NOTE

[1] “Il concetto di infinito – scrive Ettore Bortolotti – si presenta nelle più antiche cosmogonie sotto la forma non ben determinata di eternità del tempo ed in relazione col ritorno ciclico di eventi naturali (). L’immensità dello spazio ebbe riconoscimento più tardivo” [(1939), 47]. Subito dopo Bortolotti riporta la simpatica argomentazione del pitagorico Archita contro la limitazione dello spazio.

[2] In quest’ottica, la possibilità dei numeri razionali di essere dimezzati raddoppiandone il denominatore non aveva un  procedimento indefinito, senza più un sostegno materiale, alla stessa stregua dell’aumento dei numeri naturali. Così anche i discepoli di Leucippo secondo quello che riporta P. Tannery (1990, 269), i quali “sostennero in maniere diverse che vi è un limite alla divisibilità fisica”.

[3] Con la semplice intuizione, osserva Carl Boyer [(2007), 55] non è possibile fornire chiari concetti del limite di una successione, cioè del raggiungimento di un infinito in atto. A proposito della definizione del punto senza parti, Attilio Frajese vede appunto un ideale riferimento, una volta tanto, alla primitiva Geometria pitagorica [(1969), 93 passim].

[4] Chi parla, ad esempio, di principi infiniti (e non illimitati) è Anassagora (500-430 a. C. circa), secondo la testimonianza di Simplicio (Fis. 27, 2; citazione tratta da Anassagora, [(1966), 46- 47]: “Anassagora per primo trasformò la dottrina dei principi () ponendo i principi infiniti emateriali”. Questo frammento potrebbe far pensare effettivamente ad un infinito in atto,mentre appare solo potenziale nel frammento seguente [Id. 49]: “Nel piccolo non c’è mai l’assolutamente piccolo, ma sempre qualcosa di più piccolo, ma anche del grande c’è sempre qualcosa di più grande. E il grande è uguale al piccolo per quantità,ma rispetto a se stessa, ogni cosa è grande e piccola”.

[5] M. Timpanaro Cardini [(1962), 90]. I matematici, ricorda subito dopo, non abbandonarono il numero (intero) senza creare fratture in presenza della nuova situazione.

[6] Id. p. 91. Ricordiamo anche quanto osserva Abel Rey a questo proposito [(1933), 385]: “[in seguito alla scoperta degli irrazionali] si dovette ben presto inserire l’infinito nel numero”.

[7] Una delle più belle vittorie contro l’irrazionale (numerico), pur senza averne una chiara percezione, è stata la definizione di proporzione a : b = c : d valida sia nel caso che il rapporto a : b (e quindi c : d) possa essere razionale (a e b commensurabili) sia irrazionale (a e b incommensurabili), come risulta dalla definizione 5a del V libro degli Elementi di Euclide.

[8] Aristotele affronta l’infinito anche in Metafisica, XI, 9,10, capitoli che possono essere considerati estratti proprio dal libro III della Fisica e nel De Coelo.

[9] απειρον da α-περας, senza-confini. La traduzione “illimitato” (non-limitato; senza limiti o confini) sembra pertanto assai pertinente. Però anche “infinito” (non-finito; senza confini) ha lo stesso significato. In italiano i due termini si sono via via diversificati nel senso che il primo, l’illimitato, ha conservato il significato della sua formazione e il secondo, l’infinito, indica piuttosto l’infinito in atto. Nella lingua greca invece si è usato un unico termine, απειρον, per entrambi. Vedremo questi usi nel seguito ma osserviamo sin d’ora che talvolta (ma non sempre), per avvalorare l’indicazione dell’infinito in atto, al vocabolo viene aggiunto esplicitamente τò εντελεχεια (to entelechia da εν τελες εχειv, avere in tutto, realtà completa) oppure τò ενεργεια to energhéia e cioè specificatamente “in atto”. Ad esempio, riguardo all’uso di απειρον in Euclide, esso si trova solo due volte negli Elementi ed è stato osservato che in entrambi i casi trattano costruzioni attribuite ad Enopide di Chio; questo ha fatto nascere alcune ipotesi a tale proposito, cfr. S. Maracchia, [(1978) 76-86]. Questo articolo, nel quale si sostiene l’uso dell’infinito attuale, fu criticato da M. E. Paiow (Zentralblatt,marzo 1980)ma ha avuto anche riscontri positivi, ad esempio nell’articolo di Vincenzo Vita [(1986), 129].

[10] Federigo Enriques e Giorgio De Santillana considerano l’¥peiron più un aggettivo che un sostantivo [(1932), 54]. Si ricordi che Paul Tannery ha scritto Pur l’histoire dumot απειρον (Mémoire scientifiques, t. VII n. 21) e ne riprende il significato in [(1990), 98] considerandolo la materia omogenea per la formazione Dei mondi e traducendolo con ‘indéfini’ ma anche con il senso preciso ‘infini’.

[11] Scrive Abel Rey [(1933), 69]: “Come il nostro mondo si è costituito a carico dell’infinito? Anche qui laicizzando e razionalizzando il pensiero degli antichi cosmogonici, Anassimandro oppose il kòσμoς,[cioè] il mondo armoniosamente organizzato al caos primitivo dell’απειρον” che già prima (ivi p. 59) aveva accostato proprio al caos.

[12] Scrive E. Bortolotti [(1939), 48]: “Gli antichi non seppero o non vollero lasciar libero volo alla fantasia, che osa spingere lo sguardo al di là degli infiniti passi di una serie infinita, né accettare come elemento di calcolo il presunto risultato finale di una operazione che non avrà mai termine! E non vollero o non seppero riconoscere, formulare, proclamare il principio generale che informava le loro genialissime scoperte. In altri termini, mancò ad essi, come da noi ora si direbbe, la concezione attuale dell’infinito, come rapporto logico di una classe ai suoi elementi, cioè il concetto di limite”. Abbiamo visto che non è proprio così poiché l’infinito in atto è presente nella Matematica greca e culminerà con Archimede. Per Filolao si può leggere il capitolo XIII dal titolo “L’incommensurabile nel pensiero filosofico di Filolao” del volume di P. Cosenza [(1977) 165-170].

[13] Cfr. Euclide, [(1925), 35, 36] ove viene citato a tal proposito il frammento 8, 33 di Diels.

[14] Canto d’ingresso del Coro. E anche altrove ripete lo stesso vocabolo: “senza numero, innumerevole, infinito”.

[15] Si osservi che, con la semplice applicazione della legge s = vt alla portata anche dei matematici antichi, è possibile calcolare facilmente anche il punto del sorpasso. Osserviamo, inoltre, che la indefinita suddivisibilità di una qualunque grandezza e, in particolare, di un segmento da cui sono nate inevitabili considerazioni sull’infinito fu combattuto da Zenone, allievo di Parmenide, con i famosi “paradossi” stabilendo in definitiva “la continuità della grandezza, in opposizione alla pluralità pitagorica” (Bortolotti, 1939, 53). Scrive G. Colli (1998, 23): “Le testimonianze più precise e dettagliate [di Zenone] sulla formulazione delle famose aporie ci vengono da Aristotele che prima le esprime e poi le contraddice. Il problema di Zenone si pone in relazione con l’origine della matematica moderna (Leibniz, Newton). Il problema è il concetto di infinito in termini finiti; da ciò deriva il calcolo infinitesimale (). Ciò su cui fa leva Zenone è proprio l’inconoscibilità dell’infinito mentre la matematica moderna cerca appunto la sua conoscibilità”.

[16] Si legga a questo proposito anche il lavoro di V. Vita (1986) in cui vengono citati circa trenta passi presi dalla Fisica ed altri da diverse opere di Aristotele. Anche Thomas Heath fa una lunga esposizione dei passi di Aristotele tratti dalla Fisica e relativi all’infinito (in [(1970), 102-103] riporta i brani, 203 b 15- 30; 204 a 2-7; 204 a 34- 204 b 4; 206 a 9 - 206 b 27; 206 b 33- 207 a 2; 207 a 33- 207 b 34; 208 a 14-22). Ebbene, dopo il brano 206 b 33- 207 a 2 (p. 107): “In verità, capita che l’infinito sia proprio il contrario di quel che si dice: Difatti l’infinito non è ciò di cui al di fuori non c’è nulla,ma ciò di cui al di fuori c’è sempre qualcosa”, Heath commenta: “La dichiarazione di Aristotele della sua opinione sull’infinito è di grande interesse dal punto di vista della matematica in riferimento specialmente ai paradossi di Zenone (e Democrito), all’assioma di Archimede e al metodo di esaustione di Eudosso e non è un pretesto per includere citazioni di tali estensioni”. Heath parla poi delle linee insecabili e dei paradossi,ma non è questo il luogo per affrontare questi spinosi argomenti. Per il secondo rinviamo anche al nostro Aristotele e l’incommensurabilità [(1980)].

[17] Anche nel De Caelo (271 b, 34 - 272 a, 4) Aristotele scrive: “Sono ora da esaminare le rimanenti questioni, e in primo luogo se esista un corpo infinito, com’è opinione di quasi tutti i filosofi, e se questo non rientri nel numero delle cose impossibili ()”. Aristotele dimostra subito dopo che un corpo non può essere infinito. Poco dopo (279a, 27-28), Aristotele parla dell’infinità del tempo come “essere sempre, immortale e divino”.

[18]Ho tradotto ¥peiron con “infinito” (così traduce anche Antonio Russo nella sua edizione della Fisica (1968), dato che vi si parla anche del tempo (e del movimento) che sembra essere considerato da Aristotele un infinito in atto (così afferma ad esempio Rudy Rucker in [(1981), 4] ad esempio in 208 a, 20.Ma per quanto segue, come vedremo, e cioè per la posizione di Aristotele, si potrebbe forse tradurre “illimitato”. Si noti, una volta per tutte, che tutte le sottolineature sono mie.

[19]Vedremo nelle Conclusioni del presente lavoro un parallelo con le analisi di Galileo.

[20] Si noti che tra i cinque modi, descritti da Aristotele, in cui l’infinito può presentarsi (il tempo; la divisione di grandezze, anche matematiche; la possibilità del divenire che non si esaurisce; la possibilità di una tendenza ad un limite sono i primi quattro) vi è anche la sensazione dell’infinito nel nostro pensiero cosicché anche il numero e altre grandezze appaiono infinite (203 b, 15 sgg).Questa sensazione psicologica riconosciuta da Aristotele appare significativa come sensazione, a nostro parere, proprio di un infinito in atto. C’è da dire però che al termine del libro terzo (208 a, 14 sgg.) Aristotele afferma piuttosto perentoriamente che “è fuori posto prestar fede al pensiero” nel senso che, come esemplifica subito dopo, pensare a qualcosa non vuol dire che questo qualcosa esista; cfr. V. Vita [(1986),.123].

[21]Ricordiamo il procedimento di esaustione che si fa risalire ad Eudosso di Cnido, amico di Platone,ma che si trova successivamente in Euclide applicando la sua famosa proposizione X,1 secondo la quale è possibile determinare grandezze minori di una qualunque grandezza scelta a piacere (dato un e>0, è sempre possibile… diciamo noi ancora oggi!). Sarà poi Archimede ad usare questo metodo per dimostrare alcune notevoli proprietà.

[22] Trad. di G. Colli. Notiamo che nel Dizionario di Filosofia diN. Abbagnano, alla voce “immanenza”, vi è tra l’altro: “il primo significato è quello in cui gli Scolastici parlavano di un’azione immanente, cioè che rimane nell’agente ()questa distinzione non faceva altro che esprimere quella che Aristotele aveva stabilito tra “movimento” e “attività” nel IX libro della Metafisica (1048 b, 18) considerando come movimento l’azione che ha il suo fine fuori di sé e attività le azioni che hanno in se stesse il loro fine. Aristotele aveva adoperato a questo proposito il verbo ™nup£rcein (enupàrchein) che significa inerire come parte essenziale e costitutiva”.Notiamo che si potrebbero leggere anche i brani An. Sec.73 b, 28-32 (il punto appartiene alla linea); Topici 108 b, 26-31 (il punto costituente la linea come l’unità il numero) e Topici, 141 b, 17-27 (punto essenza della linea).

[23] Gli storici della Matematica, ad esempio, non sono d’accordo se la famosa dimostrazione (IX, 20) in cui Euclide prova che, dato un numero finito di numeri primi, ve n’è almeno un altro che non appartiene ad essi, indichi un infinito potenziale di tali numeri oppure – come penso anch’io – la consapevolezza della loro infinità in atto.

[24] È questa l’opinione comune degli storici. D’altra parte, nelle definizioni XI e XII del primo libro degli Elementi di Euclide nelle quali si stabilisce essere l’angolo ottuso e quello acuto rispettivamente maggiore e minore di quello retto e nella XIV (Figura è ciò che è compresa da uno o più termini), F. Enriques e M. T. Zapelloni fanno notare che il matematico greco vi esclude implicitamente la considerazione di figure illimitate “che sembrano repugnare al genio greco”, cfr. [(1925, 35, 36)].

[25] Con questo significato ci pare che abbia tradotto Tartaglia (v. Euclidesmegarense) allorché scrive “in continuo quanto ne pare” oViviani: “Si può prolungare indefinitamente e secondo la sua direzione una linea retta terminata” in Euclide [(1868), 4]; oppure F. Peyrard [in Euclide (1814), 5] con “Prolonger indefiniment, selon sa direction, une droit finie”. Il continuously di T. Heath nella sua edizione di Euclide. CosìM. Timpanaro Cardini: “di poter prolungare continuatamente in linea retta una retta terminata” in Proclo [(1978, 159)] e in Proclo [(1948), 162]: “On demande de  rolonger continuellement en direction une droite finie”. Anche la traduzione italiana continuamente ci appare per lomeno imprecisa; cfr. ad esempio Frajese-Maccioni [(1970) 71] e Enriques-Zappelloni [(1925), 44].

[26] Fabio Acerbi [(2007),781] traduce, in questa interpretazione: “senza soluzione di continuità. Si noti che σuvεχες è lo stesso vocabolo usato da Aristotele per intendere “quantità continua”.

[27] Notiamo quello che scrive Proclo nel commento alla definizione del punto fatta da Euclide, dopo aver detto che il punto è “presente nelle stesse cose che esso limita, e così si trova in esso una infinità di volte” [(1978) 89] e “il est en elles d’une manière infinie” in [(1948), 79].

[28] Cfr. E. Rufini, Il “Metodo” di Archimede e le origini dell’Analisi infinitesimale nell’Antichità (Stock, Roma, [(1926), 112 sgg.]. Notiamo che C. Boyer [(2007), 52] non è del tutto d’accordo su questo implicito infinito in atto che invece convince R. Netz e W. Noel, [(2007, 282 passim)].

[29] Cfr. Euclide [(1925), 36.]

[30] D. Hilbert [(1970), 6 sg.] , teorema I, 4, 3 (“Per ogni due punti A e C c’è sempre almeno un punto D sulla retta AC che giace tra A e C”), sfrutta per la dimostrazione i suoi assiomi di collegamento e ordinamento.

[31] La indefinita possibilità di poter suddividere una grandezza,matematica o no, era  (come sappiamo) uno dei cinque modi in cui si può presentare l’infinito. [32] È ovvio che vi sono infiniti punti costruibili, estremi di segmenti di misure razionali, rispetto ad una unità di misura stabilita ma, sino a quando non si entrò nel merito degli insiemi con la potenza del numerabile e del continuo, queste circostanze rimasero alquanto imprecise.

[33] La curva di Ippia è detta appunto trisettrice essendo nata per consentire la trisezione di un qualsiasi angolo, sebbene essa sia in grado di consentire la suddivisione di un qualsiasi angolo in parti purché questa suddivisione la si sappia fare per un segmento. Tale curva si suole indicare come curva di Ippia e Dinostrato dato che essa fu usata da quest’ultimo anche per la quadratura di un qualsiasi cerchio.

[34] Questa curva, di cui parla Pappo nelle sue Collezioni (IV, cap. XXX sgg.), va oggi, come detto, sotto il nome di “curva di Ippia e Dinostrato” per il fatto che Dinostrato, fratello del più importante Menecmo, l’aveva applicata alla quadratura del cerchio.

[35] Supponiamo che si tratti, ad esempio, dell’angolo A''BC (per un angolo acuto qualsiasi basterebbe che un suo lato fosse BC, il suo vertice B e l’ulteriore lato tale da incontrare la curva); basta allora dividere in tre parti uguali il segmento D'C, mandare dal punto più vicino a C la parallela a BC determinando così il corrispondente punto sulla curva di Ippia. La trisettrice è allora la congiungente di B con il punto della curva ottenuto.

[36] Dinostrato dimostrò che il lato AB è medio proporzionale tra l’arco AC e il segmento BE. Senza seguire la dimostrazione di Pappo notiamo solo che, indicando con r il lato AB (o la sua misura) e con e il segmento BE (o la sua misura), si avrebbe π r/2: r = re da cui π = 2r/e (nella figura π = 2AB/BE) e cioè la possibilità di costruire π e quindi di rettificare la circonferenza e di quadrare il cerchio.

[37] Notiamo, per dovere di storico, che vi è anche chi non attribuisce ai matematici greci l’attenzione verso i problemi detti,cui si devono aggiungere anche quelli della “duplicazione del cubo” e dell’“ inserzione”.Citiamo ad esempio l’accurata ricerca di Arthur Donald Steel, [(1936), 287-369] che attribuisce l’indubbia attenzione dei matematici greci verso i Limiti delle costruzioni geometriche a motivi di carattere didattico o semplicemente sistematico. Noi, assieme alla maggioranza degli storici, siamo di diverso avviso e abbiamo espresso le nostre considerazioni in [(2005),nn. 1-2].

[38] Ueber dasUnendicle” (Mathematische Annalen, 95 (1925) pp. 161-190. Noi abbiamo consultato tale opera in Carlo Cellucci (1967). I brani riportati nel testo si trovano alle pp. 163; 167 e 171; le accentuazioni indicate in corsivo sono nostre.

[39] Abbiamo preso questa citazione da Rudy Rucker[(1991), 4] che a sua volta rinvia all’opera di George Cantor, Gesammelte Abhandlungen, Springer, Berlin, 1932, p. 404.

[40] Archimede anche in altre occasioni mostra di non essere soggetto a limitazioni imposte da un rigore eccessivo, dovuto all’uso esclusivo, ad esempio, delle costruzioni con riga e compasso, o dal non voler usufruire del movimento.

[41] Archimede, [(1974), 576].

[42]Qualche secolo dopo, Pappo (III-IVsec. d. C.) accenna a superfici luogo di punti, solidi luogo di superfici e punti luoghi (tÒpoi) di linea (cfr. Pappo, 1982, 495).

[43] Trascuriamo la geniale dimostrazione di Archimede che si può trovare in ogni presentazione della sua Matematica e in ogni storia dell’Analisi infinitesimale che parta dalle origini. Ad ogni modo, in questa prima proposizione Archimede dimostra che un segmento parabolico è uguale ai 4/3 del massimo triangolo inscritto nel segmento stesso.

[44] Archimede giunge alla famosa proprietà dell’essere una sfera uguale ai 2/3 del cilindro circoscritto.

[45] Metafisica, 1083 b, 15-16

[46] È Archimede, scrive C. Boyer (2007, 50), che “avviò il calcolo dell’infinito, portato a compimento in seguito da Keplero, Cavalieri, Fermat, Leibniz e Newton e rese possibili i concetti di derivata e di integrale”.  

[47]Molte notizie e molti riferimenti bibliografici, a questo proposito, si possono trovare in [S. Maracchia, 1998]. [48] Probabilmente a queste parole si riferisce Cavalieri nella lettera del 28 giugno 1639 a Galileo in cui manifesta un grande entusiasmo, poiché riuscire a percorrere “l’immenso oceano degli indivisibili” con quell’ultima, altissima, divisione – scrive – avrebbe reso percorribile anche il suo metodo e passare – osservo – dall’infinito potenziale a quello attuale, dal discreto al continuo.