La tavola pitagorica: un falso storico dimenticato

La Tavola Pitagorica è nota a tutti fin dalle prime classi della scuola elementare; eppure, l’analisi delle sue origini storiche e della sua struttura matematica riservano varie sorprese. In questo articolo scandaglieremo quello che potremmo definire il suo albero genealogico, ponendo in evidenza un falso storico troppo spesso dimenticato: la Tavola Pitagorica  non era una tavola di moltiplicazione, come noi oggi la consideriamo, bensì un abaco attribuito ai neopitagorici, la cui struttura suggeriva chiaramente l’idea della notazione scritta posizionale dei numeri. In un successivo articolo, inoltre, scopriremo assieme molte sue curiose proprietà, che ricordano quelle dei quadrati magici.

L'abaco a polvere

La costruzione di strumenti per computare è comune a tutti i popoli dell'antichità. Essi sono stati utilizzati anche dopo l'introduzione dei sistemi di numerazione scritta, sia perchè il calcolo strumentale è più rapido, sia perché, fino a tempi abbastanza recenti, erano poche le persone che sapevano leggere e quindi utilizzare la numerazione scritta. Gli antichi Fenici, gli Ebrei e poi i Greci, gli Etruschi e i Romani usavano come strumento di computazione il cosiddetto abaco a polvere (vedi approfondimento) : una tavoletta rettangolare, di legno o di bronzo, chiamata abak dai Fenici, avak dagli Ebrei, aβαχ dai Greci, apcar dagli Etruschi, abacus dai Romani, termini che derivano tutti dall'antica parola fenicia abak = polvere. Sulla tavoletta, infatti, era incollata della polvere di colore verde (pulvis hyalinus) che permetteva di tracciare con una bacchetta (radius) simboli numerici e figure geometriche, utilizzandola, così, come noi oggi usiamo la lavagna. I primi a costruire un abaco furono i Babilonesi, che intorno al V, IV sec. a.C. utilizzavano già uno strumento di marmo di forma rettangolare, su cui erano incisi due gruppi di undici linee verticali attraversate da una linea orizzontale. Nell'isola di Salamina, nel 1846 (G.Loria, op. cit. p. 749), è stato ritrovato un esemplare di tale abaco (figura 1).

Figura 1 – L’abaco di Salamina

Figura 1 – L’abaco di Salamina

Abaco a polvere

L'abaco a polvere era noto sia ai greci sia agli etruschi, dai quali i romani lo appresero. È menzionato da numerosi autori antichi. Cicerone (106-43 a.C.) ne parla nelle sue Tuscolanae Disputationes (Quaestio V,23): "…..ex eadem urbe humilem homunculum a pulvere et radio excitabo, qui multis annis post fuit Archimedes", da cui risulta che Archimede usava tale tipo di abaco, per disegnare le figure geometriche. Anche Virgilio (70-19 d.C.) lo cita nelle sue Egloghe (III,40): "……………………………. si quis fuit alter / Descripsit radio totum qui gentibus orbem". Persio (34-62 d.C.) scrive nella Satira I : " Nec qui abaco numeros et secto in pulvere metas, /Scit risisse vafer, multum gaudere paratus./ Si cynico barbam petulans nonaria vellat." Marziano Capella (sec. V d.C.) nella sua enciclopedia sulle sette arti libertali De Nuptiis Philologiae et Mercuri, scritta in forma allegorica, lo descrive ampiamente nei libri dedicati alla Geometria e all'Aritmetica: "Patent denique jam ingressurae artes quae decentem quamdam, atque hyalini pulveris respersione coloratam velut mensulam gestitantes. Illud quippe quod gerulae detulerunt, abacus nuncupatur, res depingendis designandisque opportuna formis. Quippe ubi vel lineares ductus, vel circulares flexus, vel triangulares abraduntur aufractus." (Liber VI, De Geometria). "Sic abacum perstare jubet, sic tegmine glauco pandere pulvereum formarum ductibus aequor." (Liber VII, De Arithmetica).

L’abaco a lapilli

L’abaco a lapilli (vedi approfondimento), usato successivamente dai Romani,  era costituito da una tavoletta rettangolare con scanalature parallele al lato minore, al di sopra delle quali erano impresse le lettere del sistema di numerazione romano, per indicare l'ordine delle unità al quale ciascuna scanalatura corrispondeva. Cominciando da destra, la prima scanalatura era quella delle unità frazionarie (non sempre presente), la seconda era dedicata alle unità semplici e sopra di essa figurava il numerale I, la terza era dedicata alle decine e aveva sovraimpresso il numerale X, la quarta scanalatura era quella delle centinaia e aveva il corrispondente numerale C, e così via. All'interno di ciascuna scanalatura, secondo i modelli di abaco che si susseguirono nel tempo, erano disposti tanti sassolini (calculi, da cui il termine calcolare) o dischetti (abaculi) o monetine (denarii supputatorii) quanti erano le unità di quell'ordine da rappresentare.Se in corrispondenza di ciascuna scanalatura (figura 2), iniziando dalla prima a sinistra non vuota, si scrive il numerale romano corrispondente all'ordine delle unità della scanalatura tante volte quanti sono i calculi in essa contenuti, si ottiene la rappresentazione scritta del numero indicato dall'abaco, secondo il sistema di numerazione additivo romano (vedi approfondimento). Il numero era, quindi, pensato come somma delle unità dei vari ordini.

Figura 2 – L’abaco romano a lapilli in due versioni diverse

Figura 2 – L’abaco romano a lapilli in due versioni diverse

Abaco a lapilli

Di tale abaco, utilizzato dai greci, dagli etruschi e dai romani, esistono numerose citazioni nella letteratura classica (Polibio, Plutarco, Erodoto, Lisia, Orazio). Basti ricordare quella di Orazio, il quale nella satira I,6 descrive i fanciulli che si recano a scuola portando a tracolla la tavoletta e la cassettina contenente i calculi:

"Causa fuit pater bis, qui macro pauper agello
Noluit in Flavi ludum me mittere, magni
Quopueri magnis e centurionibus orti,
Laevo suspensi loculos tabulamque lacerto,
Ibant octonis referentes idibus aera."

Come fossero eseguiti i calcoli con l'abaco a lapilli non è stato tramandato ed è perciò sostanzialmente sconosciuto, anche se sono state avanzate varie congetture. Ciò che è certo è che il suo uso doveva essere semplice e rapido, essendo usato dai ceti non colti e dai ragazzi a scuola, come ci racconta Orazio. Dell'abaco a lapilli sono pervenute fino a noi due testimonianze iconografiche: un'effigie incisa nella gemma calculatoria conservata al gabinetto delle medaglie della Biblioteca Nazionale di Parigi e un'altra scolpita in un sarcofago romano conservato al Museo Capitolino di Roma. Nella gemma calcolatoria di Parigi è rappresentato un ragazzo seduto davanti a un tripode contenente i calculi e che regge con la mano sinistra la tavola (Chabauillet: Catalogo n°1898 ; Orioli: Sopra uno specchio coi Dioscuri, e la gemma così detta calcolatoria esistente a Parigi. In “Bullett. Istit. 1865”, pp. 152,157.). Nel sarcofago romano, invece, è rappresentato uno schiavo che tiene fra le mani una tavoletta con dei sassolini (Del Museo Capitolino tomo IV, tav. 20 Roma, Fulgoni 1782). L'uso dell'abaco a lapilli si protrasse fino all'inizio del sec. XVI, com'è testimoniato dallo scolio a Beda il Venerabile del Noviomago (Scholia in Bedam: cap. De Indigitatione): "Est et alia numerorum ratio per calculos, in tabula delineata, ductibus parallelispositos quae et ipsa vetus est, neque ab usu recessit: nisi quod loco calculorum, nummie nunc utantur, atque hujus est et fuit usus in numerandis speciebus negotialibus".

Il sistema di numerazione scritta degli antichi romani

Nel sistema di numerazione additivo, un numero è ottenuto per somma dei numeri indicati da opportuni simboli, i quali hanno il medesimo valore quale che sia la loro collocazione all'interno della rappresentazione dell'intero numero. Il sistema di numerazione degli antichi romani è un misto fra sistema additivo, sottrattivo e moltiplicativo, cioè è additivo in senso lato, in quanto sottrazioni e moltiplicazioni sono riconducibili a addizioni. Per esempio, il numero 43 è rappresentato con il numerale XLIII , in cui i simboli X, L e I rappresentano rispettivamente dieci, cinquanta e uno. Nella prima parte del numerale è fatta la sottrazione fra cinquanta e dieci (XL), mentre nella seconda parte si somma tre volte l'unità (III). La regola per stabilire se si deve sommare o sottrarre è semplice: una cifra si somma alla successiva se questa è minore, mentre si sottrae dalla successiva se questa è maggiore. Inoltre, per rappresentare il numero novemila, per esempio, i romani usavano il numerale IXM, che rappresenta il numero in questione come prodotto fra nove (IX) e mille (M). Altro carattere spurio del sistema di numerazione romano era costituito dalla base del sistema: dieci (base primaria) e cinque (base ausiliaria) per la parte intera, dodici per la parte frazionaria del numero (l’unità semplice axis era divisa in dodici once). Infatti, oltre i numerali per i gruppi di potenze di dieci i romani usavano anche numerali particolari per rappresentare raggruppamenti di unità in base cinque: V per cinque, L per cinquanta, D per cinquecento.

L’abaco a bottoni

In due lettere inviate a Giusto Lipsio, il 15 marzo 1593,  e all’erudito tedesco Gioacchino Liebbard (detto Camerario), il 18 agosto dello stesso anno, Marco Velsero fornisce il disegno di un terzo tipo di abaco usato dai romani e lo commenta: l’abaco a bottoni (vedi approfondimento)[1]. Nel 1853, un illustre archeologo, il padre gesuita Raffaele Garrucci, studiando una raccolta di antichi bronzi di proprietà di Carlo Bonichi, trovò un esemplare di tale abaco, di formato tascabile, che è stato conservato al museo Kircheriano[2]. Si tratta di una lamina di bronzo, lunga 11.5 cm e larga 9.4 cm, recante nove scanalature parallele al lato minore divise in due parti da una linea orizzontale (figure 3 e 3a).

Figura 3 - Disegno dell’abaco a bottoni

Figura 3 - Disegno dell’abaco a bottoni rinvenuto da Raffaele Garrucci  fra i bronzi di Carlo Bonichi. In Raffaele Garrucci, Notizia di una tavoletta calcolatoria romana, Bullettino Archeologico Napolitano, Nuova serie, anno II, Decembre 1853, pagg. 93-96.

Figura 3a - Modello in bronzo dell’abaco a bottoni rinvenuto da Raffaele Garrucci

Figura 3a - Modello in bronzo dell’abaco a bottoni rinvenuto da Raffaele Garrucci

 

Ciascuna scanalatura o alveolo della parte inferiore contiene quattro bottoni a forma di piccoli chiodi ribattuti nella parte posteriore (claviculi umbellati o aerae), ad eccezione della seconda che ne ha cinque. Le scanalature superiori, invece, hanno ciascuna un solo bottone, che vale il numero di bottoni della scanalatura inferiore maggiorato di uno: cinque bottoni per gli alveoli della parte intera (dal terzo al nono), sei bottoni per l’alveolo delle once (il secondo). Iniziando da destra, le prime due scanalature sono dedicate alle unità frazionarie. La prima è priva della parte superiore ed è divisa in tre parti dedicate alla semuncia=1/2 uncia, sicilicus=1/4 uncia, sextula= 1/6 uncia, la seconda è dedicata alle once (uncia = 1/12 axis), mentre le rimanenti sette si riferiscono alla parte intera del numero: unità semplici (axis), decine, centinaia, migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia, milioni.Le successive scanalature dell'abaco sono dedicate rispettivamente alle unità semplici I, alle decine X, alle centinaia C, alle migliaia ﴾I﴿, alle decine di migliaia ﴾﴾I﴿﴿, alle centinaia di migliaia ﴾﴾﴾I﴿﴿﴿, ai milioni [3]. La rappresentazione di un numero era effettuata spostando, verso la linea di separazione fra le due parti dell'abaco, un numero di bottoni pari al numero di unità da rappresentare per ciascun ordine. Per esempio, il numero otto era rappresentato spostando verso la linea orizzontale, nella scanalatura delle unità semplici (la terza da destra), tre bottoni inferiori e quello superiore.

Abaco a bottoni

L'abaco a bottoni era di origine greca. I romani lo appresero dai greci e lo perfezionarono. Il suo uso venne meno già nel secolo XIV, vale a dire due secoli prima rispetto all'abbandono dell'abaco a lapilli, probabilmente per la ragione che essendo più complicato di quello a lapilli, era utilizzato soprattutto dai ceti più abbienti, i quali vennero per primi a conoscenza sia del nuovo abaco a colonne sia del nuovo sistema posizionale di numerazione scritta. Questo utilizzava le cifre indiane, diffuse nell'Occidente europeo nel secolo XIII principalmente per opera di Leonardo Pisano detto Fibonacci, che nel suo celeberrimo Liber Abaci (1202) non solo illustrò il nuovo sistema, ma espose anche, utilizzandolo, tutta l'aritmetica elementare allora nota. Probabilmente, la diffusione in Europa del sistema posizionale e delle cifre indoarabiche avvenne gradualmente attraverso gl'intensi contatti commerciali dei ricchi mercanti italiani con il mondo orientale, particolarmente fiorenti nel Basso Medioevo (secoli XI-XIII). Tali mercanti conoscevano, per motivi di contabilità commerciale, il modo di calcolare basato sul principio di posizione e sulle cifre indiane, già in uso in oriente. In ogni caso, si tenga presente che nel 1156 appariva nel Mondo Occidentale la prima traduzione in latino, con il titolo Liber algorismi de numero indorum, dell'opera scritta negli anni 800-825 dal matematico arabo Mohammed Ben Musa detto Al Khovarizmi, nella quale è illustrato il sistema di numerazione posizionale usato dagli Indiani già dal secolo V. Tuttavia, il merito della diffusione di tale sistema in Occidente è dovuto all'opera citata di Leonardo Pisano, che ebbe gran diffusione e influenza in Europa. Quanto fosse difficile il calcolo strumentale con gli abachi è testimoniato da vai racconti. Nei secoli XIV e XV pare che chi fosse interessato ad apprendere l’arte del calcolo dovesse rivolgersi alle università tedesche o francesi per le operazioni più semplici (addizioni e sottrazioni), ma a quelle italiane, più all’avanguardia, per le operazioni più complesse (moltiplicazioni e divisioni). Infatti, un’operazione che un bambino oggi eseguirebbe in pochi minuti richiedeva allora, da parte di un adulto, ore e ore di applicazione! [G. Ifrah, op. cit. pp. 276-277]

L’abaco a gettoni o Mensa Pythagorea

L'osservazione attenta dell'abaco e l’applicazione ad esso del principio di economia possono spiegare in quale modo, probabilmente, avvenne il passaggio dall'antico abaco romano alla sua versione medioevale l'abaco a colonne o a gettoni, che nelle sue successive varianti risultò uno strumento di calcolo in perfetta sintonia con il sistema posizionale di numerazione scritta, tanto da perdere la sua ragion d'essere e scomparire gradualmente dall’uso.

L'abaco antico, nelle sue varie forme costruttive esaminate, conteneva, infatti, già l'idea del valore posizionale delle cifre, in quanto ogni scanalatura  era dedicata a un ordine di unità e quindi determinava il ‘peso’ dei calculi in essa contenuti. Per esempio, tre sassolini entro la scanalatura delle unità semplici hanno il valore di tre unità semplici, mentre se contenuti nella scanalatura delle centinaia hanno il valore di tre centinaia, e così via. La rappresentazione strumentale dei numeri fornita dall'abaco era, quindi, posizionale, mentre quella scritturale, tramite i numerali, era additiva.

Il sistema utilizzato per numerare si basava, già da tempi remoti, sulla possibilità di pensare un numero come somma delle sue unità semplici, raggruppate in gruppi di potenze della base del sistema di numerazione adottato. Nel sistema di numerazione decimale, pertanto, i successivi gruppi contengono tante unità semplici quante ne indicano le successive potenze naturali della base ‘dieci’: 100=1, 101=10, 102=100, 103=1000, 10n…..unità. Come è noto, tali gruppi sono considerati essi stessi ‘unità complesse’, rispettivamente del primo ordine o semplici, del secondo ordine o decine, del terzo ordine o centinaia, del quarto ordine o migliaia, e così via. In tal modo, nel sistema decimale, dieci unità di un certo ordine formano un'unità dell'ordine immediatamente superiore. Per rappresentare un numero si può ricorrere a simboli, che possono essere sia oggetti sia segni scritti.

Nel caso della scelta di simboli-oggetto, si ha l'abaco nelle sue varie forme e la rappresentazione strumentale dei numeri. Per rappresentare le unità semplici si usano simboli-oggetto tutti uguali fra loro (per esempio i calculi) in quantità pari al numero massimo di unità ammissibile per ogni ordine (nove nel sistema decimale), oppure in quantità minore, se si conviene di assegnare ad alcuni di essi un valore diverso, come avviene in diverse varianti sia dell’abaco a lapilli sia dell'abaco a bottoni (ove il bottone superiore vale il numero di bottoni inferiori più uno). La distinzione dei vari ordini di unità è affidata alla diversa posizione delle scanalature in seno all’abaco.

Nel caso, invece, di simboli-scritti (cifre), si ottiene un sistema di numerazione scritta e la rappresentazione scritturale dei numeri tramite numerali.

In tal caso sarebbe necessario un doppio sistema di simboli: un insieme infinito di simboli per le infinite ‘unità complesse’ e un insieme finito di simboli per rappresentare il numero finito delle ‘unità semplici’ (nove nel sistema di numerazione decimale). Il principio di economia applicato all’antico abaco romano portò a utilizzare simboli-scritti al posto dei sassolini o dei bottoni ponendo dentro ciascuna scanalatura un gettone con impressa la cifra che ne indica il numero. Nell’esempio dell’abaco a colonne di figura 4, al posto di sette sassolini (o bottoni) che dovrebbero essere posti nella colonna delle decine si utilizza un solo simbolo-segno: la cifra 7. In cima ad ogni colonna continua, inoltre, a comparire la cifra dell’ordine di unità cui la colonna è dedicata.

Figura 4 – L’abaco medioevale a colonne o a gettoni.

 

 

Figura 4 – L’abaco medioevale a colonne o a gettoni. Per maggiore chiarezza i gettoni riportano le attuali cifre indo-arabe e non gli apici di Boezio originali.

 

 

Il termine gettone deriva dal latino iacere che significa gettare. Infatti, i calculi erano gettati entro le scanalature: il gettone sostituì così di nome e di fatto l’operazione del ‘gettare i sassolini’, soppressa nel nuovo abaco a colonne o a gettoni, detto anche abaco di Boezio in quanto descritto verso la fine del primo libro dell’Ars Geometrica, attribuita da alcuni al console romano Manlio Torquato Severino Boezio (480-526), per il fatto che negli antichi manoscritti essa si trova assieme all'opera De Institutione Arithmetica, da lui compilata come rifacimento dell'Introduzione Aritmetica di Nicomaco di Gerasa (I secolo d.C). Tali cifre [4], impresse nei gettoni, furono chiamate apici di Boezio o figure d’abaco (figura 5), ed erano molto somiglianti alle cifre arabe dette ghobar (figura 6) diffuse dagli arabi della Spagna e a quelle sanscrite dette devanagari.

Figura 5 – Gli apici di Boezio

Figura 5 – Gli apici di Boezio in un manoscritto latino dell’ XI sec.

Figura 6 – Cifre ‘indo-arabe’ dette ghobār

Figura 6 – Cifre ‘indo-arabe’ dette ghobār

La grafia degli apici di Boezio subì molte varianti (figura 7) dovute alla fantasia dei copisti, che arrivarono a ruotare sul fianco e persino a riprodurre soltanto una parte degli archetipi originali, e cominciò a stabilizzarsi in forme vicine a quelle delle nostre cifre attuali, soltanto dopo il XIV secolo. Tale somiglianza ha fatto sospettare ad alcuni studiosi (Romagnosi[5], Vossio, Ginanni [6]) che le origini del nostro attuale sistema di numerazione scritturale decimale potessero risalire a Pitagora o alla sua scuola, in quanto il nuovo abaco nell’Ars Geometrica è denominato Mensa Pythagorea, e  attribuito ai neopitagorici della scuola alessandrina, cui apparteneva Boezio.  

Figura 7 – Evoluzione della grafia delle cifre ‘indo-arabe’

Figura 7 – Evoluzione della grafia delle cifre ‘indo-arabe’

Tavola Pitagorica o Arco Pitagorico, questi gli altri nomi con i quali fu battezzato il nuovo abaco a colonne, che ebbe particolare diffusione nelle scuole claustrali medievali spagnole, per opera del teologo e matematico francese Gerberto (950-1003 d.C.), divenuto papa col nome di Silvestro II nel 999. Lo stesso Boezio dà spiegazione del diverso ‘peso’ che gli apici hanno nelle diverse colonne dell’abaco. Secondo le moderne indagini filologiche, tuttavia, sembra che l’Ars Geometrica non sia di Boezio, bensì un’opera medievale risalente al secolo XI, e che raccolga contributi di vari autori. La denominazione Mensa Pythagorea deriverebbe, in tal caso, dalla sua attribuzione ai tardo-neopitagorici e non ai neopitagorici della scuola alessandrina, seguaci diretti dell’antica scuola pitagorica. Su questa diversa attribuzione poggia la tesi di coloro che confutano le origini pitagoriche delle cifre decimali a favore dell’origine indiana [7][[8]] (vedi approfondimento).

Due ipotesi a confronto

Le nostre cifre derivano da Pitagora?
I neo-pitagorici greci di Alessandria le diffondono nella Roma imperiale, poi nel Vicino Oriente e in India tramite gli scambi commerciali. Da Roma il sistema di numerazione posizionale viene esportato in Spagna e nelle province romane dell’Africa settentrionale. Gli arabi lo apprendono durante le loro conquiste di queste province. Sostengono tale tesi : M. Chasles, A. Humboldt. Non esistono, però, documenti storici che attestino la conoscenza del sistema di numerazione posizionale da parte dei greci; al contrario le fonti storiche confermano l’uso da parte dei greci del periodo alessandrino della notazione numerica additiva simile a quella romana, e della notazione numerica alfabetica simile a quella ebrea. (G. Ifrah, Storia universale dei numeri, Mondadori, Milano 1989, p. 240). Se i matematici greci avessero veramente ideato il sistema di numerazione decimale posizionale lo avrebbero certamente applicato e certamente Aristotile ne avrebbe fatta menzione nelle sue opere, come osserva Andrea Stiattesi (op. cit. p. 396).
Le nostre cifre derivano dagli Indiani?
Le cifre, compreso lo zero, e la notazione decimale posizionale sono inventate dagli indiani del nord nel V sec. d.C. (molti i documenti storici che lo attestano). Gli indiani diffondono l’invenzione presso i “greci di Alessandria nell’epoca classica del Sincretismo. Da essi sarebbe passata ai Neo-Pitagorici (di cui è nota la propensione ad accogliere le idee braminiche), l’ultimo dei quali è appunto Manlio Severino Boezio; da questo l’avrebbe appresa Gerberto, il quale, a sua volta, l’avrebbe diffusa in tutta l’Europa, non esclusa la Spagna; quivi gli arabi l’avrebbero trovata e se ne sarebbero impadroniti.” (Gino Loria, Le scienze esatte nell’antica Grecia, Hoepli, Milano, 1914, pp. 800-807; Rocco Bombelli, op. cit. cap. IX “Se gli antichi popoli italici conoscessero la numerazione indiana, detta volgarmente araba) Gli stessi arabi del Vicino Oriente chiamavano hindi le cifre da loro utilizzate, lasciando chiaramente trasparire le loro origini indiane: Cifre Hindi Gli apici di Boezio in una delle grafie utilizzate:

Dall'abaco all'algoritmo

Il significato del nuovo abaco medioevale (Mensa Pythagorea) era mutato profondamente rispetto all’antico abaco romano, in quanto esso, oltre a fornire uno strumento di computazione, consentiva ormai di rappresentare un numero ‘per mezzo di numerali’, a meno dello zero, realizzando un notevole passo verso il trasferimento del principio di posizione dall’abaco alla rappresentazione scritta dei numeri.

Il passo successivo, nello spirito di una maggiore ‘economia’ nella rappresentazione dei numeri, sarebbe stato eliminare anche le scanalature (o colonne) sostituendole con simboli scritti, in quanto esse, nell’abaco a colonne, servivano essenzialmente per rappresentare i diversi ordini delle unità, essendo venuta meno la loro funzione di ‘contenitori’ dei calculi o dei bottoni. Utilizzando le cifre arabiche, potremmo rappresentare, per esempio, il numero 2074 nel seguente modo:

                                                    1000     100      10         1

                                                          2         0        7         4

cioè ponendo sotto al simbolo-segno (numerale) di ciascun ordine (1, 10,100, 1000, ecc…), la cifra che indica il numero di unità di quell’ordine che contribuisce alla formazione del numero in questione. Tale tipo di scrittura, che fu in uso fin da tempi antichissimi presso i cinesi [9], era moltiplicativa ma aveva in nuce il principio posizionale [10]. Essa non è altro che la trasposizione in forma scritta dell’abaco: al posto delle scanalature ci sono le cifre 1, 10, 100, 1000, …. che indicano i vari ordini di unità, e al posto dei calculi ci sono le cifre che indicano le unità dei vari ordini che concorrono alla formazione del numero rappresentato, che si ottiene addizionando i prodotti parziali delle cifre incolonnate (2x1000 + 0x100 + 7x10 + 4x1).

Spingendo ancora oltre il principio di economia, possiamo anche evitare di scrivere i simboli (di numero infinito) dei vari ordini di unità, essendo

 tali simboli superflui se si conviene di affidare alla posizione delle cifre, indicanti il numero di unità dei vari ordini che concorrono alla formazione del numero in questione, il compito di specificare l’ordine delle unità stesse. Si ha così, infine, il ben noto principio posizionale applicato alla numerazione scritta. Ė però necessario, a questo punto, introdurre un altro simbolo, lo zero, per indicare l’assenza di unità.  Nell’esempio precedente, fatta questa convenzione, basta, dunque, sopprimere la riga superiore delle cifre indicanti i vari ordini di unità, per ottenere la rappresentazione posizionale del numero come noi oggi la utilizziamo: 2074.

I cinesi, nella loro numerazione scritta, seguirono un percorso simile a quello tracciato; per esempio, dapprima scrivevano 23 in forma moltiplicativa e additiva nel seguente modo

 

e poi, eliminando la cifra del 10:

 

 

 

In tal maniera, per rappresentare in forma scritta un numero, comunque grande esso sia, risultano sufficienti i simboli grafici delle unità semplici e dello zero, di numero pari alla base del sistema di numerazione utilizzato (dieci nel sistema decimale).

L’iter ipotizzato fu realmente realizzato, quando nell’abaco a colonne furono aboliti i gettoni e le cifre furono scritte direttamente sopra le colonne. Dunque, fu sempre più manifesta l’identificazione concettuale dell’abaco a colonne con l’algoritmo o algorismo [11], termine con cui inizialmente era chiamato il sistema di numerazione scritta posizionale nei paesi latini, tant’è che i matematici italiani dei secoli XII e XIV usavano indifferentemente i termini abaco e algoritmo, per riferirsi al sistema numerico posizionale. Quest’ultimo, pertanto, rese obsoleto l'uso dell'abaco stesso, che era giustificato principalmente dalle difficoltà di eseguire i calcoli con il vecchio sistema di numerazione additivo. Infatti, il nuovo sistema di numerazione posizionale dava la possibilità sia di rappresentare i numeri con maggior economia di simboli, sia di semplificare i procedimenti del calcolo scritto, e pertanto vanificò il vantaggio dell'abaco, decretandone, in Europa, la definitiva scomparsa. Con l’identificazione fra abaco e algoritmo si avviava a conclusione la disputa fra abachisti e algoritmisti, vale a dire fra coloro che sostenevano i vantaggi del calcolare per mezzo dell’abaco oppure con il sistema di numerazione scritta (figura 8). Tuttavia, non si pensi che il nuovo sistema numerico ‘indiano’ abbia avuto vita facile, tutt’altro: le ‘tavole per contare’ (vale a dire gli abachi a gettone) continuarono a sopravvivere in Europa fino al XVIII secolo come è attestato dal loro uso ancora richiesto ai pubblici ufficiali dell’Amministrazione britannica (G. Ifrah, op. cit. pp.278, 290). Furono soprattutto i commercianti, i finanzieri, i banchieri e i funzionari statali a non abbandonare l’uso dell’abaco a gettoni, fin quando la Rivoluzione francese ne proibì l’uso. Evidentemente non si fidavano ancora dell’esattezza dei calcoli eseguiti ‘all’indiana’.

Figura 8  - Un‘immagine contenuta nell’opera Margarita Philosophica

Figura 8  - Un‘immagine contenuta nell’opera Margarita Philosophica di Gregor Teisch (1503) che illustra in forma allegorica la diatriba fra abachisti (rappresentati da Pitagora) e algoritmisti (rappresentati da Boezio). Una figura femminile personifica l’Aritmetica e, dallo sguardo rivolto verso Boezio alla sua destra, si arguisce la preferenza data al calcolo tramite le nuove cifre indiane.

 

Un errore di trascrizione

Nel riprodurre successivamente il manoscritto dell’Ars Geometrica di Boezio, il copista, per errore, sostituì l’abaco neopitagorico con la comune tavola di moltiplicazione, di aspetto assai simile, conservando però per quest’ultima il nome di Tavola Pitagorica, che invece designava l’abaco neopitagorico. Dunque, la tavola di moltiplicazione che tutti noi conosciamo come Tavola Pitagorica non deve il suo nome né a Pitagora né ad aluno dei suoi seguaci, bensì soltanto a un errore di trascrizione. Il primo a rilevare l’errore è stato Mannert nel 1801 (De numerorum, quos Arabicos vocant, vera origine pythagorica, Norimberga, 1801)[12]. Anche Guglielmo Libri, celebre matematico e bibliofilo dell’Ottocento, prese in considerazione tale errore, tant’è che nella sua tesi sull’origine delle nostre cifre menziona l’abaco pitagorico: Note sur l’origine de nos chiffres et sur l’Abacus des Pythagoriciens (Journ. De Mathèmatiques, T. IV, 1839, pp. 261-280). Tuttavia, ancor oggi si perpetua questo falso storico e si continua ad attribuire a Pitagora la paternità della tavola di moltiplicazione.

Testi di approfondimento

  • Francesco Orioli – Sull’origine dei numeri etruschi e romani. Opuscolo letterario di Bologna, 1 (1818) p.208.
  • Michel Chasles – Comptes Rendus hebdomadaires des Sciences de l’Academie des Sciences de Paris , 16 anno 1843, 17 anno 1843, 64 anno 1867.
  • Severino Boezio - De Institutione Arithmetica, (a cura di G. Friedlein), Lipsia, 1867
  • Rocco Bombelli – Studi archeologico-critici circa l’antica numerazione italica, 1, Roma 1876.
  • Baldassarre Boncompagni – Bollettino di bibliografia e storia delle scienze matematiche, 10 anno 1877, 14 anno 1881.
  • E. Narducci – Bollettino di bibliografia e storia delle scienze matematiche, 15 anno 1882, 14.
  • V.G. Enestrom – Bibliotheca mathematica,  (2) 8 anno 1894.
  • Paul Tannery – L’Intermediaire des Mathematiciens,  4 anno 1897.
  • Ettore Bortolotti, Duilio Gigli – Aritmetica pratica, in “Enciclopedia delle Matematiche Elementari e Complementi”, vol. 1° parte 1a, Hoepli, Milano 1929.
  • Georges Ifrah – Storia universale dei numeri , Mondadori , Milano, 1989.

[1] Marco Velsero, Epistolae ad Viros Illustres.  Opera Omnia Norimberga 1682, pp. 820,842. TORNA SU

[2] Raffaele Garrucci, Notizia di una tavoletta calcolatoria romana, Bullettino Archeologico Napolitano, Nuova serie, anno II, Decembre 1853, pagg. 93-96. TORNA SU

[3] Gli ultimi quattro numerali indicati sono quelli arcaici, sostituiti successivamente dai simboli M  X  C  M . Le linee orizzontali indicano che il numero dev’essere moltiplicato per 1000. TORNA SU

[4] Non comprendevano ancora lo zero. TORNA SU

[5] Romagnosi, Supplemento ed illustrazioni alla seconda parte delle Ricerche storiche sull’India di  Robertson. Tomo II, VI, Milano, Ferrario 1827 pp. 58 e seguenti. TORNA SU

[6] Ginanni, Dissertatio mathematica critica de numeralium notarum minuscolarum  origine.  In: "Raccolta di Opuscoli scientifici e filologici” a cura di Calogierà, Tomo 48, pp. 19-110, Venezia, 1753. Ginanni sosteneva in tale opera che le nostre attuali cifre fossero nate in Italia e usate già nel sec. II d.C. sotto l’impero di Marco Aurelio. TORNA SU

[7] Andrea Stiattesi, Sull’Aritmetica.Dissertazione storica-critica. In: “Bullettino di Bibliografia e di Storia delle Scienze Matematiche e Fisiche”, Tomo III (novembre 1870). TORNA SU

[8] Gino Loria, Le scienze esatte nell’antica Grecia. Hoepli, Milano, 1914 pp. 800-807. TORNA SU

[9] Guglielmo Libri, Histoire des sciences mathematiques en Italie, 1, Paris, 1838, pp. 202-203. TORNA SU

[10] Il principio posizionale della numerazione scritta fu noto ai babilonesi nel XX-IX sec. a.C., ai cinesi nel  II sec. a.C. – II sec. d.C., e ai maya nel III-VI sec. d.C., ma nessuno di questi popoli lo seppe applicare compiutamente. TORNA SU

[11] Il termine algoritmo deriva dalla latinizzazione di Al Khovarizmi, soprannome del matematico arabo Mohammed Ben Musa vissuto nel sec. IX, indicante la provincia persiana del Korassan da cui proveniva. TORNA SU

[12] Successivamente anche Michel Chasles a p. 468 di Aperçu historique, II ed. 1875, V.G. Enestrom a pag. 120 di Bibliotheca Mathematica (2) 8 (1894) e Paul Tannery a pag. 162-163 di L’Intermediaire des Mathematiciens 4 (1897), hanno citato la so  stituzione dell’abaco neopitagorico con la tavola di moltiplicazione. TORNA SU