I fondamenti della Matematica in Archimede

PER UNA INTERPRETAZIONE UNITARIA DEL MÁTHEMA IN ARCHIMEDE

 

Introduzione

La mirabile scoperta del cosiddetto “metodo meccanico” (tropos tes theorias dià ton mekhanikon) di Archimede agli inizi del Novecento pone alcune importanti questioni storico-filologiche e filosofico-epistemologiche  ancora attuali. L’osservare (theorein), lo scoprire (euriskein), l’apparire (phainesthai), il  dimostrare (deiknunai, apo-deiknunai, epi-deiknunai), il prestar fede  (pisteuein) alle proposizioni scientifiche e il riempire assieme (sum-pleroun)  nell’onto-epistemologia  (philosophia)  di Archimede. Da una interpretazione dualistica ad una interpretazione unitaria.

il palinsesto di Archimede

 

I. La Matematica tra fine Ottocento e inizi del Novecento e la scoperta del cosiddetto metodo meccanico di Archimede

La mirabile scoperta del cosiddetto metodo meccanico di Archimede agli inizi del Novecento da parte del filologo danese  Heiberg con la Lettera ad Eratostene non poteva non risentire del nuovo clima filosofico-epistemologico che si era venuto diffondendo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento nella concezione della matematica.

Separando i numeri dalle grandezze e di conseguenza la Matematica dalla Fisica, si pensava in tal modo di poter liberare il calcolo  dalla sua base intuitiva-geometrica poco chiara e di fondarlo su rigorose basi assiomatico-aritmetiche.

Scriveva Dedekind che, poiché “facevo uso di considerazioni di ordine geometrico  nelle mie lezioni di calcolo differenziale e sentivo la mancanza di una base veramente scientifica dell’aritmetica,il mio senso di insoddisfazione fu tale che presi la ferma decisione di riflettere finché non avessi trovato un fondamento puramente aritmetico e assolutamente rigoroso dei principi dell’analisi” (1). Si apriva così la strada ad una concezione dell’oggetto matematico, sempre più  formalizzato e sempre più sganciato da un suo “contenuto conoscitivo”, ridotto a puro simbolo o segno, o a mere relazioni o gioco tra questi.

Per cui se lo storico della Matematica Boyer nella sua Storia del calcolo del 1939 può scrivere che a tal punto si era realizzata l’affermazione pitagorica “Tutto è numero” (2), più avanti nel suo testo in modo categorico può affermare quella che è “la  natura della matematica oggi ampiamente accettata. La matematica non è né una descrizione della natura né una spiegazione del suo funzionamento; non ha a che fare né con il mondo fisico né con la generazione metafisica di quantità. E’ semplicemente la logica simbolica di relazioni possibili e in quanto tale non aspira a verità né approssimative né assolute,ma soltanto ipotetiche. In altre parole, la matematica determina quali conclusioni conseguano logicamente da premesse date” (3).

Se entro quadro storico cade la scoperta del tropos meccanico di Archimede, c’è invece una immagine iconografica presso la comunità scientifica che accompagna l’Archimede dei secoli precedenti. Poiché si credeva  che le sue dimostrazioni geometriche non fossero delle scoperte, ma dimostrazioni di cose già scoperte, si era diffuso nei secoli il mito di un Archimede che doveva essersi servito di una via segreta per la scoperta dei suoi teoremi (4). Se questo mito epistemologico accompagna la figura di Archimede, un non meno forte mito, ma questa volta di natura ontologica, accompagna la figura di Archimede sin dall’antichità, imposto dalla tradizione neoplatonica, circa un netto dualismo di tipo platonico nella sua concezione della “cosa matematica”. Per questi da una parte stava il mondo della purezza geometrica, dei puri pensieri (ton noenton,secondo Plutarco), di cui si occupa la scienza matematica, dall’altra il mondo delle cose fisiche, delle cose corporee (ta somaticà, ancora secondo Plutarco), di cui si occupano i saperi non liberali, quale era la meccanica, i cui enti e principi non andavano confusi con la geometria.

Ecco quanto scrive poi in seguito Plutarco a questo proposito in una sua interessante testimonianza: “Gli iniziatori della meccanica, scienza seguita con interesse e a tutti nota, furono Eudosso ed Archita, i quali comunicarono un grande fascino alla geometria mediante l'eleganza dei suoi procedimenti. Essi diedero ai problemi che non offrivano possibilità di soluzione con un procedimento soltanto logico e verbale il sostegno di schemi visivi e meccanici. Ad esempio nella soluzione del problema di due rette medie proporzionali, elemento necessario alla composizione di molte figure, entrambi gli scienziati ricorsero a mezzi meccanici, servendosi delle medie proporzionali che certi strumenti ricavavano da linee curve e da segmenti. Platone rimase indignato da questo modo di procedere e polemizzò coi due matematici, quasi che distruggessero e corrompessero ciò che vi era di buono nella geometria; in tal maniera essa abbandonava infatti le cose incorporee e intellegibili per scendere nel mondo sensibile, ed usava anch'essa oggetti che richiedevano ampiamente un grossolano lavoro manuale. La meccanica fu così separata e si staccò dalla geometria; per molto tempo la filosofia l'ignorò ed essa divenne una delle arti militari (5).

D’altra parte si usciva, fine Ottocento e inizi Novecento, da un impetuoso e caotico sviluppo del calcolo, avutosi tra Sei, Sette e metà Ottocento, nel quale ricerca matematica e ricerca fisica erano state profondamente mescolate nei vari Newton, Eulero, Laplace, D’Alembert, ecc., per cui era stata curata poco la sistemazione rigorosa di questo nuovo sapere, entro cui poi vivevano, si scrisse, enti sotto forma di fantasmi, che apparivano e scomparivano, quali erano gli infinitesimi e gli indivisibili. C’era bisogno di sistemare, di riportare rigore, in un  quadro di elementi di chiaroscuro che la nuova scienza del calcolo  aveva sviluppato nei secoli moderni.

Archimede in quei secoli impetuosi era assurto a icona del rigore per l’uso sistematico del suo cosiddetto “metodo di esaustione” contro ricerche e presunte dimostrazioni poco scrupolose e spregiudicate. Archimede resta comunque maestro del rigore, ma la sua presunta purezza geometrica di tipo platonico viene a sua volta epurata per una purezza ancora più pura, quella aritmetica, come abbiamo visto con Dedekind.

Ma le epurazioni per enti sempre più puri continueranno. La scoperta del tropos meccanico di Archimede se da una parte mette in crisi il mito tradizionale di un Archimede icona del rigore, dell’uso del modo geometrico attraverso il metodo di esaustione,dall’altra parte sembra dare inizio ad un  altro mito di un altro Archimede, spregiudicato ricercatore, che oltre del tropos geometrico, si era avvalso nelle sue ricerche, di un altro tropos, quello appunto meccanico, di cui si dava notizia nella lettera ad Eratostene, ritrovata.

II. Il nuovo clima storico-epistemologico influenza l’interpretazione del nuovo Archimede e le traduzioni dei suoi testi.

Il nuovo clima culturale, con il suo statuto onto-epistemologico, platonico e formalistico, non poteva sopportare che il grande Archimede nella sua teoria della “cosa matematica” avesse potuto mescolare la “cosa meccanica” con la “cosa geometrica”, né tanto meno che l’avesse potuto mescolare con la “cosa filosofica”, visto che la nuova Matematica, interessata alla pura forma linguistica, sembrava disinteressarsi del suo “significato di verità”, o al più ne ammetteva una esistenza puramente ideale, di tipo platonico.

Archimede

 

Si cerca così ancora una volta di mantenere in vita il presunto platonismo di Archimede, creando un nuovo mito onto-epistemologico di tipo ancora dualistico, per cui la cosa matematica di Archimede viene interpretata come “cosa geometrica” pura, sede di una verità tutta ideale, contrapposta alla “cosa meccanica”, apparente, vaga nozione anticipatrice della verità geometrica, mentre l’oggetto della conoscenza, il máthema, viene separato tra l’oggetto della ricerca e l’oggetto della dimostrazione, l’oggetto dell’intuizione e l’oggetto del rigore, tra l’oggetto della conoscenza apparente, meccanica e l’oggetto della conoscenza vera, geometrica.

Per citare qualche storico vediamo  prima cosa scrive Boyer:

Archimede riuscì nella sua opera a coniugare la profonda speculazione trascendentale( ma che significa questo termine !?) di Platone con il rigore delle procedure di Euclide” (6)

e poi nella su monografia il Dijksterhuis :

Archimede non è disposto a riconoscere  i risultati ottenuti con questo duplice metodo (quello del baricentro e quello degli indivisibili) come conclusioni effettivamente dimostrate” (7)

L’insufficiente rigore del metodo è esclusivamente conseguenza dell’ uso degli indivisibili” (8)

Nel suo trattato Quadratura della parabola, pubblicazione rispondente a tutti i requisiti di rigore formale, egli dimostra l’intuizione espressa nella prop. 1 sull’area di un segmento di othotome, di nuovo per mezzo di considerazioni di statica, ma questa volta senza indivisibili” (9)

Gli indivisibili banditi dalle pubblicazioni,nei laboratori dei matematici mantenevano un peso immutato (10)

E’ chiaro che questa lettura dualistica dei testi archimedei non poteva non influire nelle traduzioni del nuovo testo, grazie appunto al nuovo clima storico culturale  degli inizi del Novecento, da noi accennato e al mito sempre presente e rinnovato di un  Archimede platonico e possibilmente anche aristotelico (11).

III. Le varie traduzioni del nuovo testo archimedeo

E qui veniamo agli aspetti critici. Dalla lettura simultanea del testo greco in genere e in particolare della Lettera ad Eratostene  e delle varie traduzioni ecco cosa notiamo. I vari traduttori o non traducono  in modo univoco, non rispettando in ciò un preciso criterio di scientificità, termini-chiave del testo (non avvertendo tra l’altro il lettore che il termine “metodo” nel testo traduce  due termini greci, uno, più generico e usato una sola volta, éphodos, che dà il titolo alla lettera ad Eratostene, mentre l’altro usato propriamente da Archimede  è tropos tes theorias dià ton mekhanicon che possiamo tradurre “il modo dell’osservazione  per mezzo di enti meccanici”, che viene ripetuto più volte e che fa da cornice nelle dimostrazioni di tipo meccanico, theoréitai dià tou tropou toutou = si osserva per mezzo di questo modo) o fanno uso di interpolazioni, a nostro modesto parere poco convincenti, o commettono delle vere e proprie gravi omissioni, forzature del testo letterale come di significati. Per non dire che si trascurano termini che possono aiutare a completare una giusta interpretazione dello statuto onto-epistemologico di Archimede.

Il tradurre in vari modi lo stesso termine del tropos tes theorias dià ton mekhanicon,quale theorein, con le sue diverse flessioni verbali e nominali,da parte di uno stesso traduttore e da parte di più traduttori, non aiuta certo la comprensione dell’onto-epistemologia di Archimede, ma favorisce la confusione, o addirittura la forzata interpretazione che di essa si finisce con il dare.

T.L. Heath  lo traduce con to investigate,in genere, ma non sempre, ma poi traduce “theoria” con inquiry (12).

E.J. Dijksterhuis nel testo inglese Archimedes,Copenhagen,1956 lo traduce con to recognize, ma poi traduce “theoria” con  investigations (13).

C. Mugler lo traduce con aborder,examiner, ma traduce poi ancora theoria con étude, termine generico (14).

P.Ver Eecke lo traduce con se présenter, venir à bout, per tradurre poi “theoria” con “investigation” (15).

Frajese lo traduce con considerare, vedere, esaminare, trattare per poi tradurreteoria” prima con teoria, ma anche con ricerca (16).

Si fa una forzatura infatti quando euriskein viene riferito,in quella che abbiamo chiamato interpretazione di tipo dualistico, solo al momento della scoperta meccanica, non riconoscendo che c’è anche in Archimede un euriskein di tipo geometrico, anzi una dialettica tra scoperta e dimostrazione nei due tropoi, meccanico e geometrico. Basta meglio esaminare il testo per capire che Archimede non distingue ricerca da “vera” dimostrazione, ma <dimostrazione meccanica> da <dimostrazione geometrica>

Tant’è  che Archimede alla fine della lettera ad Eratostene scrive sui due teoremi,dei quali aveva inviato ad Eratostene solo gli enunciati, invitandolo a scoprire le dimostrazioni, che ora è in grado, dopo averli “osservati” con lo stesso tropos meccanico, grazie al quale gli era apparso per la prima volta il teorema sulla superficie di una sezione di cono rettangolo, anche di dare le dimostrazioni geometriche (tas geometrikas apodeikseis) che ha scoperto. Conclude Archimede la sua lettera ad Eratostene:

Scriviamo dunque il primo dei teoremi apparso per primo (phanén) attraverso enti meccanici,che ogni segmento di sezione di cono rettangolo è uguale ai quattro terzi del triangolo avente la stessa base e altezza uguale, dopo ciascuno dei teoremi osservati (theorethenton) per mezzo dello stesso  modo,alla fine del libro scriviamo le dimostrazioni geometriche(tas geometrikàs apoideikseis) dei quali ti mandammo prima gli enunciati.

Già all’inizio della lettera appare chiaro che se c’è una scoperta del tropos meccanico, c’è pure una scoperta del tropos geometrico,che è quanto invita a fare ad Eratostene, che poi viene fatta dallo stesso Archimede,come comunica nella lettera.

Ti ho antecedentemente inviato dei teoremi scoperti (per via meccanica; nostra) dei quali ti ho scritto gli enunciati e ti ho invitato a scoprire le dimostrazioni (geometriche; nostra) che non ti ho dato” (17).

Phainein,altro termine chiave del tropos tes theorias dià ton mekhanicon, Heath lo traduce una volta to become clear,un’altra volta to become known e ancora “indication” quando si fa nome (émphasin).

Per non parlare di altri traduttori del termine. Si tenta così di contrapporre un “essere apparente” della meccanica ad un “essere vero” della Geometria. Per cui il Dijksterhuis può scrivere sempre in riguardo anche  ad Archimede:

In matematica una scoperta è una cosa e una dimostrazione è un’altra cosa e il metodo con cui il lettore viene convinto della verità di un teorema in molti casi è completamente diverso dal modo in cui questo è stato scoperto” (18). Il che non è sempre vero,specie nel nostro caso di Archimede.

Infatti così viene stravolto il testo archimedeo,per il quale il vero (alethès) è riferito alla “cosa osservata” che appare (phainesthai) grazie al tropos tes theorias dià ton mekhanicon, che non è stata ancora dimostrata  geometricamente. Scrive infatti Archimede nel seguente brano alla fine della prop. 1 del cosiddetto  Metodo: “Tutto ciò tuttavia non è stato dimostrato (apo-dédeiktai) per mezzo delle cose dette ora, ma è stata un’apparizione (émphasin) che  la conclusione  è vera (alethès); perciò noi vedendo che non è stata dimostrata (attraverso enti geometrici, nostra), ma supponendo (uponooùntes) che sia vera, daremo(tàksomen) la dimostrazione geometrizzata (ten geometrouménen apodeiksin) che abbiamo scoperto(ekseuròntes) e che abbiamo prima pubblicato.” (19)

Altra volta Archimede riferisce il falso (pseùdos) alla proposizione o meglio all’enunciato, protasis, prima che esso sia stato osservato nella sua verità o falsità, che è quanto si evince dalla sua lettera a Dositeo sulle Spirali. “Dei problemi menzionati Eraclide ti ha portato le dimostrazioni ma quel teorema che era stato proposto dopo di essi era falso (pseudo): Se una sfera è tagliata da un piano in parti disuguali,il segmento maggiore ha rispetto al minore ragione duplicata di quella che la superficie maggiore ha rispetto alla minore. Che questo sia falso diviene apparente (phaneron) dalle (dimostrazioni, Sfera e cilindro, II, 8, le quali vengono date per via geometrica, ma che sono apparse prima, come nel caso citato, per via meccanica; nostra) che prima ti sono state inviate nelle quali si scopre: se  una sfera è tagliata da un piano perpendicolare ad un diametro  in parti disuguali, la superficie del segmento sferico maggiore ha rispetto alla minore lo stesso rapporto che la parte maggiore del diametro ha rispetto alla minore; e che il segmento sferico maggiore ha rispetto al minore rapporto minore del rapporto duplicato di quello che la superficie maggiore ha rispetto alla minore,quindi maggiore di 3/2”(20)

Sulla dialettica del vero e del falso, attraverso queste sporadiche espressioni,nella logica proposizionale di Archimede, mi soffermerò più avanti,quando sarà fatto un discorso più organico su tutta la filosofia o onto-epistemologia di Archimede.

Per quanto riguarda le interpolazioni opinabili dei traduttori mi richiamo al caso del korìs apodeìkseos,letteralmente “senza dimostrazione”, che Frajese e Rufini(vedi Enrico Rufini, Il metodo di Archimede…,Feltrinelli, Milano, 1961, p.103) traducono invece “senza una vera dimostrazione” e lo Heath e il Dijkstehruis senza “a actual demonstraction”. Mentre se si sta al contesto andrebbe aggiunto piuttosto al “senza dimostrazione” l’aggettivo “geometrica”. Per forzare in quell’altro senso  si omettono dal testo tradotto espressioni significative, come nel caso del teorema 3 del Metodo, circa il volume di uno sferoide,che si conclude con la frase greca “oper édei deikthenai” (come doveva essere dimostrato), ma che non viene riportata né da Frajese né da Dijkstehruis.

Si commettono financo banali errori (!?) di traduzione, nel Frajese, pur di negare valore dimostrativo al tropos tes theorias dià ton mekhanicon, quando si scambia un plurale, nel testo originale, con un singolare nel testo tradotto, come nel caso in cui nella lettera a Dositeo del I libro de La sfera e il cilindro,si traduce “dimostrazione” invece che “dimostrazioni” (ton apodeikseon,testo greco) circa le cose che Archimede aveva osservato (teteoremena) prima intorno  alla sezione di un cono rettangolo  (demonstractionibus adiunctis conscripta, traduce giustamente  Heiberg).

Come non si pone attenzione al fatto che Archimede chiama “dimostrazioni” (apodeiksas,testo greco), alla fine della lettera a Dositeo nella Quadratura della parabola , quanto ha ottenuto intorno all’area di una sezione di cono rettangolo sia dià ton mekhanikon sia dià ton geometrikon.

Nella traduzione poi dello Heath della lettera a Dositeo sulla Quadratura della parabola, oltre a scomparire il plurale, scompare il termine fede o fiducia (pistis), poiché il testo viene parafrasato.

Eppure riteniamo che questo abbia la sua importanza nell’interpretazione dell’onto-epistemologia di Archimede, espressione con cui interpretiamo e traduciamo il suo termine “philosophia”, presente in tutto il testo archimedeo una sola volta, quando Archimede si rivolge ad Eratotestene,apostrofandolo, uomo “zelante e oltremodo degno di parlare di filosofia”(spoudàion kaì proestòta aksiològos philosophias), a cui vuol parlare da filosofo riconoscendogli  competenza e zelo  per la  filosofia.

Altro che Archimede, silente su questioni di filosofia, come vuol fare intendere  il Knorr(21), se si vuole porre attenzione a quanto si dice in questa significativa espressione! Anche questo per avallare cattive e pregiudizievoli interpretazioni o per avallare un suo presunto platonismo o aristotelismo sotterraneo nella sua opera.

IV. Per una interpretazione unitaria dell’onto-epistemologia di Archimede. Il problema dei cosiddetti indivisibili

Con la lettera entriamo più che nella sua officina matematica, per stare alla famosa espressione dello Zeuthen, nella sua officina filosofica. Accecati infatti dal presunto platonismo o aristotelismo di Archimede  non si coglie il significato profondo ontologico, in chiave democritea, di un altro termine del suo tropos meccanico (sum-pleroun), presente e sistematicamente usato da Archimede nelle sue dimostrazioni di tipo meccanico.

Ironia della sorte! Democrito è l'unico filosofo citato in una sua opera da Archimede ed ha scritto cose di matematica, mentre né Platone né Aristotele vengono citati dallo stesso, né hanno scritto cose di matematica, ma solo testimonianze, sparse nei loro scritti e molte volte confuse (per un severo giudizio su Platone, testimone di cose matematiche, riporto un giudizio di Peano, che certamente di matematica se ne intendeva, come di filologia greca: “Invero nei dialoghi di questo filosofo trovansi qua e là dei termini matematici, ma riuniti in modo così incerto da farli ritenere come parole difficili con cui un interlocutore cerca confondere l’avversario; all’incirca come nei giornali politici del giorno d’oggi sta scritto incommensurabile invece di grandissimo. Vedi  Opere, vol. III, Ed. Cremonese, 1958, p.249), eppure vengono considerati gli ispiratori di Archimede!

Aristotele

 

La discutibile interpretazione del koris apodeikseos di Archimede come dell’intero contesto ha portato a ritenere che nelle citazioni di Archimede si faccia riferimento a presunti ed ipotetici indivisibili, di cui Democrito si sarebbe servito nelle sue ricerche, poi rigorosamente, sistemate da Eudosso, con metodo geometrico e finitistico, mentre dal brano citato di Plutarco, come da altre testimonianze su Archita (22) apprendiamo che già Eudosso e Archita, si erano serviti nelle loro ricerche anche di enti meccanici, per cui c’è invece da supporre che anche Democrito, mente universale e versatile, si sia servito di enti meccanici nelle sue ricerche, visto tra l’altro che tutto il contesto della lettera ruota attorno ai due modi, tropoi, meccanico e geometrico, di trattare le cose matematiche.

L’ipotesi da avanzare allora è che Archimede con il suo tropos meccanico è dentro una tradizione di pensiero sulla “cosa matematica” o máthema, di natura unitaria,o per usare un termine più filosofico, monistica, che ha le sue radici storiche nel pitagorismo e nella sua propaggine, la scuola italica, secondo la dizione di D. Laerzio (23), sotto la cui denominazione raggruppa Pitagora, Filolao, Parmenide, Zenone, Archita, Eudosso, Democrito, ecc., che contrappone alla scuola ionica, sotto la cui denominazione raggruppa Platone, Aristotele ed altri, la quale ha contrastato e messa a tacere  l’altra,come leggiamo in Plutarco ed evinciamo da testimonianze su Platone e dai neoplatonici.

Platone

 

Si dice che Platone volesse bruciare le opere di Democrito, e se non gli fu possibile, ordì però su questi una vera e propria congiura del silenzio, non citandolo mai nelle sue opere, pur citando i nomi di tutti i cosiddetti presocratici. Il neoplatonico Proclo è uno degli interpreti di questa congiura, se è vero che non cita Democrito, tra tutti i matematici, vissuti prima di Euclide (24), pur avendo Democrito scritto di cose di matematica e pur essendo citato, tra i pochissimi, dal grande Archimede.

Così nelle pieghe della filosofia di Archimede troviamo innanzitutto non un indistinto mito della ricerca della semplicità (25), che non si sa che cosa sia, né un indistinto, generico e divinatoria metodo intuitivo, di cui si sia avvalso e di cui  non si sa ancora che cosa  sia,ma ben precisi principi onto-epistemologici, uno dei quali era la ricerca di simmetrie nella realtà (26), che possiamo dire porta il marchio del famoso principio di Filolao di Crotone, pitagorico ed italico “Tutte le cose che si conoscono hanno numero: senza il numero non sarebbe possibile pensare né conoscere alcunché” (27).

Entro questo principio  Archimede si muove guidato da una rigorosa e concatenata conoscenza di nozioni tecniche, meccaniche, geometriche e aritmetiche, poiché Archimede scrisse libri, come apprendiamo dal suo Arenario, anche di aritmetica, oltre che da una disciplina mentale di natura osservativa, immaginativa e logico-matematica, non riconducibili né all’empirismo aristotelico né tanto meno alla  logica aristotelica (28). Tutto questo può essere raggruppato entro quello che si è detto essere il suo tropos tes theorias dià ton mekhanicon.

Democrito

 

Entro questo quadro epistemologico, troviamo poi i due principi ispiratori della filosofia di Democrito: il pieno, to pleres e il vuoto to kenon. Le figure geometriche, idealizzate quali possono essere un cilindro,un cono, una sfera, uno sferoide o un conoide, immaginate, vuote, di volta in volta grazie a  cerchi-sezione, ritenuti elementi fisici, pieni, vengono riempite o colmate del tutto (sumplerothentos), a loro volta da questi elementi pieni, mettendoli assieme, cosicché le  figure nella loro pienezza fisica trasportate con il loro baricentro su una leva si facciano equilibrio grazie ai loro pesi. Ora in questi principi, specie in quello, di grandezze o corpi indivisibili (atoma meghete o atoma somata) è stato ritenuto che Archimede individuasse l’elemento di debolezza, il vulnus, del suo tropos meccanico, tale da farne solo un semplice strumento di ricerca, ma non di dimostrazione.

Invero, se è indubbio, intanto, che questi sono i due principi fisici con cui Archimede ha costruito le sue dimostrazioni meccaniche e questi sono di origine democritea, che nulla hanno a che fare né con la filosofia di Platone né con quella di Aristotele, bisogna poi stare attenti a non  leggere Archimede con gli occhi delle critiche  di Aristotele e della sua scuola ai cosiddetti indivisibili o grandezze indivisibili, come crediamo che a queste faccia riferimento implicitamente il Dijsterhuis nel suo brano citato, sia perché nel testo archimedeo non sono citate simili nozioni, sia perché sembra che poi il grande Archimede non si vergognasse di essi se alla fine della lettera dice di voler pubblicare  il suo metodo e confida che possa essere diffuso tra i matematici per le loro ricerche, sia perché, infine e soprattutto, Archimede, come già accennato, sembra muoversi in una tradizione di pensiero, nella quale il concetto di atomo, o meglio di elemento pieno, to pleres, aveva ben altra natura epistemologica. Stando a numerose testimonianze Democrito infatti chiamava pieno  quello che molto probabilmente i discepoli hanno chiamato semplicemente atomo, indivisibile (29).

Per la tradizione italica, dei Parmenide e dei Democrito, l’elemento vero è la cosa pensata, non la cosa sensibile ed è grazie a quella che riusciamo ad osservare (theorein) la cosa corporea, sensibile in modo vero.

Aristotele, da empirista confonde la cosa fisica con la cosa pensata, per cui è chiaro che una grandezza indivisibile, in quanto ritenuta  cosa fisica, è cosa contraddittoria, ma se i somata atoma vengono assunti come logoi theoretà, (30), discorsi teorici, come penso che tale fosse, stando alle testimonianze su Democrito, l’atomo-idea in Democrito e tale sembra che sia in Archimede, ovvero l’idea di pieno, allora sfugge alla contraddizione.

Gli atomi o gli elementi  sono indivisibili in quanto li pensiamo come atomi-pieni, senza pori, ma in quanto sono pieni e occupano uno spazio fisico, sono potenzialmente divisibili all’infinito, che è poi il terzo significato di “indivisibile”, attribuito da Simplicio a Democrito (31). Questo spiega perché Democrito, stando sempre alle testimonianze, sostenesse che esistessero atomi sia piccoli sia grandi quanto un mondo (32). Solo entro questo quadro onto-epistemologico poi potevano nascere i moderni concetti della scienza fisica di <punto materiale>, di <corpo rigido>, ecc., incompatibili con una filosofia empiristica di tipo aristotelico.

Gli atomi pieni allora non vivevano solo una vita segreta, di laboratorio, come sostiene il Dijsterhuis, ma avevano avuto una lunga esistenza, dentro la tradizione di pensiero italica (33), di cui Archimede ne continuava la tradizione, ma che era stata soffocata nella cultura alessandrina, sotto il peso della tradizione platonica ed aristotelica.

Da qui le ambiguità di espressione, le difficoltà di dialogo e di rapporto con i geometri alessandrini nel corso delle sue lettere. Con questi la Geometria si era separata dalla meccanica e quindi dalla filosofia.

Per Archimede il máthema è uno, meccanico, geometrico e filosofico, visto che le conclusioni che si traggono dalle dimostrazioni meccaniche sono vere, hanno un contenuto di verità e quindi un contenuto filosofico, oltre quello meccanico e poi anche geometrico, quando vengono dimostrate in modo geometrico (geometricòs), con il solo uso di linee, superfici e figure solide.

Archimede non si burla dei geometri alessandrini, inviando teoremi falsi, che smentisce poi con teoremi veri, poiché questi falsificano quelli solo dopo che sono stati osservati con il tropos meccanico, come è il caso del teorema citato, in precedenza.

Qui troviamo l’interna dialettica del vero e del falso che muove le dimostrazioni meccaniche in relazione alle dimostrazioni geometriche.

Se nelle prime, posti i fondamenti (touton dè upokeiménon,Vedi Sugli equilibri dei piani) il vero ascende dal basso, dai postulati, verso l’alto, le conclusioni vere, nelle seconde il falso invece discende dall’alto verso il basso, cioè le premesse, assunte liberamente, che Archimede chiama nella Sfera e cilindro, lambanomena e le loro conseguenze, nel processo di dimostrazione geometrica, nel caso in cui queste venissero in conflitto con le proposizioni vere della via meccanica.

La conoscenza di tipo meccanico non è una conoscenza vaga, indefinita,preliminare, una “qualche conoscenza” (vedi Appendice), che poi la conoscenza geometrica rende distinta, chiara e piena, ma è la bussola, che indica una direzione di marcia, un tropos appunto, nel suo significato letterale della parola, che guida per Archimede nella libera ricerca geometrica, di premesse e conseguenze possibili, ma compatibili con il vero trovato e dimostrato in modo meccanico. 

Altrimenti essa è un vuoto cercare, un aggirasi verbalistico tra cose assurde, impossibili, non esistenti, come accade a quei geometri, che, astenendosi dal tropos meccanico si illudono di poter scoprire tutto, ma scoprono invece solo cose false,impossibili (euriskein ta adunata, testo greco) come è accaduto allo stesso Archimede, quando né ha voluto fare a meno (34).

Archimede scopre (euriskein) e osserva (theorein) e quindi dimostra (deiknunai) per via meccanica, corrobora, scopre e comprova (apo-deiknunai; apò= ab= a partire da) nel modo geometrico, geometrizzando la dimostrazione (geometroumenen apodeiksin), dimostra, comprova ed espone attraverso enti geometrici(epi-deiknunai: porre innanzi. Vedi a questo proposito quanto scrive Archimede nella sua Quadratura della parabola, nella quale dice di inviare a Dositeo “un certo teorema geometrico, prima di lui non osservato, ma ora è stato da lui osservato, trovato dià ton mekhanicon ed esposto dià thon geometricon;exhibitedtraduce lo Heath “epi-deikhtén”). 

Ma chi garantisce la verità delle proposizioni  meccaniche elementari? Qui veniamo al nucleo profondo dell’epistemologia italica, euclidea ed archimedea: sono le operazioni fisiche elementari che noi possiamo compiere e sperimentare; che è quanto ha messo bene in evidenza il Giusti (35). Archimede allarga il numero di queste, dalla riga e compasso, all’uso della leva, per consentire quadrature e cubature di figure curvilinee,includendovi le operazioni fisiche elementari  conducibili con la leva.

Se il máthema (e non c’era forse bisogno di aspettare per questo il Gödel) vuole garantirsi da possibili contraddizioni interne nascoste nel sistema e non isterilirsi in un vuoto verbalismo, nel suo processo di ricerca e di dimostrazione, deve allora uscire fuori da se stesso, dal suo formalismo linguistico, come pure se vuole avere un suo contenuto di verità, che non sia di sola natura sintattica, ma anche semantica,con risultati fisici e filosofici, se vuole avere insomma un suo contenuto culturale.

Archimede allora non era né geometra, né fisico, né logico, né filosofo, ma queste cose assieme, un grandissimo scienziato, amante della conoscenza, se si vuole, un vero sofòs, sapiente, nel suo antico significato.

E infine un’ultima considerazione nell’indagare il significato epistemologico della ricerca in Archimede.

Un risultato scientifico può ottenere la fede o fiducia, come dir si voglia, la pistis archimedea, della comunità scientifica, solo se esso è sottoposto al controllo degli esperti ed è da questi riconosciuto ed accettato. Che è quanto chiede e pretende Archimede nei suoi rapporti con gli alessandrini. A Conone, mirabile nelle cose matematiche,suo principale amico e sommamente esperto di cose matematiche, riconosce la giusta e necessaria capacità di giudizio sulle sue ricerche matematiche.

E’ questo un atteggiamento assolutamente moderno, poiché si riconosce che la ricerca scientifica non è solo frutto di osservazioni, sperimentazioni e dimostrazioni,di teoria, ma di dialogo, confronto e libera ricerca, insomma un fatto anche sociale, che è la questione su cui si divide e si confronta il dibattito teorico epistemologico contemporaneo: la scienza è una istituzione sociale o un trascendentale storico? (36). 

Ma forse Archimede è andato anche oltre, poiché ha capito nel suo rapporto con gli alessandrini, che poi il cosiddetto rigore,quando di esso se ne fa un feticcio, è frutto per lo più di quelli che oggi chiamiamo paradigmi, o di filosofie a volte apertamente dichiarate, ma a volte non dichiarate e nascoste, o di tradizioni di pensiero, in competizioni tra loro e conflitto, come noi preferiamo chiamare il tutto (37).

Note con in Appendice la traduzione del brano centrale della lettera ad Eratostene, passo dopo passo, con a fianco tra parentesi il testo greco traslitterato.

I fondamenti della Matematica in Archimede, di G. Boscarino 

 

Bibliografia

1) Vedi R. Dedekind, Continuità e numeri irrazionali, in Scritti sui fondamenti della matematica, Bibliopolis, Napoli, 1982, p. 64

2) Vedi C.B. Boyer, Storia del calcolo e il suo sviluppo concettuale, Mondadori, Milano, 2007, p. 312

3) ibidem p. 322

4) Ecco quel che scrive il Wallis a tal proposito riportato in Archimede Opere, Utet, Torino, 1974, p. 558: (Sembra che Archimede) abbia di proposito ricoperto le tracce della sua investigazione,come se avesse sepolto per la posterità il segreto del suo metodo di ricerca” e ancora il Torricelli in questo suo brano:

“Crederei che gli antichi geometri si sono valsi di questo metodo(degli indivisibili) per scoprire i teoremi più difficili, e che poi,nella dimostrazione abbiano preferito un altro metodo, sia per nascondere i segreti dell’arte sia per non offrire ad invidiosi detrattori alcuna occasione di critica” Torricelli, Opere, UTET, Torino, 1975, p.381.

5) Vedi Plutarco, Vita di Marcello, 14,  8-12.

6) op. cit. p. 50

7) Vedi E. Dijksterhuis, Archimede, Ponte alle Grazie, Firenze, 1989, p. 255

8) ibidem, pp. 255-256

9) ib. p. 256

10) ib. pp.256-257

11) Per alcune  interpretazioni in senso platonico o aristotelico si vedano i seguenti testi: P. Delsedine, L’infini numéerique dans l’Arénaire d’Archimède, Ahes, 1970, 345-59, G. Gambiano, Scoperta e dimostrazione in Archimede, in Archimede. Mito Tradizione Scienza, Olski, Firenze 1992, pp.21-41, Virieux Reymond, Le platonisme d’Archimède, Revue philosophique, 169, 1979, pp.189-92. Per non parlare del Frajese il cui testo gronda presunto platonismo di Archimede da tutte le parti. 

 12) Vedi T.L. Heath,  The Works of Archimedes, with a Supplement The Method of Archimedes, Cambridge, 1912

13) Vedi ivi p.314

14) Vedi C. Mugler, Les oeuvres d’Archimède, Paris, 1970, pp. 83,84

15) Vedi P.Ver Eecke Les Oeuvres complètes d’Archimède, Paris, 1959.

16) Vedi A. Frajese, Opere di Archimede,UTET, Torino, 1974, ivi pp. 572,573 e altre

17) Vedi Lettera ad Eratostene, ibidem

18) op. cit. p. 256

19) Vedi Lettera ad Eratostene, ibidem

20) Vedi Archimede, Opere, p. 318

21) Vedi il saggio di Knorr in aggiunta all’opera citata del Dijksterhuis, p. 353

22) Vedi I Presocratici, Bari, Laterza, 47, Archita

23) Vedi Diogene Laterzio, Vite dei filosofi, Bari, Laterza, vol.I p.7

24) Vedi Proclo, Commento al I libro degli Elementidi Euclide, Prologo, cap. IV

25) Come sostiene il Frajese, ripreso da G. Giorello in Archimede e la metodologia dei programmi di ricerca, Scientia, 1975, p. 118

26) Vedi Archimede, Opere, p. 70

27) Vedi I Presocratici, Bari, Laterza, 44, B, 4

28) Che la logica aristotelica sia lontana dalla logica matematica è ben messo in evidenza dai seguenti brani del matematico e logico Peano, che, benché critichi in questi brani anche  la logica scolastica,pur riguardano la logica aristotelica,essendo quella il prolungamento di questa: “E’ noto che la logica scolastica non è di sensibile utilità nelle dimostrazioni matematiche; poiché in queste mai si menzionano le classificazioni e le regole del sillogismo” “Logica matematica è la scienza che tratta delle forme di ragionamento che si incontrano nelle varie teorie matematiche riducendole a forme simili alle algebriche. Essa ha in comune alla logica di Aristotele il solo sillogismo. Le classificazioni dei vari modi di sillogismo,quando son esatte,hanno in matematica poca importanza. Nelle scienze matematiche si incontrano numerose forme di ragionamento irriducibili a sillogismi”. Vedi Giuseppe Peano, Opere scelte, vol. II, Roma, Cremonese  p. 80 e p. 379.

29) “Democrito denomina gli atomi pieno (pleres)    

Vedi S. Luria, Democrito, 197, Bombiani, 2002  

30) ibidem, p. 296, “Democrito riteneva principi degli enti i corpi indivisibili, ma come elementi teorici” (logoi theoretà)

31) Vedi S. Luria, Democrito, 212: “Il termine “indivisibile” (adiaireton) viene usato in molti significati. Esso potrebbe significare 1) “che non è stato ancora diviso, ma potrebbe essere diviso, come ciascuna delle grandezze continue”, oppure 2) “che è assolutamente indivisibile per la sua stessa natura, essendo privo di parti in cui poterlo dividere, come il punto o l’uno, oppure ancora 3) che possiede sia parti sia una grandezza, ma è impassibile per la solidità  e densità come nel caso degli atomi di DemocritoSimplicio, Fisica, I, 2, b 8          

32) Vedi I Presocratici, Bari, Laterza, 68, B, 47

33) Per una storia delle due tradizioni di pensiero vedi Giuseppe Boscarino, Tradizioni di pensiero. La tradizione filosofica italica della scienza e della realtà, Sortino, 1999. Per l’influenza della scuola italica sulla fisica di Archimede  vedi S. Notarrigo, Archimede e la fisica, in Archimede. Mito tradizione Scienza, op.cit. pp. 381-394. 

34) Vedi Archimede, Opere, p.317

35)Vedi Enrico Giusti, Ipotesi sulla natura degli oggetti matematici, Boringhieri, Torino, 1999, p. 76

36) Vedi Giuseppe Boscarino, Le forme e i mutamenti della scienza. Oggettività scientifica e tradizioni di pensiero. Mondotre-La scuola italica, 2004, n.5

37) Per una lettura più formale e meno filosofica sul problema degli indivisibili si può vedere Ripensando Peano e la sua scuola, a cura di Giuseppe Boscarino, la parte sempre di Giuseppe Boscarino Gli indivisibili di Cavalieri alla luce dell’insegnamento di Peano, in Mondotre, 1989, pp. 27-33

 

Appendice

IL METODO (éphodos) DI ARCHIMEDE (Archimedous) SUI TEOREMI MECCANICI (perì ton mekhanikon theorematon) A ERATOSTENE (pros Eratosthenen) 18-28, 1-9

Ma vedendo che tu  (Oròn dè se),per quanto affermo (kathaper légo),sei  zelante e in modo eccellente maestro di filosofia(spoudaion kai philosophias proestota aksiologos)  e che anche sai valutare (kai tetimekota) nelle cose matematiche (en tois mathemasin) <l’osservazione> (ten theorian) che ti si presenta (katà tò upopipton), decisi (edokimasa) di scrivere a te (grapsai soi)  e di esporre nello stesso libro (eksorisai eis tò autò biblion) la proprietà  di un  modo (idioteta tropou tinos) mediante il quale (kat’on)  sarà dato a te (estai parekhomenon soi) di afferrare i mezzi (lambanein aphormas) per avere la capacità (eis tò dunasthai) di <osservare> (theorein) nelle  cose matematiche (en tois mathemasi) per mezzo degli enti meccanici (dià ton mekhankon) alcune di loro (tina ton).

 

Sono convinto poi  (pepeismai dè)  che questo (touto) non è da meno (einai ouden esson) anche nella <dimostrazione> (kai eis ten apodeiksin) degli stessi teoremi (auton ton teorematon). 

E infatti alcune delle cose  (tina ton) che  mi apparvero (moi phanenton)  per prima in modo meccanico (proteron mekhanicòs) in seguito (usteron) furono dimostrate (apedeikhte) in modo geometrico (geometrikòs), perché l’osservazione (dià ten theorian) per mezzo di questo modo (dià toutou tou troupou) è senza dimostrazione (khoris apodeikseos ) (geometrica;nostra aggiunta); difatti  è più facile (etoimoteron  gar esti) avendo ottenuto prima  (prolabonta) per mezzo di questo modo (dià tou tropou)  una qualche conoscenza (gnosin tina) delle cose cercate (zetematon) fornire la dimostrazione (porisastai ten apodeiksin) piuttosto che (mallon) cercare (zetein) senza alcuna conoscenza preliminare (e medenos egnosménou).

Perciò di quei teoremi (Dioter kai ton theorematon touton), dei quali (on) Eudosso (Eudoksos) trovò per primo la dimostrazione (ekseureken protos ten apodeiksin; geometrica, nostra), sul cono e la piramide (perì tou konou kai tes puramidos) che (oti) il cono è la terza parte del cilindro (o men konos triton meros tou kulindrou), la piramide del prisma (e de puramis tou prismatos), aventi (ton ekhonton) la stessa base (ten auten basin) e altezza uguale (kai upsos ison), non piccola parte potrebbe essere attribuita (ou micron merida  aponeimai an tis) a Democrito (Democrito) che per primo fece conoscere (proto apophenameno) l’asserzione (ten apophasin) riguardante la (ten) (conoscenza = mathesin: nostra) sulla figura suddetta (perì tou eiremenou skhematos) senza dimostrazione (khoris apodeikseos; geometrica, nostra).

Scriviamo dunque (gràfomen oun) per prima (proton)il primo dei teoremi(to kai proton) apparso (phanen)per mezzo di enti meccanici (dià ton mekhankon) che ogni segmento di sezione di cono rettangolo(oti pan tmema orthogonìon konou tomés) è i quattro terzi del triangolo (epitripton estin trigonou tou) avente (ekhontos) la stessa base e l’altezza uguale(ten auten basin kai upsos ison),dopo (metà) ciascuno ( dei teoremi) (eskaton ton) osservati (theorethenton)per mezzo dello stesso modo (dià tou autou tropou); quindi alla fine del libro (epì telei de tou bibliou) scriviamo le dimostrazioni geometriche (grafomen tas geometrikas apodeikseis) di quei teoremi (ekeinon ton theorematon), dei quali ti mandammo prima gli enunciati (on apesteilamen soi proteron protaseis).