Reminiscenze di Gödel leggendo Borges

Gödel e Borges


Jorge Luis Borges

Accostare Gödel a Borges non è poi così forzato: i Teoremi di incompletezza si sono meritati in questi decenni interpretazioni tanto fantasiose e spericolate e collegamenti tanto avventati, anche nell’ambito letterario, che non c’è più niente che possa sorprendere a loro proposito. Oltre a tutto, la correlazione di Borges, se non con Gödel, almeno con Cantor e la Matematica dell’infinito, è chiara e stabilita e avremo modo di commentarla nelle pagine che seguono. Va però rilevato che Borges non sembra mai menzionare esplicitamente Kurt Gödel e i suoi teoremi nella pletora delle sue opere [B]. Cita sì un Godel, ad esempio nel Manoscritto di Brodie, ma si tratta solo di un omonimo – per di più senza dieresi – e cioè di Roberto Godel, che fu prima compagno di scuola e poi intimo amico e collega poeta dell’autore argentino. Inoltre, anche letterariamente parlando, è difficile cogliere analogie ed affinità tra la scrittura preziosa di Borges e lo stile sobrio ed asciutto con cui Gödel compose i suoi lavori di Matematica. Pur tuttavia, è innegabile che una qualche comune sensibilità si avverta e che talora, leggendo Borges, si colgono in modo naturale e senza forzature reminiscenze di Gödel e della sua opera. Il presente articolo è allora il contributo a questo argomento da parte di un lettore superficiale e distratto dell’uno e dell’altro autore – non certamente un letterato filologo di Borges e forse neppure un matematico che “si intende” di Gödel – che cerca comunque di cogliere e descrivere alcune tracce di Gödel nelle pagine di Borges. Quindi, nulla di sensazionale ma un esercizio affascinante, almeno per chi l’ha scritto, e si spera intrigante anche per chi lo leggerà. Del resto, quand’anche si concludesse che tra Gödel e Borges non c’è collegamento fondato, quand’anche si dovesse ammettere che queste note sono soltanto una “disquisizione sul nulla”, su qualcosa che non esiste, ebbene anche solo questo titolo e questa situazione farebbero la gioia forse dello stesso Borges e certamente di molti suoi appassionati estimatori.

Borges e la Matematica


Jorge Luis Borges

Borges y la Matematica [M] è un libro di Guillermo Martinez, purtroppo ancora non disponibile in traduzione italiana. Illustra l’abbondanza di riferimenti di Matematica nell’opera dello scrittore argentino e non è l’unico esempio che si possa citare in questa direzione (tra l’altro, Martinez è anche l’autore del fortunato poliziesco La serie di Oxford, nel quale i teoremi di Gödel hanno ruolo rilevante e talora straripante). In effetti, sono innegabili l’attenzione e la sensibilità di Borges nei confronti, se non direttamente di Gödel, almeno della Matematica e in particolare di temi cari anche a Gödel. A darne relazione dettagliata si rischia solo di essere ripetitivi, ma qualche breve cenno, volto a introdurre proprio l’accostamento con Gödel, potrà essere comunque utile. Tanto più che, quando si parla di Borges, è anche ammesso peccare di originalità, come dimostrato da quel Pierre Menard, autore del Chisciotte, protagonista di uno dei racconti di Finzioni, appassionato ammiratore di Cervantes e del suo capolavoro, il quale, nell’entusiasmo di imitare il suo idolo, “non volle comporre un altro Chisciotte – ciò che è facile – ma il Chisciotte: una trascrizione meccanica dell’originale, (…) parola per parola e riga per riga”.
Va premesso che l’immagine della Matematica che traspare dal complesso delle pagine di Borges non corrisponde certamente agli stereotipi di una scienza rigorosa e sistematica, coerente e completa, à la Hilbert. Questo paradigma di disciplina precisa e formale ricorre talora fugacemente e solo apparentemente, come nel racconto Tigri azzurre, dove l’autore evoca “l’anelito all’ordine che al principio creò la matematica” oppure nella poesia Elogio dell’ombra dove Borges adopera la Matematica – nella fattispecie, l’Algebra – come sinonimo di una compiutezza che all’uomo è preclusa o concessa solo con la morte:


(…) giungo al centro,
alla mia chiave, all’algebra,
al mio specchio.
Presto saprò chi sono.

Il fascino che la Matematica esercita su Borges non consiste nelle sue certezze definite ma piuttosto nei suoi enigmi e nei suoi paradossi; non nella capacità di elargire sicurezze ma in quella di spargere dubbi. È qui che essa corrisponde perfettamente alla sensibilità dello scrittore. Non a caso, dunque, Borges ama citare nelle sue opere il mistero dell’Ultimo Teorema di Fermat (quando ancora la soluzione di Wiles era lontana dall’essere immaginata). Accenna così, nel racconto Abejacàn il Bojarí, ucciso nel suo labirinto al “teorema che Fermat non scrisse in margine a una pagina di Diofanto” e menziona poi nella poesia L’ombra il teorema perduto di Fermat”.
Del resto, tutti i grandi misteri della Teoria dei numeri – come era l’Ultimo Teorema di Fermat quando non era ancora un teorema o come è oggi la Congettura di Goldbach – si correlano facilmente ai risultati di incompletezza di Gödel perché, una volta che si è stabilito che in Aritmetica ci sono enunciati indecidibili, è ragionevole immaginare, sospettare o addirittura sognare che gli esempi più classici e affascinanti di enigmi sui numeri – quelli resistenti da secoli a ogni tentativo di soluzione – siano appunto tali, indecidibili dunque, trascendenti ogni umana comprensione. Che poi la speranza sia fondata o no, questo è un altro discorso. Ad esempio, si sa che la Congettura di Goldbach, se fosse indecidibile, sarebbe vera ed altrettanto si sarebbe potuto dire dell’Ultimo Teorema di Fermat prima che arrivasse Andrew Wiles a risolverlo. Resta comunque, in tutti questi casi, un collegamento quasi scontato con i teoremi di Gödel: si veda a questo proposito l’avvincente Zio Petros e la Congettura di Goldbach di Apostolos Doxiadis [D].

 


Kurt Gödel

È anche da ricordare l’attrazione che il tema dell’infinito (matematico) esercitò sullo scrittore argentino. Né poteva essere altrimenti. Borges non poteva che essere colpito dalla Teoria degli insiemi di Cantor e dal paradosso di fondo che la investì sin dagli inizi: la contrapposizione, cioè, tra l’imprevedibile capacità – che Cantor inaugurò – di far luce matematica sull’infinito che ci trascende ed i nuovi enigmi e le nuove oscurità che questa nuova dirompente prospettiva ebbe subito a incontrare e sperimentare (l’Assioma della scelta e l’Ipotesi del continuo, solo per citare i riferimenti più classici e scontati). Così, ne La cifra (per la precisione nel racconto Nihon), Borges racconta d’aver “percepito, nelle pagine di Russell, la teoria degli insiemi, la Mengenlehre, che postula e esplora i vasti numeri che un uomo immortale non raggiungerebbe neppure se consumasse la sua eternità contando, e le cui dinastie immaginarie hanno come cifre le lettere dell’alfabeto ebraico”. Nella Storia dell’Eternità, poi, Borges celebra ancora la “eroica teoria degli insiemi” di Georg Cantor e accenna anche all’equipotenza tra insiemi infiniti, alla possibilità di confrontarli senza contarli, evocando (pur senza citarlo esplicitamente) il paradosso di Galileo: ci sono tanti naturali quanti quadrati di naturali o multipli di 3018, o potenze di 3018 ...

Notevole è anche il già citato Tigri azzurre dove il protagonista, di fronte a pietre misteriose che cambiano continuamente di numero e sfuggono a ogni tentativo definitivo di calcolo, ammette che “guardavo fisso una qualunque di esse, ma quando era sola erano molte” e così richiama alla mente la maniera in cui Cantor stesso descriveva “ingenuamente” ogni insieme, come un “Molti che si possa pensare come Uno”.
Né manca in Borges attenzione per il tema generale della Logica matematica. Ad esempio, nei suoi Prologhi trova spazio anche un commento alle opere di Lewis Carroll e si cita espressamente la Symbolic Logic di C. L. Dogdson “il cui nome perdurabile è Lewis Carroll”. Anni prima, nel già citato Pierre Menard, autore del Chisciotte, Borges, nel descrivere l’archivio del protagonista, elenca tra l’altro gli “appunti per una monografia sulla logica simbolica di Georges Boole” e ancora “l’opera ‘Les problèmes d’un problème’ (Paris, 1917) che discute nell’ordine cronologico le soluzioni dell’illustre problema di Achille e della Tartaruga”. In effetti, anche i paradossi di Zenone ricorrono spesso nell’opera di Borges, che in particolare dedicò proprio a quello su Achille e la Tartaruga due riflessioni approfondite in Discussione: anzitutto La perpetua corsa di Achille e della tartaruga e poi Metempsicosi della tartaruga. Nella prima, Borges ripete quasi alla lettera le spiegazioni sulle cardinalità degli insiemi infiniti che aveva già svolto ne La Storia del-l’Eternità. Nella Metempsicosi della Tartaruga, invece, dà ancora spazio a Lewis Carroll e al suo adattamento dell’argomento di Zenone all’ambito del ragionamento, quando ciò che va percorso è un sillogismo logico, il punto di partenza la sua premessa e l’irraggiungibile punto di arrivo la sua conclusione.

La fantasia di Borges seppe anche immaginare Geometrie non euclidee e Matematiche non standard. Ad esempio, in un racconto di Finzioni – quello che ha titolo Tlön, Uqbar, Orbis Tertius – si descrive la Geometria del mondo Tlön che “ignora le parallele e dichiara che l’uomo che si sposta modifica le forme che lo circondano". Si apprende poi che, alla base dell’Aritmetica Tlön, “è la nozione di numero indefinito. L’operazione del contare modifica le quantità e le trasforma da indefinite in definite”: una teoria che può richiamare certi aspetti della Meccanica quantistica.

In conclusione, la Matematica che era cara a Gödel non fu estranea neppure a Borges. Ma tra i due ci sono davvero relazioni dirette? Immediate? È vero che poco fa si accennava all’Ipotesi del continuo e che il contributo di Gödel a questo proposito è ancor oggi celebrato; è vero che i Teoremi di incompletezza hanno ripercussioni intriganti anche nella Teoria degli insiemi; è vero che, al di là della loro portata scientifica, il tema di una verità preclusa alle umane limitazioni ricorre anche in certe angosce delle pagine di Borges. Ma se l’accostamento si riducesse a questo, ci sarebbe giustamente da chiedersi: tutto qui? Per fortuna, il discorso è molto più profondo.

 

Incompletezze


L’opera di Borges che più comunemente si accosta ai Teoremi di incompletezza di Gödel è il racconto La biblioteca di Babele che risale al 1941 e fa parte della raccolta Finzioni. Il suo spunto è ben noto. Si immagina una biblioteca “interminabile” i cui scaffali sembrano raccogliere qualunque possibile combinazione – sensata o insensata – di lettere dell’alfabeto. Così a “righe ragionevoli” e “notizie corrette” si alternano sovrabbondanti e impenetrabili “cacofonie, farragini verbali e incoerenze”. Di questo “informe e caotico” Universo, ogni interpretazione è possibile. I mistici possono cercarvi “il libro ciclico” che “è Dio”; l’uomo comune gli argomenti per giustificare il senso della sua vita. Si può anche pensare che su qualche scaffale compaia il “libro totale”, “la chiave e il compendio perfetto di tutti gli altri”, la rivelazione, e che chi riesce a leggerla diventi “simile a un dio”. Ma, lontano da angosce esistenziali, la biblioteca può anche prestarsi ad un’ulteriore interpretazione, proprio a riguardo dei teoremi di Gödel o, più esattamente, delle conseguenze che Tarski ne trasse. In questa prospettiva, infatti, la biblioteca stessa – e il suo “libro totale” – si possono intendere come la Teoria del primo ordine dell’addizione e della moltiplicazione dei naturali, inaccessibile ad ogni umana percezione. I tentativi di comprendere l’una e scoprire l’altro corrispondono alle varie assiomatizzazioni incomplete di questa teoria, ad esempio a quella “aritmetica di Peano al primo ordine” che si indica comunemente con PA; l’affannarsi della ricerca, con le varie ipotesi sull’essenza e sulla struttura della biblioteca, alla Metamatematica.


Alfred Tarski

È anche notevole, ne La biblioteca di Babele, l’idea di un universo che contiene se stesso, nel caso specifico di un libro totale che è minima parte della biblioteca, eppure ne racchiude e cattura l’intima essenza. La situazione richiama ovviamente il paradosso di Russell e lo scandalo di un insieme che appartiene a se stesso. Del resto questo tema ritorna in altre opere di Borges, come ne La scrittura del Dio (uno dei racconti de L’Aleph). Vi si immagina un sacerdote dell’antico Messico imprigionato dai conquistatori spagnoli. Nei pochi attimi in cui la luce del sole illumina l’oscurità in cui giace, nella cella vicina gli appare un giaguaro. Giorno dopo giorno, il sacerdote intuisce nella distribuzione delle macchie sul manto del felino la rivelazione del suo Dio, “una formula di quattordici parole casuali (che sembrano casuali)” che “basterebbe pronunciare ad alta voce per essere onnipotente”. Così il giaguaro, che pure è parte dell’universo, ne costituisce la chiave e la sintesi. Quanto ai tentativi del sacerdote di afferrare la scrittura del suo Dio, essi sono alla fine coronati da un vano successo. È qui notevole che non gli sforzi meccanici e sistematici della mente gli valgano la comprensione dell’enigma ma il sogno e l’estasi e comunque un processo trascendente. Ne riparleremo tra breve. Torniamo infatti per il momento all’Aritmetica di Peano PA e ricordiamo il modo in cui i Teoremi di Gödel ce la raffigurano: come teoria “incompleta”, la quale sperimenta l’imbarazzante affiorare di enunciati “indecidibiliA che non sa né confutare né dimostrare e quindi necessita che A le sia aggiunto, affermato o negato, per produrre assiomatizzazioni più potenti.
D’altra parte, questi ampliamenti condividono anch’essi il medesimo difetto di PA, richiedono quindi ulteriori integrazioni B oppure non B e poi C oppure non C verso un’irrealizzabile completezza finale. L’Aritmetica PA diviene in questo modo la radice di un albero binario in cui ogni nodo S è un’assiomatizzazione ricorsiva e incompleta della teoria T dell’addizione e della moltiplicazione dei naturali al primo ordine e si biforca in due ampliamenti distinti, l’uno mediante un enunciato A che S non sa decidere, l’altro tramite la negazione di A. Dunque l’uno opposto all’altro, ambedue ricorsivi, nessuno capace di catturare l’essenza ultima di T.

D’altro canto, lo sconcerto di un successivo emergere di alternative senza fine ricorre anche nell’opera borgesiana. Lo incontriamo trattato ad esempio nel Labirinto (una poesia che compare tra quelle di Elogio dell’ombra):

“Non sperare che l’arduo tuo cammino che ciecamente si biforca in due, che ciecamente si biforca in due, abbia fine (…)”.

Lo ritroviamo poi in certi racconti di Finzioni, ad esempio in Esame dell’opera di Herbert Quain, o ne La lotteria a Babilonia. Ma l’opera di Borges che sembra meglio collegarsi alla condizione di PA sopra descritta è il racconto che appartiene ancora alla raccolta Finzioni ed ha titolo Il giardino dei sentieri che si biforcano. La sua narrazione si avvia nei modi serrati di un poliziesco: siamo in Inghilterra ai tempi della prima guerra mondiale e un professore cinese – spia al soldo dei tedeschi – è braccato dal contro-spionaggio britannico. Pur nell’ansia di sfuggire alla caccia spietata dei suoi inseguitori, trova il tempo di visitare un sinologo inglese e di disquisire con lui su un suo lontano progenitore, di nome Ts’ui Pen. Costui era governatore di provincia ma aveva rinunciato al suo potere e ai relativi privilegi per dedicarsi ad una duplice missione: “comporre un libro e un labirinto” (“il giardino dei sentieri che si biforcano” del titolo). Alla sua morte, però, nelle “vaste terre che erano state sue” non si era rinvenuta traccia di alcun labirinto e nelle sue carte si erano trovati solo “manoscritti caotici”, una “confusa farragine di varianti contraddittorie”. Ma in realtà – come il sinologo rivela – libro e labirinto esistono e sono anzi la stessa cosa: il libro è il labirinto ed il suo evolversi caotico nasconde il tentativo di descrivere il meandro di ogni possibile futuro: “In tutte le opere narrative, ogni volta che si è di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui Pen ci si decide – simultaneamente – per tutte. Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta si proliferano e si biforcano. Di qui le contraddizioni (…)”.


Giuseppe Peano

Inutile sottolineare come questo proliferare di eventualità contrapposte richiami esplicitamente l’albero binario delle estensioni di PA. Quanto poi all’intreccio del racconto di Borges, in questo labirinto di futuri possibili, previsti e imprevedibili, acquistano una loro collocazione e un loro senso lo stesso incontro tra il sinologo e la spia ed anche la caccia dei poliziotti al protagonista. Anzi, le colte speculazioni sul passato progenitore Ts’ui Pen e l’incalzare dell’inseguimento presente ricevono alla fine del racconto la loro sintesi e un logico collegamento: la spia non scamperà all’arresto ma troverà ugualmente il genio di compiere la sua missione. Ciò nonostante, il suo ultimo sentimento sarà quello di “una innumerabile contrizione e stanchezza”.

L’aggettivo che Borges usa a questo proposito, innumerabile appunto, è quanto mai intrigante se collegato a Gödel e a PA, nella misura in cui insinua l’eventualità di fremiti e sentimenti umani che trascendono la pura indagine numerica e logica dei casi possibili ed il mero pensiero meccanico. Del resto, anche a proposito de La scrittura del Dio, avevamo sottolineato come la rivelazione finale non arrivi al sacerdote prigioniero per l’ostinazione di un ragionamento formale ma per il sussulto improvviso di un sogno trascendente. L’osservazione richiama allora certe opinioni che Gödel ebbe in tema di computabilità, in particolare sulla Tesi di Church e specificamente la sua critica a Turing.
Gödel ebbe ruolo chiave nel dibattito che negli anni Trenta si sviluppò per individuare quali sono quei problemi matematici (e non matematici) che si possono formulare in ambito “discreto”, dunque mediante i numeri naturali, e ammettono – o non ammettono
– soluzione, per stabilire dunque quali funzioni dai naturali ai naturali sono da ritenersi calcolabili e quali no. La nozione di funzione ricorsiva che oggi comunemente si usa fu da lui formulata per la prima volta nel 1934 (sia pure in seguito ad un suggerimento di Herbrand). Kleene la raffinò e la provò equivalente ad altri possibili approcci alla calcolabilità, come ad esempio la l-definibilità di Church. Il fatto che nozioni tanto diverse convergessero concentricamente a individuare la stessa classe di funzioni fu inteso come un autorevole sostegno alla Tesi di Church, secondo cui le funzioni calcolabili sono appunto quelle ricorsive ovvero, equivalentemente, quelle l-computabili. Tuttavia Gödel non restò subito convinto di questa affermazione e cominciò ad accettarla solo quando Turing propose il suo modello di calcolabilità - la sua macchina – e si osservò che anche quest’ulteriore nozione – quella di funzione calcolabile con macchine di Turing – riusciva equivalente a quella di funzione ricorsiva. Fu allora che Gödel si dichiarò finalmente persuaso, come leggiamo in un suo scritto degli anni Trenta, Proposizioni diofantee indecidibili: “che questa sia effettivamente la definizione corretta di calcolabilità meccanica è stato stabilito al di là di ogni dubbio da Turing”.
Non è un caso che Gödel sottolineasse con puntiglio l’aspetto “meccanico” della calcolabilità di Turing, a distinguere quei procedimenti razionali che si possono delegare alle macchine (oggi diremmo ai computer) dalle potenzialità complessive della mente e della sensibilità umane. In effetti, ancora nel 1972, in Alcune osservazioni sui risultati di indecidibilità, Gödel affermava che l’opinione che “i processi mentali non possano andare al di là di quelli meccanici” fosse “un errore filosofico nell’opera di Turing”: “Ciò che Turing trascura completamente è il fatto che la mente, nel suo uso, non è statica, ma si sviluppa continuamente, cioè che noi riusciamo a comprendere termini astratti in modo sempre più preciso, man mano che li utilizziamo e che nella sfera della nostra comprensione entra un numero sempre maggiore di termini astratti”.
In altre parole: i processi della mente umana, le sue capacità di acquisire esperienza, di immaginare qualcosa di originale e imprevisto, di sfuggire a mere programmazioni aprioristiche, trascendono l’imitazione delle macchine. L’Informatica moderna ha sviluppato protocolli interattivi, nei quali l’andamento della computazione in qualche modo orienta e condiziona anche il suo esito, in questo accogliendo almeno parzialmente le perplessità di Gödel. Ma le righe appena citate di Gödel restano attuali a rivendicare le potenzialità della mente umana rispetto alle sue simulazioni meccaniche, la sua possibilità di evolversi e di aprirsi a nuovi orizzonti, l’impossibilità – per altri versi
– di catalogarla in modo definitivo. In questo senso l’aggettivo innumerabile sembra esprimere nel modo adeguato questa ultima superiorità.

 

Codici e sogni


Einstein e Gödel

Quando si parla di numeri e di innumerabilità a proposito di Gödel, è automatico pensare al procedimento che proprio Gödel ideò nella sua dimostrazione di incompletezza per “numerare” ogni ambito discreto. Realizzando una vecchia intuizione di Leibniz e l’ancor più antico dettato pitagorico secondo cui “tutto è numero”, Gödel mostrava come etichettare in modo effettivo ogni elemento di quel dato contesto con un numero di codice, atto a identificarlo senza confusioni ed ambiguità. In particolare, il meccanismo si applicava alle proposizioni stesse che riguardano i numeri naturali e alle dimostrazioni che collegano queste proposizioni e ancora alle proposizioni e alle dimostrazioni sulle proposizioni e sulle dimostrazioni, e via dicendo. Tramite i loro codici, tutte queste proposizioni e dimostrazioni diventano esse stesse “numeri”. In questo modo, la Matematica dei numeri finisce col confondersi con la Metamatematica delle proposizioni e, ancora, con la Metametamatematica delle proposizioni sulle proposizioni. Anzi, è proprio su questo germe che si sviluppa poi la capacità di costruire enunciati autoreferenziali e indecidibili che conduce alle conclusioni dei Teoremi di incompletezza.
D’altra parte, se fingiamo per un attimo che i numeri si animino di una loro vita, possiamo immaginare quali sarebbero il loro sconcerto e la loro confusione di fronte alle varie alternative che loro si aprono: se considerarsi davvero numeri, quali essi sono, oppure magari, a seconda dei casi, proposizioni o dimostrazioni. La loro imbarazzante condizione verrebbe allora a richiamare un altro tema ricorrente nell’opera di Borges, riferito non a oggetti matematici ma all’essere umano: quello del sogno e della vertigine di scoprirsi non persona reale ma, appunto, solo il sogno di altri uomini o dei. Ad esempio, nel già citato La scrittura del Dio leggiamo: “Non ti sei destato alla veglia, ma ad un sogno precedente. Questo sogno è dentro un altro, e così all’infinito”.
Si evoca qui la possibilità di un procedimento di regresso infinito (che avremo modo di incontrare e commentare altrove in Borges): di chi è sognato da chi è a sua volta sognato da chi… e via fino all’infinito, appunto. L’immagine si presta ovviamente a paradossi e ricami logici, come quelli che si leggono in certe pagine di Lewis Carroll su Alice. Del resto, Borges amò molto questo autore e gli dedicò anzi il Prologo già sopra ricordato. In esso citò, tra l’altro, il reciproco sogno di Alice e del Re Rosso: “Alice sogna il Re Rosso che sta sognandola, e qualcuno l’avverte che se il Re si sveglia essa si spegnerà come una candela, perché non è altro che un sogno del Re che la sta sognando. A proposito di cotesto sogno reciproco che ben può non aver mai fine, Martin Gardner ricorda una certa donna obesa che dipinge una pittrice magra, la quale dipinge una pittrice obesa che sta dipingendo una pittrice magra, e così via fino all’infinito”. (È notevole osservare come Borges menzioni qui uno dei più popolari e fantasiosi autori di rompicapo logici e matematici, appunto Martin Gardner).
Nel caso di Alice e del Re Rosso, però, ciascuno dei due protagonisti sogna non se stesso ma l’altro. Nell’opera di Borges, tuttavia, troviamo dovizie di esempi di sogni “autoreferenziali”. È questo il caso del racconto de La cifra che ha titolo, appunto, Un sogno: “In una cella circolare un uomo che mi somiglia scrive, in caratteri che non comprendo, un lungo poema su un uomo che in un’altra cella circolare scrive un poema su un uomo che in un’altra cella circolare…. Il processo è senza fine e nessuno potrà leggere ciò che alla fine i prigionieri scrivono”. Tra l’altro, il tema di un racconto che si riproduce al suo interno non è originale ma deriva da un classico che Borges molto amava (anche per questo motivo), e cioè Le mille e una notte dove, tra le novelle che la sposa narra al re per ritardare la propria sentenza di morte, c’è appunto quella di una sposa che narra al re… “mi rammentai anche della notte centrale delle ‘Mille e una Notte’, dove la regina Shahrazad per una magica distrazione del copista si mette a raccontare testualmente la storia delle ‘Mille e una Notte’, a rischio di tornare un’altra volta alla notte in cui racconta, e così all’infinito (…)”.

Così leggiamo ne Il giardino dei sentieri che si biforcano. Ma la meraviglia e la vertigine di scoprirsi non realtà ma sogno, o sogno e realtà assieme, compaiono altrove in Borges. Talora come angoscia esistenziale, talora come scherzo paradossale, talora come ricerca metafisica e (quasi) preghiera. Perché dunque non accostarle anche ai numeri naturali e alle proposizioni di cui sono codici? Del resto, la dimensione del sogno si può anche interpretare – gödelianamente – come incapacità di provare la propria coerenza a richiamare ancora i limiti di PA e delle umane assiomatizzazioni dell’Aritmetica: “Se sapessi che è stato di quel sogno che sognai, o che sogno aver sognato, saprei tutte le cose”. Così ne La cifra, tra le righe di Dimenticando un sogno.

 

Altri paradossi

La categoria del sogno è solo una delle forme con cui Borges estrinsecò quel gusto per il gioco logico e per il paradosso che è ulteriore motivo di collegamento a Gödel. L’accostamento si basa non tanto sulla scontata constatazione che gli enunciati autoreferenziali del primo Teorema di incompletezza sono essi stessi esempi di paradossi ed anzi adattano al contesto della dimostrabilità antinomie classiche come quella del mentitore, quanto sul fatto che anche Gödel amò nella sua dialettica l’esercizio del paradosso (si veda a questo proposito il capitolo su Gödel umorista in [L]). Anche Apostolos Doxiadis sottolinea questo aspetto del carattere di Gödel nel suo dramma La diciassettesima notte dove descrive gli ultimi giorni della vita del nostro, il suo rifiuto di assumere qualunque cibo, il tentativo dei suoi infermieri di convincerlo a nutrirsi e la sua superiore razionalità, capace di ribattere e confutare logicamente ogni loro convenzionale argomento. Il piacere dell’antinomia affiora in Borges non solo nelle citazioni di Lewis Carroll, in quelle dei paradossi di Zenone e in altri simili riferimenti, ma anche nella sua passione per il romanzo poliziesco. Il giallo classico abbonda, infatti, di certezze che si rovesciano e di verità che si ribaltano (situazioni, queste, che potremmo tranquillamente definire “gödeliane”).


Lewis Carroll

Così non sorprende che Borges gli abbia dedicato il suo interesse di critico ed esegeta ed anche la sua inventiva di autore, sempre mantenendo la sua sensibilità e la magia del suo stile, dunque enfatizzando proprio immagini di labirinti, giochi logici e perfino colti riferimenti matematici. Si ricordi ancora Abenjacàn il Bojarí, ucciso nel suo labirinto. Oppure si pensi a La morte e la bussola ove la soluzione finale richiama direttamente i Teoremi di incompletezza, quando ci presenta una verità che parrebbe assodata e archiviata e invece all’improvviso si rivela imperfetta e sfuggente, superiore a ogni premeditazione. Non è certo un caso che anche i teoremi di Gödel e i loro paradossi figurino sempre più spesso in racconti e romanzi di mistero e di fantascienza, da quello di Guillermo Martinez sopra citato allo stesso Zio Petros e la Congettura di Goldbach e altri innumerabili esempi [T1, 2].

 

Ritorno al futuro?

In Altre inquisizioni, Borges raccolse sotto l’unico titolo di Nuova confutazione del tempo due riflessioni che aveva scritto nel 1944 e nel 1946. L’argomento comune è la critica dell’idea di un tempo oggettivo, che scandisce il proprio procedere lineare e inesorabile indipendentemente dalla sensibilità personale dell’individuo. Il punto di partenza è costituito da alcune posizioni interne alla corrente filosofica dell’idealismo, che Borges discute e confronta: quella di Berkeley, secondo cui un oggetto esiste solo nella misura in cui è percepito, e quella di Hume secondo cui un soggetto consiste nelle sue sensazioni.


George Berkeley

Borges applica queste premesse anche all’ambito cronologico e osserva che a partire da questa base si può contestare il concetto stesso del tempo come successione lineare di momenti; afferma che una sensazione che si ripete identicamente in due istanti diversi della vita di un uomo, o nelle vite di due uomini distinti, è sufficiente a distruggere questa teoria. Passando dalle speculazioni filosofiche al racconto, Borges riprende una sua pagina giovanile, Sentirsi in morte. In essa, la magia di una sera e la vertigine di un’esperienza passata che d’improvviso si rinnova generano nel protagonista, appunto, l’idea di un tempo ribelle a ogni oggettiva linearità e legato invece alla sua personale interiorità. Alla prima sensazione di ricordo (“È come trent’anni fa”) si succedono la coscienza di qualcosa di più misterioso e sottile (“Il facile pensiero ‘Sono nel passato’ cessò d’essere poche approssimative parole e divenne realtà profonda”) e poi la riflessione e la scoperta che quella “pura rappresentazione di fatti omogenei (…) non è soltanto identica a quella che si verificò (…) tanti anni fa: è, senza somiglianze né ripetizioni, la stessa”. Da questa constatazione si deduce che il tempo “è una delusione: l’indifferenza e l’inseparabilità di un momento del suo apparente ieri e di un altro del suo ap­parente oggi bastano a disintegrarlo”. Così termina la prima parte del saggio di Borges. È pur vero che i paragrafi che la seguono (quelli scritti nel 1946) sembrano ribaltare questa conclusione quando affermano che “negare la successione temporale” è “disperazione apparente e consolazione segreta”: “il nostro destino (…) non è spaventoso perché irreale; è spaventoso perché è irreversibile e di ferro. Il tempo è la sostanza di cui sono fatto”. La confutazione del tempo che Borges ci dà nella prima parte resta comunque degna di attenzione e riesce tanto più notevole in quanto significativamente analoga a una riflessione che Gödel sviluppò sulla Teoria della relatività di Einstein e che presentò in tre articoli pubblicati tra il 1949 e il 1952. In essi, deduceva dalle equazioni cosmologiche l’eventualità di nuovi universi “rotanti”, nei quali il tempo non esiste: chi crede di procedere verso il futuro può benissimo ritrovarsi, invece, nel passato. Che anche il nostro universo sia tale? Gödel si interessò alla questione e concluse che, se un universo rotante è comunque possibile, allora ci sono buone ragioni per dubitare che il nostro stesso “tempo”, e il suo scorrere, esistano realmente. Non è il caso di discutere qui in maggior dettaglio gli aspetti scientifici e filosofici della questione per i quali rinviamo i lettori interessati, ad esempio, al paragrafo sulla Cosmologia in [L]. Semmai, vale la pena di spendere un ultimo attimo di meraviglia su quest’idea di una macchina del tempo che ci riporta indietro – a periodi trascorsi della nostra vita – per riviverli, forse cambiarli e correggerli, forse confermarli: un ritorno al passato, che è non solo immaginazione fantascientifica, ma fascinosa teoria fisica, non lontana dalla magia e dalle vertigini del racconto di Borges sopra citato.

 

L’esistenza di Dio


André Weil

André Weil sosteneva paradossalmente che i Teoremi di incompletezza dimostrano l’esistenza di Dio ed anche quella del demonio, nella misura in cui evidenziano da un lato i limiti umani e dall’altro la capacità umana di cogliere questi limiti: “Dio esiste perché la Matematica è coerente, il diavolo esiste perché non si riesce a provarlo”. Ma, al di là degli aforismi, l’argomento dell’esistenza di Dio e la possibilità di provarla logicamente appassionarono realmente Gödel. Nel 1970, fece circolare una sua Prova ontologica racchiusa in poche schematiche righe, che furono pubblicate ufficialmente solo nel 1987, quindi postume. Ma tracce di riflessioni di Gödel su come provare l’esistenza di Dio si trovano sui suoi taccuini ben prima del 1970, già nel 1941 e poi negli anni Cinquanta. Dal 1987, la prova ontologica di Gödel è diventata oggetto di dibattiti e approfondimenti, quasi di culto. Oggi la troviamo pubblicata e commentata in edizione italiana in [G1]. Quel che è singolare a suo proposito è che l’interesse di Gödel sulla questione non nasceva da motivi di fede. Anzi apprendiamo da [G], e specificamente dai commenti di Adams sull’argomento, che Gödel – che pure si riteneva soddisfatto della sua prova ontologica – aveva tuttavia ritegno a pubblicarla perché timoroso che la si attribuisse a personali travagli metafisici. Ciò che lo stimolava era piuttosto una motivazione logica e cioè la possibilità di “una dimostrazione di questo tipo con assunzioni classiche – completezza, etc. – adeguatamente assiomatizzate”. Il suo obiettivo era quello di una prova razionale dell’esistenza di un Essere Perfetto. In questo, il suo lontano riferimento poteva essere l’argomento ontologico di Cartesio, quello che deduce la necessità di Dio (e dunque la sua esistenza in atto) dalla premessa che Dio è possibile. Come già Leibniz, Gödel riteneva però che la possibilità dell’esistenza di Dio andasse a sua volta provata e chiarita. Questo era dunque l’oggetto della sua curiosità. L’esistenza di Dio fu interesse anche di Borges e anzi costituisce un tema quasi ossessivo della sua letteratura. Come leggiamo nell’introduzione di [B], l’opera di Borges è “alluvionata di metafisica” e sovrabbonda a questo riguardo di riferimenti ripetuti e coltissimi e di dotte citazioni teologiche – cristiane e non cristiane – di Eraclito e Averroé, di Agostino e della patristica e, ancora, di Dante, Spinoza, Pascal e dello stesso Leibniz. Eppure, come già Gödel, Borges era tutto meno che credente bigotto: un “ateo teologo”, lo definì Leonardo Sciascia a sottolineare da un lato il suo scetticismo, dall’altro il suo gusto per i temi metafisici. Quale poteva essere dunque il motivo di questa sua attenzione quasi maniacale? Una citazione dello stesso Borges può forse illustrarcelo: “L’idea di Dio, di un essere sapiente e onnipotente che, in più, ci ama è una delle creazioni più audaci della letteratura fantastica”. Detto da chi, come Borges, fu innamorato della letteratura fantastica e coltivò quasi una religione del fantastico, questa affermazione – più che un’ironia alla Voltaire – può quasi intendersi come un atto di fede. Si pensi ai versi che Borges dedicò, nella raccolta La moneta di ferro, a Baruch Spinoza (anche lui teologo sui generis, e anzi tacciato di eresia e ateismo):
Kurt Gödel
(…) il mago insiste e foggia Dio con geometria raffinata; dalla sua debolezza, dal suo nulla, seguita a modellare Dio con la parola. Il più generoso amore gli fu largito, l’amore che non chiede di essere amato”.
In questo modo, l’idea di un amore gratuito di Dio per l’uomo sua creatura è ribaltata e sostituita da quella simmetrica dell’amore gratuito dell’uomo Spinoza verso un Dio (sua creatura?). Ma i versi di Borges, se da un lato richiamano nuovamente certi paradossi à la Voltaire, non mancano tuttavia di una qual sorta di umana tenerezza, che risalta ancor più in un’analoga poesia dedicata a Spinoza, quella che si trova ne L’altro, lo stesso e descrive il filosofo intento a comporre “l’infinito Ritratto di Chi è tutte le Sue stelle”: un’immagine che, tra l’altro, richiama esplicitamente il verso finale della Commedia di Dante (“l’amor che muove il sole e le altre stelle”). Dunque, la posizione religiosa di Borges ricorda per molti versi quella di Gödel. Seppure lontana da una convinta adesione, si riveste tuttavia di insospettate curiosità. Del resto, anche Borges si interessò lungamente e approfonditamente del tema delle prove ontologiche. In Metempsicosi della Tartaruga, citando il procedimento del regressus in infinitum (a lui caro e familiare), Borges osserva che “San Tommaso d’Aquino se ne serve per affermare che c’è Dio. Avverte che non c’è cosa nell’universo che non abbia una causa efficiente e che questa causa, ovviamente, è l’effetto di un’altra causa anteriore. Ogni stato proviene da quello precedente e determina quello successivo, ma la serie generale poteva non esserci stata, poiché i termini che la compongono sono condizionali, vale a dire, aleatori. Eppure, il mondo c’è: da ciò possiamo inferire una non contingente causa prima, che sarà la divinità. Questa è la prova ontologica. La prefigurarono Aristotele e Platone: Leibniz la riscopre. Un’eco di questa prova, adesso morta, risuona nel primo verso del Paradiso: La gloria di Colui che tutto move”.

Come detto, il regresso infinito è ricorrente in Borges. Lo abbiamo già incontrato nelle vertigini di sogni che si richiamano l’uno dietro l’altro. Ma la necessità di basi salde di riferimento su cui fondare, se non tutto ciò che sta nell’universo, almeno una serie coerente di conseguenze e teoremi sussiste anche nelle teorie matematiche e nei loro assiomi. In Altre Inquisizioni, specificamente ne Il primo Wells, leggiamo: “Finché uno scrittore si limita a narrare avvenimenti o a delineare le lievi oscillazioni di una coscienza, possiamo supporlo onnisciente, possiamo confonderlo con l’universo o con Dio; non appena scende a ragionare, lo sappiamo fallibile. La realtà procede per fatti, non per ragionamenti: tolleriamo che Dio affermi ‘Sono Colui Che Sono’, non che dichiari e analizzi, come Hegel e Anselmo, l’argomentum ontologicum. Dio non deve teologizzare”. Ora, l’idea di un Dio che non teologizza, dunque di un essere perfetto che non deve trattare di se stesso, è notevole da vari punti di vista, laddove pare stabilire tra gli attributi della perfezione l’impossibilità – o meglio l’inutilità - di ogni autoriferimento. Per altri versi, si potrebbe anche affermare che Dio (“Io Sono Colui Che Sono”) sia – filosoficamente parlando – puro autoriferimento. È poi notevole osservare che anche Borges, così come Gödel, si cimentò in una sua personale dimostrazione ontologica. La si trova ne L’Artefice sotto il titolo (irriverente?) di Argumentum ornithologicum. L’esistenza di un essere supremo viene dedotta dall’impossibilità di fissare effettivamente il numero degli uccelli di uno stormo in volo: “Chiudo gli occhi e vedo uno stormo di uccelli. La visione dura un secondo o forse meno; non so quanti uccelli ho visti. Era definito o indefinito il loro numero? Il problema implica quello dell’esistenza di Dio. Se Dio esiste, il numero è definito, perché Dio sa quanti furono gli uccelli. Se Dio non esiste, il numero è indefinito, perché nessuno poté contarli. In tal caso, ho visto meno di 10 uccelli (per esempio) e più di 1, ma non ne ho visti 9 né 8 né 7 né 6 né 5 né 4 né 3 né 2. Ho visto un numero di uccelli che sta tra il 10 e l’1, e che non è 9 né 8 né 7 né 6 né 5, eccetera. Codesto numero intero è inconcepibile; ergo, Dio esiste”. Come si vede, l’argomentazione di Borges pare oggettivamente discutibile e del resto l’idea che l’esistenza di Dio possa essere, se non provata, almeno insinuata e intuita dall’umana impossibilità di misurare certi “numeri” della natura, quali i granelli di sabbia del deserto, o gli aghi di un pino, è tutto fuorché originale. Dunque, la prova di Borges sembra ridursi a nulla più che un nuovo scherzo paradossale e tuttavia, contemporaneamente, fornisce un’ulteriore testimonianza, se non di un’inquietudine, almeno di quella sorprendente curiosità (di cui già si diceva) verso il Dio che ostentatamente si rifiuta.

 

BIBLIOGRAFIA


[B] Borges J. L., Tutte le Opere (a cura di Porzio D.), Meridiani Mondadori, Milano (volume I, 1984; volume II, 1985).

[D] Doxiadis A., Zio Petros e la Congettura di Goldbach, Bompiani, Milano, 2001.


[G] Gödel K., Opere, Bollati Boringhieri, Torino (I, 1999,1929-1936; II, 2002, 1938-1974; III, 2006, Saggi inediti e conferenze).

[G1] Gödel K., La prova matematica dell’esistenza di Dio (a cura di Lolli G. e Odifreddi P.), Bollati Boringhieri, Torino, 2006.

[L] Lolli G., Sotto il segno di Gödel, Il Mulino, Bologna, 2007.

[M] Martinez G., Borges y la Matematica, Editorial Seix Barral, Barcelona, 2006.

[T1] Toffalori C., “Vero o dimostrabile? Gödel nella letteratura poliziesca”, in La complessità di Gödel (a cura di Lolli G. e Pagallo U.), Giappichelli, Torino, 2008, pp.143-166.


[T2] Toffalori C., Il matematico in giallo, Guanda, Parma, 2008.