Questioni di genere: donne e scienza

Di recente in Italia l’uso del termine “genere” si è allargato dagli studi specialistici alla conversazione comune, agli articoli sui giornali e ai siti Internet.
Eppure, non solo in Italia, ma anche nei paesi di lingua inglese dove la parola è stata introdotta nel significato che qui ci interessa, gli equivoci sono all’ordine del giorno e frequente è la confusione, per esempio, tra genere e sesso.
L’uso del termine “genere” si è affermato negli anni Settanta del Novecento negli Stati Uniti nel tentativo di comprendere e svelare una cultura fondata su ciò che chiamiamo determinismo biologico. Il concetto di genere da allora è utilizzato in ambiti diversi del sapere scientifico, sociale e umanistico per individuare e studiare quelle qualità definite “maschili” o “femminili” in base a specifiche costruzioni sociali e culturali, distinguendole da quelle caratteristiche “maschili” e “femminili” degli individui che sono invece determinate dal sesso, dunque da qualità riconducibili alla fisiologia e all’anatomia dei viventi.
La nozione di genere applicata alla cultura umana fa dunque riferimento a una serie di segni, simboli e concetti che riconducono a relazioni di potere tra i sessi, pertanto se, come capita, usiamo “genere” al posto di “sesso” o di “donna” non siamo politicamente corretti, ma stiamo usando una parola in modo non appropriato1.
Nel corso degli ultimi trent’anni il genere è stato uno strumento analitico che si è dimostrato utile per esplorare le radici, la dinamica, l’evolversi e le conseguenze concrete di quell’intreccio di concetti che sono stati socialmente costruiti come “maschili” oppure “femminili” e che per questo cambiano nel corso del tempo, da cultura a cultura, da etnia a etnia, da religione a religione. Siamo tutti consapevoli del fatto che un comportamento “femminile” in una cultura, etnia, classe sociale, può non esserlo in un’altra.
Per quanto concerne la cultura cosiddetta occidentale e in particolare i fondamenti della scienza, si pensi come le dicotomie oggettivo/soggettivo, razionale/ naturale, logico/emotivo abbiano plasmato la contrapposizione tra pensiero “femminile” e “maschile” fin dai tempi di Aristotele, con un rilancio in epoca moderna grazie a pensatori come Rousseau e un importante consolidamento tra Otto e Novecento con le ricerche di antropologi misuratori di crani e pesatori di cervelli.
Secondo questa millenaria tradizione filosofica e scientifica, le donne sarebbero incapaci di pensiero oggettivo, dominate come sono da una realtà corporea invadente, di conseguenza emotive piuttosto che razionali. Questa ideologia di genere ha impregnato i rapporti tra i sessi e l’organizzazione familiare, ma anche la struttura sociale del mondo occidentale dove, fino al diciannovesimo secolo inoltrato, per esempio, le donne sono state escluse dai luoghi dove si è trasmesso e creato sapere scientifico: le accademie e le università2.
Il concetto di genere utilizzato come strumento analitico in diversi campi del sapere storico e sociologico permette dunque di individuare e capire come questa cultura che ha escluso le donne dai luoghi del conoscere abbia modellato non solo le istituzioni, ma la natura del sapere stesso3.
Tuttavia, se è vero che filosofia naturale e scienza hanno dato fondamento per millenni a pregiudizi diffusi circa l’inferiorità femminile, nello stesso modo in cui hanno sostenuto razzismo e antisemitismo, è sempre la scienza che nella seconda metà del Novecento ha spazzato il campo dai dubbi circa la pretesa “inferiorità” delle capacità del cervello delle donne rispetto a quello degli uomini, così com’è la scienza che ha dimostrato che “le razze umane” non esistono. La scienza è quindi una cultura nella quale portare il genere come strumento d’indagine si dimostra di grande fascino e interesse per capire il mondo in cui viviamo.

Donne e scienza oggi

L’accesso delle donne all’istruzione superiore è avvenuto nel corso dell’Ottocento: negli anni Trenta negli Stati Uniti, una trentina di anni dopo in Europa.
Nel secolo successivo, ovunque nei paesi industrializzati, le donne hanno progressivamente eliminato quel distacco dagli uomini accumulato in secoli di esclusione dall’istruzione. In Italia nel 1902 l’analfabetismo femminile su base nazionale si aggirava intorno al 50%4, ma nel 1992 le laureate hanno superato i laureati e nel 2004 le donne sono state complessivamente il 51,5% dei dottori di ricerca che hanno conseguito il titolo5. In una società come quella italiana, da sempre caratterizzata da scarsi investimenti nell’istruzione scientifica e da scarsa mobilità sociale, le donne nell’ultimo secolo sono state l’attore più dinamico, capace – pur in assenza di specifiche politiche di supporto – di conquistare un ruolo crescente e poi dominante nell’istruzione superiore, con una forte presenza nei settori scientifici.
È una situazione che si riscontra un po’ ovunque in Europa. Le donne europee che per esempio avevano conseguito un dottorato nel 1999 erano il 38% del totale dei dottori di ricerca di quell’anno, nel 2003, ultimi dati disponibili, sono salite al 43%, con performance di estremo interesse in campo scientifico e
tecnologico (vedi figura 1).

Figura 1. Proporzione di dottoresse di ricerca per campo, dati 2003. Grafico pubblicato in European Commission, Directorate General for Research, She figures 2006. Women and Science. Statistics and indicators, p. 39.

È noto tuttavia che alla situazione brillante delle donne in Europa nel campo delle lauree e del dottorato, non corrispondono analoghi risultanti in campo professionale. Più in particolare, se si ritiene che non sia tanto importante in assoluto
la “quantità” di donne presenti nei laboratori, pubblici e privati, quanto piuttosto una loro presenza in equilibrio con quella maschile in rapporto all’importanza che la scienza ha come valore economico e culturale in una società,
i dati sono in generale in tutti i paesi europei piuttosto scoraggianti (vedi figura 2).

Il fenomeno che emerge ponendo a confronto la realtà dipinta dal grafico in figura 1 con quella in figura 2, è noto come leaky pipeline, cioè della conduttura che perde, e si verifica purtroppo un po’ ovunque in Europa, ma anche negli Stati Uniti. Nel percorso che va dalla laurea al dottorato e prosegue verso la professione e poi verso i vertici della stessa, un numero percentuale più alto di donne rispetto a quello degli uomini si ferma ai gradini più bassi della carriera, quando non rinuncia del tutto alla ricerca.
Le ragioni per occuparsi seriamente del fenomeno non sono evidentemente “soltanto” di equità – le discriminazioni sono una violazione dei diritti umani, si tratti di genere, religione o etnia –, ma più concretamente economiche, un argomento cui tutti dovrebbero essere interessati. Investire cifre enormi per formare
studentesse, dottoresse di ricerca e scienziate cui poi non si permette di restituire alla comunità in generale, scientifica in particolare, quanto potrebbero è fallimentare sia da un punto di vista economico, sia da un punto di vista della qualità della ricerca.
Che cosa è stato fatto negli ultimi venticinque anni per affrontare il fenomeno della cosiddetta leaky pipeline?

Azioni positive

Nel 1971 negli Stati Uniti venne fondata l’Association for Women in Science (AWIS)6, associazione che divenne un punto di riferimento importante per le donne attive in campo scientifico e tecnologico a livello internazionale. Grazie alle campagne dell’AWIS e alle più generali e importanti pressioni delle campagne femministe fin dagli Settanta, nel 1980 il Congresso americano approvò una legge – la Public Law 96-516, nota come Equal Opportunity Act – che imponeva una serie di interventi concreti per favorire chi fino ad allora, come provato da una serie di dati inequivocabili, era stato discriminato in campo scientifico: donne, appartenenti a etnie minoritarie, persone con handicap fisici.
Per quanto concerne le donne nella scienza, l’Equal Opportunity Act imponeva alla National Science Foundation (NSF) la costruzione di un programma mirato di borse di studio, cattedre, premi alla carriera, fondi per la ricerca destinati alle donne. Era previsto inoltre un monitoraggio dell’evolversi della situazione nel corso del tempo per la verifica degli effetti ottenuti da quegli interventi.
L’iniziativa, che tutelava insieme i diritti delle donne e la qualità della ricerca, ha dato risultati importanti, com’è facile verificare nel documento Women, Minorities, and Persons with Disabilities in Science and Engineering pubblicato ogni due anni a cura della NSF7.
Dopo l’approvazione di quella legge, che incoraggiò in Canada e Australia interventi analoghi, il 1984 nel Regno Unito fu dichiarato anno delle Women into Science and Engineering (WISE). L’attività WISE è continuata in seguito, com’è noto, per attirare le ragazze a studiare ingegneria e scienze. Erano gli anni della nascita dei progetti di cosiddetto Public Understanding of Science e gli interventi per favorire un maggiore e più giusto inserimento delle donne in campo scientifico e tecnologico, anche ad alti livelli di carriera, divennero parte di più ampie misure mirate ad avvicinare il pubblico alla scienza.
All’inizio degli anni Novanta in Europa si cominciarono a pubblicare i primi importanti documenti che monitoravano la situazione delle donne in campo scientifico e tecnologico nei diversi paesi dell’Unione. Nel 1993 due meeting organizzati dalla Commissione europea attirarono l’attenzione degli esperti sul tema delle donne nella scienza8. Nel 1998 la Direzione generale Ricerca della Commissione Europea costituì un gruppo di esperte ed esperti sul tema donne e scienza incaricandolo di redigere una relazione sulla situazione delle donne nella politica scientifica dell’Unione. Tutte queste e altre importanti iniziative, cui l’Italia ha partecipato, hanno favorito in primo luogo la raccolta di dati, punto di partenza per qualsiasi successivo intervento concreto, un lavoro imponente che ha portato al rapporto ETAN del 2000, seguito nel 2003 dal rapporto She figures 2003 e, circa un anno fa, da una nuova edizione, She figures 2006, centosedici pagine di dati statistici importanti non solo per chi si occupa di donne e scienza, ma per tutti coloro che si interessano di politiche della ricerca9.
Nel corso degli anni Novanta, mentre giornali come Nature e Science sempre più di frequente ospitavano interventi su questi temi, diversi paesi europei mettevano a punto progetti mirati a favorire la carriera delle donne attive in campo scientifico.
Nel 1995 in Svezia furono create 31 cattedre riservate a ricercatrici. Ovviamente gli uomini non erano esclusi dalla competizione, ma ottenevano l’incarico soltanto nel caso non vi fossero candidate idonee. Nel 1999 in Germania l’Associazione dei centri di ricerca Hermann von Helmholtz finanziò un progetto per creare fino a 100 posti supplementari destinati a scienziate. In Olanda l’Organizzazione per la ricerca scientifica ha varato il programma ASPASIA nell’ambito del quale le ricercatrici possono presentare domanda per fondi di ricerca riservati. Si potrebbe continuare a lungo10.
Soltanto nel 2005, in ogni caso, a cura della Direzione generale Ricerca della Commissione Europea veniva redatta una Carta dei ricercatori dove, con modalità a dire il vero piuttosto vaghe e a tratti ambigue, si invitano le istituzioni deputate alla ricerca, pubbliche e private, a rispettare anche i cosiddetti equilibri di genere nella fase di reclutamento e avanzamento di carriera11. In Italia, nel frattempo, la legge del 30 maggio 2003 introduceva una modifica all’art. 51 della Costituzione dove ora si afferma che “la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”12. Non mi risulta che in seguito siano state introdotte a livello nazionale misure che rispondano a queste sollecitazioni, europee e italiane, per favorire le donne attive nelle università e nei centri ricerca pubblici e privati, come d’altra parte denunciato di recente13. Tuttavia, non sono certo mancate le iniziative che hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica su un problema che, evidentemente, non riguarda soltanto le donne, ma l’intera comunità scientifica, se non altro in relazione alla crisi delle cosiddette “vocazioni” scientifiche14. Nel 2003 si è costituita l’Associazione Donne e Scienza, fondata da scienziate e studiose attive in Italia e in Europa in questo campo fin dagli anni Ottanta, che promuove l’ingresso e la carriera delle donne nella ricerca scientifica15. Singole università hanno organizzato progetti locali per premiare le migliori laureate in scienze o per attirare studentesse a facoltà come ingegneria. Scienziate attive fuori dell’università hanno promosso progetti finalizzati alla diffusione dei cosiddetti Gap, i “gender action plans”16. Centri di ricerca su scienza e società e siti internet dedicati alla comunicazione della scienza svolgono ricerca e allo stesso tempo tengono informati il pubblico sulle attività nazionali e internazionali17. E si potrebbe continuare.
La ragione per cui alcuni esperti ed esperte a livello europeo e nazionale si danno da fare per introdurre le cosiddette azioni positive, sta nel fatto che chi si occupa di questi temi sa che il passare del tempo di per sé non è il rimedio che porterà la soluzione dei problemi. Si prenda ad esempio la condizione delle studiose nel settore denominato Scienze filosofiche, storiche, pedagogiche e psicologiche.
In quel campo le donne professore ordinario sono il 26,1%. Se si considera che in quel gruppo disciplinare le laureate erano circa il doppio dei laureati già sessant’anni fa, nell’anno accademico 1946-47, è facile intuire che, perché si arrivi all’equilibrio tra donne e uomini al top della carriera universitaria, aspettare e essere brave non basta, nelle scienze naturali così come in quelle sociali e cosiddette umane18.
Nei mesi scorsi negli Stati Uniti si è assistito a un dibattito pubblico che ha visto cinque rettori delle principali università americane appartenenti alla cosiddetta Ivy League, riunirsi a Boston dopo l’elezione di Drew Gilpin Faust a rettore della Harvard University. L’elezione di Gilpin Faust, fino ad allora preside del Radcliffe Institute, era la risposta della comunità di Harvard alle polemiche suscitate dalle affermazioni dell’ex rettore Lawrence H. Summers in un discorso tenuto nel gennaio del 2005.
Summers aveva insinuato che “issues of intrinsic aptitude”19 soggiacerebbero alle difficoltà di carriera incontrate dalle donne nei settori scientifici e tecnologici.
L’episodio scatenò polemiche violente ad Harvard con strascichi a livello globale e, nonostante Summers si sia dato da fare per l’insediamento di una Task Force on Women, l’anno dopo fu costretto a dimettersi.
L’episodio ha segnato una pietra miliare nella storia delle donne, e non è un caso sia avvenuto nel paese che per primo ha adottato, con severità e costanza dal 1980, le cosiddette azioni positive. Quell’episodio, tuttavia, è evidentemente significativo in particolare per le donne della Harvard University, che è la prima università nelle classifiche internazionali20, così come per tutte le donne attive nel campo della ricerca e della didattica a livello internazionale. Queste donne hanno un potere proporzionato a quello delle istituzioni per cui lavorano, un potere che, è importante ricordare, è dato dalla qualità e quantità della ricerca prodotta e della didattica offerta.
Al contrario di quanto alcuni e alcune ancora sostengono, le azioni positive non mettono affatto in pericolo la qualità della ricerca e gli standard della didattica per favorire soggetti sociali deboli21, al contrario. Combinando la qualità della ricerca e del lavoro prodotti con le azioni positive si rimedia alle discriminazioni secolari nei confronti delle donne così come delle minoranze. D’altra parte, dall’approvazione dell’Equal Opportunity Act del 1980 nessun indicatore nazionale o internazionale ha mai denunciato un calo nella produzione scientifica americana a causa dell’inserimento nei laboratori e ai vertici della carriera delle donne.
È evidente, in ogni caso, che nelle università e nei centri ricerca pubblici e privati, così come nella società in generale, perchè la realtà muti nel profondo in merito ai cosiddetti equilibri di genere, sono necessari cambiamenti culturali che non passano tanto attraverso le quote, quanto attraverso le relazioni umane in tutta la loro complessità, familiare e interpersonale, forse, prima ancora che sociale.

 

Note

 

1)Sul concetto di genere e il suo uso in ambito scientifico e negli studi sulla scienza si veda L. Schiebinger, Has feminism changed science?, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1999, in particolare, pp. 15-18. Si vedano inoltre E. Ruspini, Le identità di genere, Carocci, Roma 2005 e S. Capecchi, Identità di genere e media, Carocci, Roma 2006.

 

2)Una lettura fondamentale per comprendere i rapporti tra donne, genere e scienza nel lungo periodo resta a mio avviso D.F. Noble, Un mondo senza donne. La cultura maschile della Chiesa e la scienza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino 1994 (prima ed. orig. New York 1993).

 

3)Gli studi su donne, genere e scienza hanno dato contributi capaci di giocare un ruolo di primo piano nel rinnovamento della storia e della sociologia della scienza, come riconosciuto da parti diverse nella comunità internazionale. Vedi J. Golinski, Making natural knowledge. Constructivism and the history of science, Chicago University Press, Chicago 2005 (prima ed., Cambridge 1998), e J.L. Heilbron (ed. in chief), J. Bartholomew, J. Bennett, F. L. Holmes, R. Laudan, G. Pancaldi, (eds.), Companion to the history of modern science, Oxford University Press, Oxford 2003, passim (numerose le voci cui il Companion dà spazio, da “gender and science”, di L. Schiebinger, a “woman in science”, di P.G. Abir-Am).

 

4)T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Roma 2001, p. 95 (prima ed. 1963).

 

5)Miur – DG Studi e programmazione, L’università in cifre, Le Monnier, Firenze 2006, p. 61, disponibile all’indirizzo:
http://statistica.miur.it/normal.aspx?link=pubblicazioni.

 

6)Il sito dell’AWIS è consultabile all’indirizzo http://www.awis.org/about/history.html

 

7)Gli ultimi dati disponibili si riferiscono al 2006 e sono disponibili nel sito della NSF all’indirizzo
http://www.nsf.gov/statistics/wmpd/pdf/december2006updates.pdf. 

 

8)H. A. Logue, L. Talapessy, (eds.), Women in science: International workshop 15th-16th February 1993 Proceedings, European Commission DGXII, Brussels 1993.

 

9)Il rapporto ETAN, altri documenti e informazioni relativi a progetti su donne e scienza in Europa sono disponibili nel sito del Community Research & Development Information Service (CORDIS) all’indirizzo http://cordis.europa.eu/improving/women/documents.htm.
She figures 2003 e She figure 2006 sono rispettivamente disponibili agli indirizzi
http://ec.europa.eu/research/sciencesociety/pdf/she_figures_2003.pdf http://ec.europa.eu/research/science-society/pdf/she_figures_2006_en.pdf
Ambasciatrice dell’Italia per diversi progetti europei è stata Rossella Palomba, curatrice di Figlie di Minerva. Primo rapporto sulle carriere femminili negli enti Pubblici di Ricerca italiani,
Angeli, Milano 2000. Si vedano inoltre, Istat, Donne all’università, il Mulino, Bologna 2001; A.Valente, D. Luzi (a cura di), Partecipare la scienza, Biblink, Roma 2004 (http://www.biblink.it). 

 

10)Nel rapporto ETAN sono elencati e descritti i progetti realizzati fino al 2000 (vedi nota 8).

 

11)Carta europea dei ricercatori. Codice di condotta per l’assunzione dei ricercatori, 2005, disponibile all’indirizzo http://ec.europa.eu/eracareers/pdf/eur_21620_en-it.pdf

 

12)Si veda L./C. 1/03, Modifica dell’articolo 51 della Costituzione, all’indirizzo http://www.camera.
it/parlam/leggi/elelenum.htm.

 

13)Si tratta di un vuoto denunciato dal “Gruppo di lavoro: equilibrio di genere nella ricerca e formazione
scientifica” dei ricercatori e delle ricercatrici del CNR, coordinato da Silvia Caianiello. Il documento è disponibile all’indirizzo
http://www.osservatorio-ricerca.it/nuovo/doc/CNR/Equilibridigenere_Enti%20Ricerca.pdf

 
14)Negli ultimi anni le iscrizioni maschili nel settore scientifico denotano un calo, mentre le iscrizioni femminili sono in ripresa. Miur – DG Studi e programmazione, L’università in cifre, Le Monnier, Firenze 2006, p. 45 (il documento è disponibile all’indirizzo
http://statistica.miur.it/normal.aspx?link=pubblicazioni

 

15)Per le attività dell’Associazione Donne e Scienza vedi http://www.women.it/scienziate/

 

16)Tra le diverse iniziative segnalo: il premio “Le migliori laureate” organizzato, a cura di Miretta Giacometti, presso l’Università di Bologna (http://ilo.unibo.it/PREMIO%20MIGLIORI%20LAUREATE/Home.htm); le borse di studio messe a disposizione delle studentesse che
decidono di iscriversi alla Facoltà di ingegneria dall’Università di Udine grazie a un progetto curato da Francesca Soramel e Rossana Vermiglio
http://qui.uniud.it/notizieEventi/ateneo/donnee-carriera-tecnico-scientifica;
la fondazione di FAiR, l’associazione fondata da Elisabetta Giuffra
e Simona Palermo, genetiste presso il Parco Tecnologico Padano http://www.fair-research.eu/.

 

17)Tra le molte attività mi limito a segnalare le ricerche a cura di Valeria Arzenton e Massimiano Bucchi per Observa (http://www.observa.it); la sezione “Studi di genere”, a cura di Letizia Gabaglio, per Galileo (http://www.galileonet.it/canali?canale=Studi-di-genere); le ricerche di Daniele Gouthier e Federica Manzoli per Ulisse (http://ulisse.sissa.it/scienzaEsperienza/dossier/Uesp070427d001).


18)P. Govoni, “Donne e scienza nelle università italiane: dall’esclusione al sorpasso, 1877-2005”, in Atenei, 2006, pp. 151-158, disponibile all’indirizzo http://www.ateneirivista.it/archivio/pdf_riviste/5-6_2005_completo.pdf

 

19)L. H. Summers, “Remarks at NBER Conference on Diversifying the Science & Engineering Workforce”, disponibile all’indirizzo http://www.president.harvard.edu/speeches/2005/nber.html

 

20) La Harvard University è la prima università nelle classifiche internazionali. Per gli ultimi dati, vedi il “World University Rankings 2006”, in Times Higher Education Supplement, October 2006.

 

21)Questo era l’argomento tipico di chi in età vittoriana in Inghilterra si opponeva all’ingresso delle donne nelle università.