L'uovo del serpente

 Premessa. Le considerazioni che presento, qui di seguito, sono le stesse che avevo discusso con molti amici alla fine dello scorso anno. Di più: il testo che segue è quello che avevo fatto circolare tra i componenti della redazione di “Lettera Matematica PRISTEM” nel mese di ottobre 2008, ho solo aggiunto un'appendice che contiene una serie di proposte. Non ho rivisto, sostanzialmente, il testo, nonostante potessi usufruire di molti utili suggerimenti che mi erano stati dati, tra gli altri, da Renato Betti, Gian Italo Bischi, Ciro Ciliberto, Mauro Comoglio, Pietro Greco, Angelo Guerraggio, Roberto Lucchetti, Pietro Nastasi, Roberto Natalini. Ringrazio tutti e con tutti mi scuso per non avere avuto tempo e modo di riscrivere tutto alla luce dei loro commenti e informazioni, cosa che avrebbe reso più efficaci le mie stesse argomentazioni.

Il titolo stesso che ho dato a queste note, indica quale sia il mio punto di vista. Dobbiamo essere in grado di capire cosa sta succedendo e quale sarà la trasformazione complessiva del Paese ottenuta a partire da ciò che si vede oggi, da atti iniziali forse ambigui e incerti. Seguendo il suggerimento di Ingmar Bergmann, dobbiamo cercare di capire che tipo di animale si svilupperà da ciò che vediamo attraverso la membrana translucida e semitrasparente che copre l'embrione. E' importante capire che non tutti i serpenti sono uguali anche se abbiamo prove certe che non abbiamo a che fare con colombe. Fatta questa doverosa analisi dovremmo poi essere noi a indicare quali sono i problemi dell'Università e della ricerca scientifica perchè l'Italia possa ripartire proprio da esse per contrastare un declino che dura ormai da più di quindici anni. La crisi mondiale da noi si sovrappone a una crisi complessiva del nostro Paese che a sua volta si articola in una divaricazione dei problemi propri del Nord e del Sud che, però, sono risolubili solo in un'ottica unitaria. Quando finirà la crisi mondiale, ci troveremo ancora peggio se non avremo approfittato di questo momento difficile per riaggiustare vecchi squilibri.

 

Il nostro Paese è in crisi: crisi economica e crisi progettuale, crisi culturale, crisi etica: abbiamo perso il senso della legalità e, forse con esso, la speranza. Crisi economica profonda a cui si aggiungono le conseguenze di una crisi mondiale devastante. Ha delle caratteristiche proprie. Negli ultimi quindici anni ci abbiamo messo di nostro con creatività e intelligenza per arretrare. Intelligenza e creatività che avremmo potuto più utilmente usare per affrontare i nodi strutturali delle deficienze del nostro sistema.

L'Università, per la prima volta dopo molti anni, è (o almeno, è stata, nei mesi scorsi) in subbuglio. Assieme alla scuola, ma qui ci limiteremo a qualche considerazione solo sull'Università, anche se le loro connessioni sono molto strette. E' in subbuglio oggi, ma i suoi problemi, i nostri problemi non nascono oggi.

Stiamo parlando del nostro Paese e della nostra Università, e il sistema pubblico dell'Università e della ricerca è il sistema nervoso di un paese: niente di più e niente di meno. Le due crisi sono collegate. Se non le affrontiamo con un ottica unica, non usciremo dal guado.

Il ricordare l'etimologia della parola crisi (separazione, decisione, momento di passaggio tra situazioni diverse) può forse aiutarci a capire cosa è successo, cosa sta succedendo e forse può darci indicazioni su cosa fare. Il momento difficile che stiamo vivendo, questa lunga traversata nel deserto forse deriva proprio dal non aver deciso - e bene - quando dovevamo farlo, dal non aver preso, in passato, decisioni giuste, nel non aver saputo discriminare tra ciò che ci avrebbe permesso di uscire subito dal deserto e ciò che ha prolungato la durata della traversata prosciugando la nostra capacità di capire, inaridendo le radici stesse della speranza nel futuro.

Non si può che condividere l'analisi puntuale e accurata di Salvatore Settis nel suo pregnante articolo che si annuncia con un titolo inquietante: "Un Paese che esilia i giovani talenti distrugge il suo futuro". L'Italia non ha bisogno nel settore dell'Università e ricerca di una cura dimagrante, ma di più investimenti. E di più qualità. Per non allontanarsi troppo non solo dagli obiettivi di Lisbona ma da quello che fanno gli altri paesi.

L'Università è un valore, questa stessa Università che - nonostante le sue brutture e storture - riesce a formare persone brillanti che regaliamo, già formate, ad altri paesi. Una perdita netta, tanto più assurda in quanto la crisi economica del Paese non è risolubile in modo permanente se non stabilendo una "nuova alleanza" tra il mondo della produzione e quello dell'Università e della ricerca scientifica.

Vorrei che quanto è accaduto negli ultimi mesi, in molte Università e anche in uno dei nostri fiori all'occhiello, la “Scuola Normale” di Pisa, conducesse a una migliore e più profonda consapevolezza dei problemi in gioco. Desidererei che gli studenti, e i giovani in generale, utilizzassero quanto noi più anziani possiamo trasmettere a livello della conoscenza dei problemi in gioco, delle questioni irrisolte da lunga data, incancrenite a volte. Auspicherei allo stesso tempo - e con forza - che nessuno tentasse di mettere il cappello sull'autonoma reazione dei più giovani. Sarebbe deleterio e forse peggio se - nella migliore tradizione del trasformismo del nostro Paese - solidarizzassero con chi oggi soffre di una situazione degradata, proprio coloro che in forme diverse e da sponde diverse hanno contribuito al degrado stesso (e, purtroppo, abbiamo già visto qualche cenno in tal senso).

Fabrizio De Andrè ammoniva che per quanto ci si possa credere assolti si è per sempre coinvolti. Questo vale anche per tutta l'Accademia e il mondo della ricerca e per questo dobbiamo tutti assumerci ogni responsabilità di quanto non va bene oggi, anche nel caso in cui personalmente non siamo colpevoli di nulla, perchè in ogni caso avremmo dovuto fare più di quanto ciascuno di noi ha fatto. Ma questa limpida e trasparente ammissione di responsabilità collettiva ha senso solo se oggi facciamo sentire alta la nostra voce a difesa di principi e valori la cui violazione lungi dal risolvere volontaristicamente i problemi seguendo inesistenti scorciatoie, aggraverebbe la situazione e forse renderebbe insolubili in via definitiva i problemi stessi. Per questo si deve ribadire che l'Università è un valore, che l'Università pubblica è un valore e che proprio per questo deve essere rinnovata, ripulita da incrostazioni e storture, rilanciata assieme a un grande progetto di impegno straordinario nella ricerca scientifica che faccia dialogare, abolendo barriere superate, Università, Enti pubblici di ricerca, mondo delle imprese. Solo in questo modo si potrà far ripartire il Paese, a partire dalla nostra tradizione culturale, rilanciando la nostra ricerca migliore, puntando a un cambiamento del nostro modello produttivo che punti più decisamente verso i prodotti di alta tecnologia e di alto contenuto di conoscenza incorporato. Imboccare questa via può significare ritrovarci, come Paese, più forti quando, domani, la grande crisi mondiale sarà superata.

Sono profondamente convinto che tutto ciò che viene fatto, il nostro lavoro, debba essere valutato e giudicato seguendo tutte le procedure che sono riconosciute in tutti i paesi dell'Occidente, ma tali procedure non devono essere affidate all'arbitrio delle burocrazie ministeriali, spesso alleate di chi predica rinnovamento e valutazione e qualsiasi sorta di sani principi, solo per svuotarli totalmente di significato.

Sono convinto che non si debba rompere lo stretto legame che esiste per l'istruzione universitaria tra didattica e ricerca e che affonda le sue radici nella nascita stessa delle università e, nella sua forma moderna, nella concezione di von Humboldt.

Abbiamo bisogno di nuove idee da offrire generosamente agli altri - così come dobbiamo essere pronti a far nostre - senza alcuno scrupolo - nuove e belle idee altrui. A questo fine, desidero rilanciare una bella idea proposta da molti (molti ma non tantissimi in verità) sia pure in forme leggermente diverse e che è una variante di uno dei progetti della Comunità Europea, il progetto Ideas , appunto.

Alcuni amici lo hanno proposto in una versione più radicale che qui rilancio. I nuovi concorsi per ricercatore offerti ai più giovani siano associati a un budget necessario per condurre un progetto di ricerca quinquennale. I progetti (e - di conseguenza - le persone) vengano scelte in modo assolutamente trasparente da commissioni di alto profilo (con una significativa presenza di autorevoli scienziati non italiani). E poichè non ci vogliamo fidare neanche delle persone di alto profilo, quando parliamo di trasparenza richiediamo che tutto venga messo in rete, accessibile a tutti: i curricula dei Commissari, i progetti presentati, i giudizi dei Commissari dati ad ogni progetto, i progetti prescelti. Chiediamo ancora che - come accade nel progetto Ideas - i posti NON siano assegnati alle singole Università, Istituti o Enti di Ricerca, ma in ogni domanda sia solo espressa dalle sedi la disponibilità ad accogliere - in caso di vittoria - quel ricercatore e quel progetto di ricerca. Un ottimo modo, credo, di valutare anche, indirettamente, le varie sedi e i differenti centri di ricerca. Quelli che riescono ad attrarre i più bravi saranno premiati avendo un posto in più e un progetto di ricerca finanziato. Questi cinque anni, da valutare rigorosamente anche in itinere, possono essere considerati come una tenure track o periodo di prova che dir si voglia. Non ho sentito, nonostante molti visi perplessi, alcuna obiezione veramente valida. Ma ben vengano le critiche per poterne discuterle assieme.

Dobbiamo avere il coraggio di rischiare, il coraggio del nuovo, il coraggio di progettare. Ha ragione Emma Marcegaglia quando afferma che quella proposta dal Governo non è una riforma ma un taglio, un enorme taglio. A lei chiediamo, però, un più forte - e soprattutto ininterrotto - impegno da parte di Confindustria, da parte di tutte le imprese, sulla ricerca. Perchè i bei discorsi di Montezemolo sulla ricerca scientifica, enunciati brillantemente al momento del suo insediamento, sono caduti nel dimenticatoio? Anche da parte sua, visto che non ne ha parlato nel suo discorso d'addio. Di che innovazione parla Confindustria, di quella basata sulla ricerca scientifica o di un' altra innovazione (innovazione combinatoria) che non abbiamo capito molto bene cosa sia? Chiarisca questi punti Confindustria e potrà contribuire non solo a difendere le aziende, il che è altamente meritorio, ma anche a rilanciare il Paese, il che lo è ancora di più ed è ciò che qualifica un gruppo a fregiarsi dell'appellativo di classe dirigente .

Appellativo che purtroppo non si riesce neanche sforzandosi a dare alla classe politica nel suo complesso, la quale in modo assolutamente bipartisan , come si usa dire da un po' di tempo, non ha mostrato nè con idee innovative nè, tantomeno, con azioni innovative di capire l'importanza e la portata della ricerca scientifica per rimanere nel novero dei paesi di testa. A parte singole lodevoli eccezioni, ma che purtroppo rimangono tali e non riescono a incidere sulle azioni che la politica compie. Però emergono almeno due atteggiamenti e, a nostro avviso, dobbiamo distinguerli per difendere meglio ciò in cui crediamo. Detto alla buona, se il centrosinistra balbetta, ascolta in modo superficiale e, messo alla prova, non ha attuato e a volte non neanche messo in cantiere progetti di vera comprensione di ciò che serve all'Italia di oggi (atteggiamento folle perchè oltre a non affrontare i problemi, distrugge la speranza), nel centrodestra la privatizzazione spinta, almeno a parole, la competitività e la semplificazione burocratica osannate a parole, in alcuni casi si sono già tradotte, come negli Enti di Ricerca pubblici, in un dirigismo ferreo e in un controllo burocratico dall'alto. L'opposto di quanto enunciato. Questa discrasia può fare sorgere un sospetto che alcuni di noi hanno cercato di descrivere (forse con parole non convincenti) in diverse occasioni. Oggi possiamo fare a meno delle nostre parole e rifarci a ciò che, nel 1950, Piero Calamandrei, ipoteticamente pensava potesse avvenire. Uno scritto dimenticato per più di mezzo secolo e in questi giorni tornato alla ribalta. Diamo a lui la parola: " Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, ... ma vuole istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata....Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. ... Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tenere d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi, ve l'ho già detto: rovinare le scuole di stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico."

Non voglio credere che oggi si stia lucidamente mettendo in atto quanto paventato da Calamandrei, ma dobbiamo osservare che alle scelte fatte fino ad ora dal Governo, a questi interventi effettuati su una base puramente contabile e in modo indiscriminato si contrappone la scelta coraggiosa della Francia che decide di investire 10 miliardi di euro in cinque anni per rilanciare alla grande dieci centri di riferimento per la ricerca e l'Istruzione superiore a partire da quanto di ottimo già esiste in quel paese. Un vecchio progetto di Villepin, presente come decisione N° 24 nel rapporto Attali e portato avanti con perfetta continuità e tempismo da Valerie Pécresse, quarantunenne ministra alla ricerca. Intendiamoci, il progetto francese è il progetto di un governo di destra che punta anch'esso a una sostanziale privatizzazione e non per nulla in Francia vi sono state e vi sono molte critiche al progetto stesso. Ma è un progetto organico che si pone obiettivi precisi e ci mette i soldi per realizzarlo. Domani la sinistra potrà, se lo vorrà, modificarlo in altra direzione, ma l'obiettivo di avere dieci centri di vera eccellenza è il punto da cui si partirà.

Mi piacerebbe credere che il ministro Gelmini abbia un ripensamento e decida di seguire le orme di Valerie Pécresse e non essere strumento inconsapevole dell'attuazione di quanto Piero Calamandrei temeva, ipoteticamente , potesse accadere.

A questo fine desidero ricordare al ministro che oggi la migliore scuola europea - se giudichiamo un albero dai frutti, come consigliano di fare i vangeli - è quella della Finlandia, sistema di istruzione puramente pubblico e la Finlandia è anche il paese che puntando sulla ricerca scientifica di punta in dialogo attento col sistema produttivo,è riuscita a sfondare nel settore dell'alta tecnologia, sfuggendo in buona misura agli stantii dibattiti sul costo del lavoro e sulla concorrenza fatta da Cina e India con i loro salari da fame. I finlandesi che sono grandi utilizzatori di telefonini hanno costruito la Nokia, anche noi siamo grandi utilizzatori ma non abbiamo costruito nulla e, pur non essendo stupidi o incapaci, siamo costretti a comprare i telefonini costruiti dagli altri.

E volendo dedicare un pensiero a quel grande paese che sono gli Stati Uniti, ricordo l'azione di Vannevar Bush, il suo rapporto "Science: the endless frontier" che sottolineava sessant'anni fa come un grande sviluppo economico e civile non potesse ormai aversi che mediante la ricerca scientifica attraverso un grosso impegno collettivo di tutto un paese e quindi mediante un grosso intervento pubblico. E se qualcuno sospettasse Vannnevar Bush di subire le influenze sinistrorse di Franklin D Roosevelt, allora ricordiamo che è stato Richard Nixon a lanciare all'inizio degli anni '70 il grande progetto pubblico di ricerca sul cancro.

E' un pregiudizio ideologico sia il ritenere che il pubblico sia buono e il privato cattivo sia il suo contrario.

Il problema vero, in Italia come altrove, è quello del comportamento corretto e dei controlli, la verifica dei risultati ottenuti (non della correttezza delle procedure burocratiche).

Ci sono alcune cose che senza l'impegno collettivo di tutta una società, senza l' impegno di un sistema pubblico non si possono fare. Per ragioni varie, il costo, l'impegno globale, la complessità, la necessità di pianificazione a tempi lunghi (e alcune, vedi il CERN, superano anche le possibilità di una singola nazione).

Cosi come è vero che un grande progetto pubblico non riuscirà a dare tutti i suoi frutti e a mettere radici nella società se non riesce a sensibilizzare tutti i cittadini e a coinvolgere il mondo produttivo.

Credo che le persone possano cambiare, che il ruolo assunto può farle cambiare, per questo mi piace lanciare una sfida al ministro Mariastella Gelmini, più giovane di Valerie Pécresse. Si batta per ottenere dal Ministro dell'Economia una sospensione dei tagli a Ricerca e Università. Faccia sentire con il massimo impegno il fiato sul collo a quelle università pubbliche o private che più hanno attinto a discutibilissimi meccanismi per attrarre "studenti", come troppi crediti condonati sulla base di esperienze pregresse extrauniversitarie o fatto altre cose discutibili. Lo faccia nel rispetto delle leggi, ma con decisione. Con la stessa decisione invii commissioni di inchiesta dove c'è sospetto di scorrettezze, nepotismo, o altro. Le suggerisco anche una passeggiata virtuale tra le università telematiche quasi tutte istituite durante il ministero Moratti e veda se tutto va ovunque bene secondo i criteri riconosciuti validi a livello internazionale. Per questo dico: Lei che è cosi giovane sia coraggiosa riconosca il merito, quello vero, e a chi merita dia di più, molto di più. Investa sui giovani, ascolti il nostro suggerimento per i nuovi concorsi di ricercatore e se proprio non vuol diventare il nostro Vannevar Bush, almeno sia la nostra Valerie Pécresse.

Ma cerchiamo tutti di capire a cosa porteranno scelte apparentemente casuali, dettate solo da incompetenza e ignoranza, come sento ripetere da molti, da troppi amici e colleghi.

Nel cercare di capire e interpretare i tempi, intuire quello che ci aspetta, presagire lo sviluppo del mostro oltre il velo che lo ricopre e intravedere anche possibili variazioni positive, fiori che potrebbero sbocciare, vorrei infine ricordare due cose.

Il cambiamento più profondo innescato da Obama (indipendentemente da quello che lui personalmente vorrà e potrà fare come presidente) è - a mio avviso - quello di avere coinvolto un numero prima non immaginabile di persone in un progetto di cambiamento. Questo può avvenire anche in Italia, ovviamente solo se riusciamo a innescare un processo simile; ma un piccolo cambiamento (indotto) avverrà comunque, se non subito fra qualche anno. Dobbiamo quindi prepararci, culturalmente e intellettualmente anche a questo per non sprecare una grande occasione.

Infine, Simone Weyl col suo "manifesto per la soppressione dei partiti politici" rappresenta quanto di più politico oggi sia dato leggere, indicando il sentiero che la politica deve seguire per non invadere spazi non suoi. I saggi che lo arricchiscono nella sua recente pubblicazione italiana ne forzano una lettura storica ma, come tutti i classici e tutti i testi profetici, questo magnifico testo riesce a parlare anche all'oggi, indicando una possibile via per un rilancio della politica.