L'università del futuro: il ruolo della ricerca

Magnifico Rettore,

cari Colleghi,

neo-dottori di ricerca,

Signore e Signori:

 

Per poter degnamente affrontare l'impegnativo tema che mi è stato assegnato dal Rettore Decleva, dovremmo cominciare col definire che cosa sarà, o ci aspettiamo che sia, l'università del futuro, in particolare in Italia. Ma è possibile rispondere a questa domanda senza chiederci quale sarà il ruolo della ricerca negli assetti dell'università che si vanno oggi delineando in modo estremamente tortuoso, lento e faticoso? lo credo di no, convinto come sono che nella tradizione culturale italiana (e non solo), caratterizzata da un ben noto imprinting humboldtiano, la ricerca è un elemento imprescindibile e altamente caratterizzante: non un lusso o un optional accanto alla didattica, ma anzi il lievito del percorso formativo, il momento che lo qualifica e lo rende competitivo.

 

Sappiamo bene, tuttavia, che la recente riforma universitaria (infelicemente etichettata come "3+2") ha innescato un processo largamente incontrollato di trasformazione dell'università, che rischia non solo di ridurre progressivamente il ruolo della ricerca, ma anche di marginalizzarne l'importanza nei processi di formazione. È in questo contesto che vengono sviluppandosi interventi e polemiche, che spesso assumono due forme estreme: da un lato c'è chi, condannando in blocco la recente riforma, si limita a rimpiangere l'università della propria giovinezza, forse dimenticando che essa era riservata a un ristrettissimo numero di studenti, e che l'università di oggi, per un processo inarrestabile (e non solo italiano) è diventata di massa, e con questa sua nuova fisionomia deve fare i conti. Dall'altro lato c'è chi difende, in modo non meno acritico, la recente riforma così come è stata messa in atto, rifiutandosi di denunciarne le contraddizioni e le perversioni, e imputandone le linee-guida a un preteso "adeguamento all'Europa". Sempre più spesso, i difensori della riforma propugnano tuttavia la creazione di "scuole d'eccellenza", riservate a pochi, che avrebbero la funzione di bilanciare il progressivo svuotamento culturale delle università "riformate", presentato come inevitabile.

 

In queste due concezioni del tutto opposte, che si scontrano fra loro con grande e giustificata vis polemica, si riscontra facilemente un tema comune, quello del rapporto fra università d'élite e università di massa. I laudatores temporis acti rimpiangono l' università d'élite di un tempo, e di solito non additano soluzioni per mantenerne il livello nell'università di massa con cui oggi siamo obbligati a misurarci. Ma questa attrazione fatale verso i'università d'élite è evidentemente condivisa anche da chi difende la riforma persino nei suoi aspetti più discutibili: quello che essi vorrebbero, infatti, è un processo che via via venga distinguendo le università italiane in due grandi blocchi, quelle "di massa" e quelle "d'élite"; o, se vogliamo adottare, (come crescentemente si fa) la terminologia americana, le teaching universities da un lato, le research universities dall'altro. Inutile aggiungere (anche se interessante sul piano del costume) che chi porta avanti questo discorso invariabilmente colloca se stesso sul versante delle scuole che si auto-nominano d'élite, che infatti stanno sorgendo a dozzine (e magari rivendica stipendi maggiorati per i loro professori, cioè per se stesso). In altri termini sta prevalendo, a quel che pare, l'opinione che l'università degli altri dev'essere di massa, purché sia bilanciata da poche, ben selezionate isole d'élite.

 

Su questa visione, e su queste contrapposizioni, ho forti riserve; delle quali vorrei qui dare almeno un saggio. Non saprei fare una valutazione complessiva dei successi e insuccessi del sistema dei crediti, importato passivamente e brutalmente nella nostra università da altri sistemi. Il principio di rendere "esportabile" il lavoro fatto dallo studente, cambiando università non solo in Italia ma anche fuori, è ovviamente più che giusto, ma il meccanismo dei crediti è stato immaginato e applicato in modo quanto meno improprio. Infatti, posto che un numero x di crediti corrisponde a tot ore lavorative, se ne è tratta una conseguenza del tutto assente nella legge, e cioè il calcolo meccanico di un numero massimo di pagine che corrisponda a quel tot di ore lavorative: perciò i programmi d'esame devono (secondo molti professori e presidi) esser limitati a quel tot di pagine. È difficile, io credo, immaginare qualcosa di più stolto, per almeno tre ragioni: 1) tutti sanno che la velocità di apprendimento varia moltissimo da individuo a individuo, quello che X studia in 100 ore, Y lo studia in 30 e Z in 15; 2) è un tragico errore valutare il numero di ore di apprendimento e non il risultato dell'apprendimento: nelle stesse 100 ore, non è forse ovvio che Y può imparare di più e meglio rispetto a Z? 3) non ha senso un tetto meramente numerico di pagine "da studiare", prescindendo dal loro contenuto o dalla loro difficoltà. Non può che essere negativo e mortificante un meccanisino di "calmierazione" della qualità, che non prescriva il minimo da sapere per passare un esame, bensì il massimo. Eppure, in numerose facoltà italiane la legge viene interpretata proprio così. Il risultato non può che essere lo scadimento della qualità. E sarà certo colpa dei professori, ma anche della legge che si presta a una simile distorsione, senza che il Ministero abbia ritenuto di intervenire almeno con una circolare interpretativa. Debolissima è la risposta di alcuni docenti italiani, secondo cui questo sarebbe il "sistema europeo": quasi che l'Europa fosse una potenza occupante, e non un libero concerto di nazioni, nel quale l'Italia ha pieno diritto di portare le proprie norme e le proprie esigenze. Il cosiddetto "processo di Bologna" non è una direttiva della Comunità Europea, alla quale sia necessario adeguarsi, bensì un accordo fra i ministri dell'istruzione, e in quanto tale largamente suscettibile di interpretazioni e di correzioni.

 

Anche la distinzione fra teaching universities e research universities non è affatto una conseguenza fatale della riforma. Come ho già ricordato, questa dicotomia viene talvolta invocata (e presentata come un'evoluzione positiva del sistema italiano) in nome del modello americano. Ma prima di additare dei modelli, bisognerebbe conoscerli. È ben vero che negli Stati Uniti quella distinzione è in vigore, ed è importante: ma in un sistema profondamente diverso dal nostro per evoluzione storica e per struttura. Negli Stati Uniti ci sono circa 3.800 università (una per ogni 70.000 abitanti), in Italia circa 80. Fatte le proporzioni col numero di abitanti dei diu Paesi, per avere la stessa densità di insediamenti universitari l'Italia dovrebbe avere non 80 università, ma più di 800. Ma abbandoniamo subito la facile (e ingannevole) eloquenza dei numeri. Il vero punto è che quando si parla di "università americana" si hanno in mente Harvard, Yale, Princeton, Stanford e così via: research universities che sono oggi un modello irraggiungibile per tutto il mondo. Ma il 90% di quelle 3.800 universítà che compongono, in modo assai variegato, il sistema americano, sono di un livello incomparabilmente inferiore non solo a Harvard o a UCLA, ma anche al livello medio di un università italiana. Si tratta di cose a Voi assai ben note, ma che sarebbe utile ripetere, senza stancarsi, a vantaggio di un'opinione pubblica che su questi temi ha informazioni parziali e spesso falsificanti. II sistema universitario americano è formato di una serie di istituzioni tutte chiamate università, molte delle quali pubbliche, che non appartengono però allo Stato federale, bensì ai singoli stati. La parola università, tuttavia, se da noi designa una realtà che ha una certa valenza giuridica e si suppone debba rispondere a determinati standard (tanto è vero che c'è un "valore legale" della laurea, sempre uguale chiunque la rilasci), negli Usa - nel contesto di una cultura istituzionale e giuridica profondamente diversa dalla nostra - è un termine definito meno rigorosamente, che indica genericamente vari tipi di istruzione successiva alla scuola media superiore. Ecco perché la stessa etichetta si applica a istituzioni di livello tanto differenziato. Sia il livello più alto che quello più basso sono organici al sistema, che funziona anche perché è perfettamente possibile cominciare a studiare in un college di provincia, dove solo pochi insegnanti fanno ricerca (Teaching Universities), e poi, sulla base di interessi sorti più tardi, spostarsi in una sede molto meglio attrezzata e più prestigiosa (Research Universities).

 

Questo sistema si è sviluppato specialmente dopo la seconda guerra mondiale, da un nucleo di università di aspirazioni "alte", costituite in origine sull'ovvio modello inglese di Oxford e Cambridge: le università, americane si sono moltiplicate rispondendo a un bisogno diffuso, non solo di expertise, ma - o forse soprattutto - di promozione sociale. Perciò sono sorte università anche in piccole e piccolissime città, spesso dotate di

attrezzature solo sommarie, dove la maggior parte dei professori non fa ricerca e può anche non avere mai pubblicato nulla o quasi. È così che si è creato il sistema che abbiamo brevemente descritto. Ma è un sistema in cui fortissirnamente differenziati sono anche i filtri di accesso (accedere a Harvard è molto più difficile che accedere a un college di provincia), le tuition fees, gli standard di accoglienza e d'insegnamento, eccetera; e in cui ogni università sceglie in piena autonomia i propri docenti, e contratta

individualmente le retribuzioni, per cui un professore di una grande università può avere uno stipendio venti o trenta volte superiore al docente della stessa materia in un college di provincia.

 

Come si vede, un sistema iriconfrontabile con quello italiano. Chi propugna per il sistema italiano un'evoluzione in questo senso dovrebbe dire chiaramente che le prime cose da fare sarebbero abolire il valore legale delle lauree e differenziare nettamente le modalità di reclutamento degli insegnanti a seconda del livello delle università; dovrebbe inoltre spiegare perché mai un gran numero di docenti, che sono stati reclutati, si spera, sulla base delle loro capacità e successi nella ricerca, dovrebbero vedersi

recapitati d'improvviso in un contesto dove si fa didattica e non ricerca. A mio avviso, un'evoluzione come questa non è desiderabile, né lo sarebbe la moltiplicazione delle università, per arrivare in pochi anni da 80 ad 800. A quel che credo, al contrario, una distinzione netta fra research universities e teaching universities è del tutto estranea alla forma istituzionale dell'università italiana. Il modello italiano di università non solo prevede, ma richiede una presenza della ricerca equamente distribuita in tutti gli atenei. All'interno di questo modello, il punto non è di contrapporre università in cui si fa ricerca ad altre in cui non la si fa, ma di modificare, a seconda dei vari livelli, degli obiettivi e delle forme di reclutamento degli studenti, il "tasso di ricerca" presente nelle diverse istituzioni: creando quindi uno spettro a intensità crescente dal meno al più, ma non certo due mondi contrapposti. Perché si formino cento studenti a un buon livello, occorre che novanta facciano qualche esperienza di ricerca e che cinquanta ne facciano in modo significativo; ma perché cinquanta facciano significative esperienze di ricerca, occorre che venti la facciano a un livello avanzato, e cinque al massimo livello. Tra un estremo e l'altro non può esserci un baratro, ma un coutinuum.

 

Ma se intendiamo riaffermare la centralità della ricerca nella vita dell'università e il suo nesso strettissimo e indispensabile coi processi di formazione, non possiamo eludere un nodo purtroppo assai problematico: lo scarso investimento in cultura e in ricerca, che sembra essere da decenni un elemento strutturale col quale l'Italia ha imparato a convivere. Proteste, lagnanze, statístiche, confronti, si inseguono a cadenze fisse (in particolare quando è stagione di Finanziaria): ma c'è ogni anno una crisi economica, un'emergenza, una calamità naturale che consiglia, anzi impone (ci vien detto) di rinviare sine die un significativo rovesciamento di tendenza Tutti sanno quanto importante, centrale e competitivo sia il settore della ricerca in tutto il mondo: ecco perché, prima di affrontare il discorso, dobbiamo necessariamente confrontarci col quadro internazionale: nel quale, è bene dirlo subito, la posizione dell'Italia è sconfortante. Se comparati agli USA, i quindici paesi dell'Unione Europea spendono molto poco in ricerca, e l'Italia ancor meno. Secondo i dati OCSE relativi al 2001, la spesa in ricerca e sviluppo è, in percentuale rispetto al PIL, del 2,5 per gli Stati Uniti, del 2,7 per il Giappone, del 1,7 per la media dei Paesi Europei. All'interno dell'Europa i dati sono ancora più

significativi e mostrarlo come l'Italia sia ben al di sotto della media europea: 3,3 per la Finlandia, 2,5 per la Germania, 2,0 per la Francia. L'Italía è all'1,1 e la Spagna al 0,9, con un tasso di crescita che negli ultimi anni ha superato quello dell'Italia. Secondo uno studio recentissimo dell'Unione Europea, anzi, nel 2003 i fondi pubblici di ricerca in Italia sono calati del 5,3`%, e cioè più che in qualsiasi paese non solo dell'Europa "a 15", ma anche di quella "a 25". Basti ricordare, per valutare la gravità della situazione, che, invece, in Grecia si è avuta nello stesso anno una crescita del 9.8%, in Svezia del 9.2%, in Estonia del del 13.3%.

 

Ora, che si senta vivissima l'esigenza di un'inversione di tendenza, lo dimostra anche il fatto che le "Linee guida per la politica della ricerca scientifica e tecnologica", approvate dal Governo nell'aprile 2002, hanno prefigurato un cospicuo accrescimento dei fondi di ricerca. Bisogna dare atto al ministro Letizia Moratti di essersi battuta in tal senso. Purtroppo hanno come sempre preso il sopravvento altre esigenze - vere o false - e quelle "Linee guida" sono rimaste almeno per ora lettera morta. Anche per il 2004 si parla di un incremento del 14% circa (ma su un totale già calato del 5,3.% l'anno prima), vedremo se accadrà veramente.

 

Ma va additato un altro pericolo incombente in molti Paesi europei (per esempio la Francia o la Germania), e anche in Italia sempre più chiaro: e cioè che, in un quadro già fortemente penalizzato dalla scarsità degli investimenti, prevalga una falsa e superficiale logica "aziendalistica" secondo cui la sola ricerca che vale la pena di finanziare è quella con "ritorni" garantiti e immediati; insomma, la ricerca applicata, e non la ricerca di base. Ora, se è vero che la distanza fra ricerca "pura" e ricerca "applicata" si è venuta progressivamente riducendo nel tempo, non è meno vero che non si dà ricerca applicata senza la grande ricerca di base. La ricerca "pura" è orientata su grandi tematiche che richiedono tempi non pre-determinabili, con risultati per definizione non prevedibili: per esempio, le grandi leggi che regolano l'universo, la natura, la vita. La ricerca applicata, al contrario, è rivolta alle ricadute pratiche di quelle grandi tematiche, tanto più se sono traducibili in brevetti e produzioni industriali: ma non potrebbe esistere e si inaridirebbe rapidamente se la frontiera. della conoscenza non si spostasse sempre più avanti per effetto della ricerca "pura". Fra l'una e l'altra, insomma, esiste una continua dialettica, un'irirerazione che si va facendo sempre più stretta. Rinunciare alla ricerca pura in favore della ricerca applicata in Italia, come ogni tanto si dice con grande leggerezza, significherebbe in sostanza delegare ad altri il compito di indagare con la necessaria ampiezza di respiro sui grandi terni. Vorrebbe dire, insomma chiamarsi fuori dalla pattuglia di testa delle Scienze, lasciando la ricerca pura (indispensabile al progresso) interamente alle università e centri di ricerca negli USA, in Giappone, o in qualche grande paese europeo. Vorrebbe dire "autoernarginarsi", condannando i più brillanti talenti delle nuove generazioni a scegliere fra l'emigrazione e un percorso di ricerca limitato e provinciale. Uno dei maggiori errori degli ultimi anni è che in Italia molte imprese hanno chiuso ogni attività di ricerca, per una malintesa logica aziendalistica basata su uria visione del tutto miope, capace di guardare ai profitti di domani, ma non alle prospettive di dopodomani. Un falso efficientismo ritiene che

valga qualcosa solo ciò che ha immediate, immediatissime ricadute nella produzione industriale.

 

Va pur detto, però, che, nonostante l'esiguità dei finanziamenti, i risultati che possono vantare i protagonisti della ricerca in Italia sono spesso di livello alto, persino altissimo, se confrontari nel contesto internazionale con quelli di paesi dove la spesa per la cultura e per la ricerca è molto più alta. I successi dei ricercatori italiani possono apparire paradossali, come anche il fatto che essi spesso vengono chiarnati all'estero in importanti università o centri di ricerca, o che anche i più giovani trovino facile collocazione negli ambiti più vari e sappiano farsi rapidamente strada. Non si tratta evidentemente solo dell'italico ingegno, ma anche di elementi formativi assimilati nel sistema italiano d'istruzione, da noi stessi tanto denigrato, ma con tutta evidenza assai ben spendibile oltre i patri confini (almeno fino ad oggi, e speriamo che ciò sia vero anche fra 10, 20, 30 anni). È, insomma, la "fuga dei cervelli" su cui ci stracciamo quotidianamente le vesti, ma che abbiamo difficoltà ad analizzare nella sua effettiva fisionomia.

 

È paradossale, mi pare, che sui giornali si parli più della "fuga dei cervelli" che della crisi della ricerca, che ovviamente ne è la causa. Ma anche la "fuga dei cervelli" viene discussa purtroppo in modo assai spesso rivelatore di una mentalità arcaica, angusta, provinciale. "Cervelli" italiani in fuga, questa la formula, facciamoli ritornare da noi. Ma il vero punto non è di instaurare un regime protezionistico per cui gli italiani fanno ricerca in Italia, gli americani in America e così via. Un mondo come questo di fatto

(e per fortuna) non è mai esistito, nernmeno nel Medio Evo, quando dotti e sapienti clerici vagantes circolavano, per insegnare e per imparare, da Parigi a Oxford a Bologna a Salamanca; e meno che mai esiste oggi. Quello che esiste oggi è un mercato del lavoro intellettuale che segue (potrebbe essere altrimenti?) le logiche della globalizzazione, e del quale la mobilità è l'asse portante. È una mobilità con due regole fondamentali: uno, chi deve (prevalentemente) imparare è attratto dai luoghi di massirna

concentrazione di intelligenze e di risorse; due, i luoghi di massima

concentrazione di risorse tendono ad attirare le migliori intelligenze di chi deve (prevalentemente) insegnare o dirigere istituti, ricerche, progetti. È per questo che migliaia di studenti indiani o cinesi o italiani cercano di immatricolarsi a Harvard o al M.I.T.; è per questo che Harvard e M.I.T. cercano di conquistare per sé, prendendoli da tutto il mondo, i migliori docenti di matematica, di medicina, di storia dell'arte.

 

In questo contesto, è futile elaborare strategie limitate al rientro in patria degli italiani all'estero. Che cosa importerebbe che mille italiani vadano a insegnare all'estero, se altrettanti americani, giapponesi, inglesi venissero a lavorare in Italia? È evidente che il vantaggio della ricerca (e del paese) non si misura sulla nazionalità o sul passaporto, ma sulla qualità e solo sulla qualità. Meglio avere nel mio laboratorio un cinese più bravo che un italiano meno bravo. Il problema è proprio che, per mille italiani che insegnano in America, solo dieci americani insegnano in Italia. In altri termini, l'Italia è, tendenzialmente anche se non interamente, fuori da quel mercato globale del lavoro intellettuale il cui centro è oggi l'America. Questo è l'errore da correggere, non la "fuga dei cervelli" in quanto tale ma la mancanza di ricambio di intelligenze, di competenze, di talenti. Vista da questa prospettiva, anche la "fuga dei cervelli" assume un altro aspetto. Anche qui, poco da rallegrarsi. Perché un numero crescente di studenti

italiani (quelli, s'intende, che se lo possono permettere, dati gli altissimi costi) preferisce studiare negli Stati Uniti? Perché è convinto di trovare migliori biblioteche, migliori strutture, migliori docenti. Perché un certo numero di ricercatori e docenti italiani preferisce le università americane? Perché esse offrono salari più alti, più fondi di ricerca, migliori strutture. In altri termini, la "partita doppia" del mercato intellettuale globale è in passivo per l'Italia in primo luogo perchè il nostro paese non ha sviluppato

sufficienti strategie di attrattività per ricercatori, docenti, studenti, non importa se italiani o stranieri; di conseguenza, si genera una continua emorragia di "cervelli" che non essendo controbilanciata da meccanismi di ricambio peggiora gradualmente la situazione.

 

Il tema è oggi più importante che mai, e non solo per questioni di orgoglio nazionale o di generica competitività, ma per importantissime ricadute di natura politica ed economica. Menzioniamone una. I paesi che eufemisticamente chiamiamo in via di emergenza (e che spesso languono invece in uno stato di perpetua stagnazione) formano le proprie classi dirigenti in università con strutture spesso estremamente precarie e arretrate, e - di conseguenza - docenti di basso profilo. È chiaro che chiunque possa permetterselo cerca, talora anche col contributo dei vari Stati, nuove e più avanzate strutture di formazione, e le cerca dove ci sono. Negli ultimi anni si è registrato in questo senso un crescente flusso verso le università americane, mentre quello verso l'Europa è in calo; e l'Italia non solo non fa eccezione, ma nella stessa Europa non è certo nelle prime posizioni.È dunque necessaria una politica europea della formazione per studenti dai paesi del terzo mondo, essendo a tutti chiari i legami culturali e

personali che ognuno si crea nel luogo della propria formazione universitaria, e le conseguenze (economiche e politiche) una volta che sarà rientrato nel paese di provenienza. Questa competizione, come ogni altra, ha una regola di ferro: per poter competere, bisogna avere da offrire almeno altrettanto, se possibile di più. È un fatto che questo "di più" noi non lo abbiamo; ed è una magra consolazione che anche altrove in Europa gli studenti dai paesi in via di sviluppo siano in calo. Non vuol dire che dobbiamo consolarci, vuol dire che dobbiamo lavorare il doppio: perchè

l'Italia si adegui all'Europa, e perché l'Europa si adegui all'America.

 

Il paradosso che abbiamo sopra notato, la divaricazione drammatica fra i risultati a volte anche eccellenti e le risorse quasi sempre scarse, mette in evidenza i difetti, ma anche le potenzialità del sistema italiano dell'università e della ricerca. In altre parole, dimostra in modo inoppugnabile che ad accresciute risorse corrisponderebbe rapidamente una crescita dei risultati positivi, l'elevazione degli standard, l'attrattivítà del sistema per ricercatori italiani e stranieri, la scomparsa delle principali cause della "fuga dei cervelli", la promozione della qualità e del talento, il ricambio delle intelligenze; insomma, un pieno titolo di cittadinanza in

quell'intellectual market place in cui l'Italia perde più di quello che guadagna.

 

Chi non desidera risultati come questi? Palesemente, nessuno (di nessuna parte politica). Perché dunque non si è mai seriamente impostata una politica di investimenti mirata a ottenerli? Perchè, questa è almeno la mia risposta, è mancata e manca in questo paese la capacità di analizzare fino in fondo tutte le implicazioni del problema, e il coraggio di fare investimenti a lungo termine. Il punto infatti è questo: arrivati alla stretta finale, al collo di bottiglia, quando si devono stabilire priorità e scelte e alcune proposte di impegno della spesa pubblica "passano" e altre (fatalmente) no, troppo spesso si punta su investimenti il cui ritorno sia immediatamente visibile trascurando quelli che producono effetti a lungo termine. E questa forma mentis, questo guardare all'oggi ma non al domani o al dopodomani, che spiega le posizioni arcaiche e isolazionistiche secondo cui l'università "costa troppo", la ricerca "è uno spreco di risorse", i beni culturali "costano più di quello che producono", e così via. Così, in nome della crisi (ce n'è sempre una, ora i mercati ora l'Europa, ora il terremoto ora l'Etna), nel conto delle priorità sono sempre gli investimenti di lungo periodo che vengono sacrificati. Ma non dovrebbe essere il contrario? Non si dovrebbe, per rispondere alle crisi, saper innescare meccanismi di medio e lungo termine che ne impediscano il ripetersi? Non si dovrebbe, per definizione, investire sulle generazioni future? Instaurare, con calcolata gradualità, un circolo virtuoso "in crescita", anzichè crogiolarsi, naturalmente fra mille lamenti, nelle pozze della stagnazione?

 

Sarebbe dunque il caso di capire che la ricerca di base, anche se non può garantire l'immediata applicabilità a breve tempo dei propri risultati, è di fatto la sola che crea le premesse e fissa gli indirizzi di ogni forma di ricerca applicata, e come tale merita investimenti. Ed è l'investimento pubblico che deve costituire il blocco di fondamento della ricerca di base, poichè i privati hanno una netta preferenza per le ricerche di immediato effetto e rendimento. Ma se la miopia dei privati può essere comprensibile,

non lo è quella dello Stato, che deve guardare lontano perchè deve costruire per le generazioni future. Quanto all'università, c'è da chiedersi come essa possa mai sviluppare lungimiranti capacità progettuali, progetti audaci e "visionari", quando può contare su risorse di bilancio in massima parte assorbite da spese fisse. Questa è una delle ragioni (anche se non la sola) per cui l'università ítaliana fa un'enorme fatica a rapportarsi con la logica della competizione che sorregge il confronto internazionale in questo campo. È vero, si parla da anni di innestare fattori di competitività

nel sistema universitario italiano, ma il vero problema è altrove: e cioè di rendere le Università italiane competitive non solo e non tanto l'una rispetto all'altra, ma rispetto alle Università europee e americane. La sola, competitività interna creerebbe infatti uno sterile sistema chiuso; mentre la competitività globale è la sola che può garantire la circolazione delle persone e delle idee, nonché la possibilità, vitale, di raggiungere risultati vantaggiosamente comparabili a quelli conseguiti altrove.

 

Questo vale in particolare per il mercato del lavoro. Gli elementi minimali per creare una situazione di reale competitività dei nostri laureati sul mercato del lavoro non solo italiano sono due: che università e i centri di ricerca abbiano risorse economiche comparabili a quelle dei paesi avanzati, e che i risultati conseguiti (didattici e di ricerca) siano misurabili sulla base di un chiaro e univoco rapporto fra qualità e quantità (precisamente l'opposto di quello che accade col perverso uso del sistema dei crediti di cui ho fatto cenno poco fa). Ma la qualità della formazione universitaria si costruisce e si misura soprattutto nello snodo virale fra didattica e ricerca: cardine di ogni concezione moderna e aperta dell'Università come mirata non solo alla formazione professionale, ma a produrre conoscenza e stimolare innovazione; poiché fonte primaria dell'innovazione è la ricerca.

 

Non meno importante, in questo contesto, è un tema che oggi posso solo evocare, e cioè la necessità di una radicale revisione dei meccanismi di reclutamento non solo dei più giovani, ma dei docenti a ogni livello. I meccanismi concorsuali italiani, afflitti da un crescente, mortificante localismo, sono incompatibili con quelli sperimentati negli altri paesi europei (basti ricordare la bizzarria, senza paralleli al mondo, dei "gruppi disciplinari"): e si capisce male come mai l'unità dell'Europa e il modello europeo debba essere invocata a giustificare il meccanismo dei crediti, e

viceversa ignorata quando si tratta di reclutamento dei docenti. Senza entrare nel merito in questa sede, vorrei solo sottolineare l'assoluta centralità della ricerca fra i dati da valutare sia per le nuove assunzioni che per le "promozioni". Valutazione da intendersi (e mi scuso di insistere su concetti che dovrebbero essere ovvi, ma a volte ahimé non lo sono) in senso qualitativo e non quantitativo: un principio che dovrebbe valere anche per tutte le valutazioni di performance dei dipartimenti, delle facoltà, degli atenei.

 

Un ultimo punto va affrontato prima di concludere: se, nel corso di queste considerazioni, ho finora insistito sugli investimenti pubblici nella ricerca, non è perché io consideri secondaria la prospettiva di investimenti privati. Al contrario. Ma purtroppo anche gli investimenti privati in ricerca sono, in Italia, bassi o nulli a fronte di quello che accade in altri Paesi, a cominciare dagli USA. Ecco un settore in cui il modello americano è davvero da invidiare: perchè negli Stati Uniti esistono due meccanismi convergenti con cui i privati finanziano la ricerca, l'università, i musei in misura migliaia di volte superiore a quanto accade da noi. Il primo meccanismo sono le grandi o grandissime fondazioni e donazioni che hanno reso possibile, per esempio, la nascita di tutti i musei americani (anche la National Gallery of Art, unico museo federale, nasce dalla donazione Mellon), e ne assicurano la prosperità. Il secondo è il flusso costante di donazioni medie e piccole, che viene da decine di milioni di cittadini americani. Nelle università, qualche volta una grossa donazione crea un nuovo centro di ricerca; molto più spesso, arrivano donazioni medie e piccole, per esempio raccolte dalle attivissime associazioni di alumni. Poco, se prese una per una; milioni, e a volte miliardi di dollari, nel loro insieme. Per esempio, una campagna di fund raising di Harvard conclusa nel 1999 raccolse due miliardi e seicento milioni di dollari da 175.000 donatori, in massima parte ex alunni (cioè in media meno di 15.000 dollari per donatore, ancor meno se si tiene conto delle ingenti somme donate da alcuni, pochi "grandi donatori"). I fondi così raccolti si aggiungono al finanziamenti pubblici e ai capitali privati di fondazione incrementati dalle politiche di investimento;

insomma, creano un "circolo virtuoso" che da noi nemmeno i più ottimisti osano sognare.

 

Perché nulla di simile accade in Italia? Non invochiamo astratti mecenatismi . È vero, il mecenatisrno è una di quelle pratiche socio-culturali che una volta introdotte si allargano a macchia d'olio, e provocano imitazione (proprio questo è il "circolo virtuoso" in opera negli USA). Ma la generosità del donatore dev'essere motivata e consolidata, oltre che da questo meccanismo sociale, anche da immediati ritorni o vantaggi. Ce ne sono in sostanza solo due, ma sono strettamente necessari entrambi: il primo è quello che le società antiche chiamavano "amor di gloria", e oggi si chiama "ritorno d'immagine". Potente incentivo, ma da solo non basta (infatti da noi le donazioni private latitano). Ne serve un altro, e cioè introdurre una chiara, univoca, totale defiscahzzazione delle donazioni in favore di università, musei, enti di ricerca; e cioè un meccanismo che produca evidenti vantaggi fiscali, commisurandoli all'entità della donazione, sia a chi dona mille euro che a chi ne dona un milione. Da anni e anni se ne parla, si introducono qualche volta timide e approssimative misure, pallide imitaziorri delle norme americane; ma nessuno, nè a sinistra nè a destra, ha intrapreso con decisione questa strada. C'è da chiedersi se il rifiuto di affrontare questo grande tema politico e civile non sia la conseguenza della massiccia evasione fiscale che affligge, l'economia e, la società italiana, ormai troppo abituata a concepire gli sconti fiscali solo nella forma ingloriosa del condono post factum agli evasori, che premia i cittadini inadempieriti anziché incoraggiare i generosi.

 

NeI quadro che, con mano a volte esitante e senza sufficienti competenze, ho cercato di tracciare, avrete tutti notato molti problemi irrisolti, molti temi che meriterebbero da parte dei politici e della pubblica opinione un'attenzione molto, ma molto superiore a quella oggi concessa. Avrete notato, spero, anche ragioni di orgoglio e di speranza. Un'università che, in condizioni tanto ardue, pur crescentemente messa in questione e delegittimata, pur fra mille ristrettezze economiche, riesce tuttavia a produrre risultati di ricerca spesso assai apprezzati in tutto il mondo; un'università che educa generazioni di giovani, come i dottori di ricerca a cui oggi viene consegnato il diploma, profondamente motivati e desiderosi di impegnare le proprie energie al servizio del Paese e dell'Europa; un'università come questa ha ragione di rivendicare maggiori investimenti, un maggiore rispetto e un maggiore impegno. Dobbiamo certo, come docenti universitari, mostrare anche una forte e mirata capacità di spietata autocritica, in particolare per la deriva localistica assunta dal meccanismo concorsuale; ma dobbiamo anche, nell'affidare la fiaccola del futuro alle nuove generazioni, additare soluzioni e traguardi. Fra i traguardi di questa Università di Milano, fra quelli della mia Normale di Pisa, fra quelli di tutte le università italiane, e sia pure in misura necessariamente varia e discontinua, il ruolo della ricerca, e il nesso fra ricerca e didattica, io spero resti un costante punto di riferimento. Non uno sterile rimpianto del passato ma, al contrario, un faro che proietti la sua luce verso il futuro.