostenevano i critici dell'Ipcc, non ci sono sufficienti elementi per prevedere un ulteriore aumento della temperatura nei prossimi decenni.

In questa fase, dunque, la politica sembra essere determinata ad agire contro i cambiamenti climatici, malgrado le incertezze non risolte del mondo scientifico. Vale, si dice, il principio di precauzione. Anche se ci sono solo indizi e non certezze che una minaccia si stia realizzando, è saggio agire.

Negli ultimi anni la situazione si è rovesciata. L'ultimo articolo su Science dimostra che gli scienziati esperti di clima che negano l'evidenza della corresponsabilità umana nei cambiamenti climatici sono, ormai, una minoranza. Anche negli Stati Uniti d'America. Naturalmente la scienza non è un'impresa in cui si ha ragione a maggioranza. Tuttavia è un fatto che non solo l'Ipcc, ma la gran parte degli esperti in tutto il mondo riconosce che l'uso dei combustibili fossili, la veloce deforestazione e altre pratiche "umane" contribuiscono ad aumentare la presenza di gas serra in atmosfera e, questi, contribuiscono all'aumento della temperatura media planetaria.
In questi medesimi anni la compattezza del fronte politico è venuta meno. I maggiori produttori al mondo di gas serra, gli Stati Uniti, che pure aderiscono alla Convenzione, si sono ritirati unilateralmente dal Protocollo di Kyoto. E poiché la Russia - secondo produttore tra i Paesi industrializzati - ancora tentenna, il Protocollo di Kyoto non può entrare in vigore. Molte sono le ragioni di queste scelte. Ma la principale è, forse, tutta politica. Si va deteriorando l'idea, universalistica, di comunità internazionale. E si va accentuando l'idea che i problemi si risolvono per via unilaterale.
Intanto, rispetto all'anno di riferimento 1990, le emissioni globali di anidride carbonica - il principale dei gas serra - sono aumentate di circa il 25%. E a questo aumento contribuiscono sempre più i Paesi in via di sviluppo, responsabili ormai del 50% delle emissioni. La Cina, per esempio, è ormai il secondo produttore mondiale di anidride carbonica e si prevede che, nel giro di qualche anno, raggiungerà e supererà gli Usa. Anche l'India ha fortemente aumentato le sue emissioni. E così l'Indonesia, il Brasile e, in definitiva, la stessa Africa.
Gli esperti ritengono che per ridurre a zero il contributo antropico all'aumento della temperatura media del pianeta si dovrebbero tagliare le emissioni di gas serra di una quantità compresa tra il 60 e l'80% rispetto ai livelli del 1990. È chiaro, dunque, che l'attuazione del Protocollo di Kyoto non è che una prima, simbolica tappa nella lotta efficace al cambiamento del clima globale. E che per un'azione anche solo parzialmente risolutiva bisogna coinvolgere tutti i Paesi, compresi quelli in via di sviluppo, e andare "oltre Kyoto".
Così la COP9 di Milano ci lascia con una certezza e un dilemma. La certezza è che la scienza non può essere più un alibi per chi, in sede politica, ha deciso di rallentare e persino invertire la marcia verso Kyoto. Il dilemma è: come faremo ad andare rapidamente "oltre Kyoto" se così tanti e così importanti compagni di viaggio si rifiutano di passare per l'ex capitale del Giappone?