Le origini del calcolo delle probabilità

Articolo originale di Maurice G. Kendall, tradotto da Enzo Lombardo

 

Ben prima del Medio Evo, il gioco era diffusissimo in Europa. Ad un certo momento, ignoto, i dadi alla fine rimpiazzarono gli astragali come strumenti di gioco e, dal momento che le carte da gioco non apparvero sin verso il 1350, i giochi per un migliaio d'anni dovettero essere condotti prevalentemente con i dadi. Gli sforzi della Chiesa e dello Stato per controllare i mali associati al gioco furono tanto infruttuosi quanto lo sono al giorno d'oggi e nulla è più indicativo del persistere delle scommesse dei continui tentativi per prevenirli.
Il sermone di San Cipriano da Cartagine De Aleatoribus (c. 240 D.C.) trovò eco dodici secoli più tardi nel più famoso sermone di San Bernardino da Siena Contra aleatorum ludus del 1423. Le scommesse dei germani cui si riferisce Tacito forse potrebbero essere divenute più moderate ma erano altrettanto importanti nel secolo XIII quando Federico II (1232) promulgò la legge de aleatoribus e Luigi IX (1255) emanò la proibizione non solo del gioco ma persino della costruzione dei dadi. Una lunga serie di editti che proibivano al clero di giocare (per esempio, di Otto der Grosse, del 952, del Concilio di Trevi, del 1227 e 1238, del Concilio di Worcester del 1240) sono di per sé eloquenti del fallimento di reprimere il male da parte delle autorità.

Tutte queste proibizioni e questi bandi in realtà non erano diretti contro i giochi di sorte tal quali ma contro i vizi che li accompagnavano. Sembra che non vi sia stata alcuna empietà nel creare eventi casuali o nell'impiegarli per divertimento. La Chiesa era molto più interessata al bere e alla bestemmia, che si associavano al gioco, e lo Stato molto più coinvolto per l'ozio, per l'assenza di attenzione per i beni e per il crimine che così spesso si rinvenivano fra i giocatori. Nel Pardoner di Chaucer si trova espresso il punto di vista ufficiale dei suoi giorni, dando un esempio di blasfemia che solitamente accompagnava un gioco con scommessa, quasi certamente d'azzardo.

By Goddës precious heart and by his nails
And by the blood of Christ that-is in Hayles
Seven in my chance, and thine is cinq and trey.
By Goddës armës, if thou falsely play
This dagger shall throughout thine hertë go!
This fruit cometh of the bitchëd bonës two:
Forswearing, irë , falseness, homicide.

 


Persino gli scacchi, il più innocente di tutti i giochi, venivano posti fra i vizi maggiori, almeno per i servitori dello stato. L'interdizione di Luigi IX dianzi ricordata dice : "si asterranno […] dai dadi e dagli scacchi, dalla fornicazione dal frequentare taverne. Case da gioco e fabbriche di dadi sono proibite in tutto il regno".

 

 

San Bernardino enumerava dettagliatamente quindici "malignitates impiissimi ludi" ma si tratta sempre di mali morali (cupidigia di guadagno, ozio, corruzione della gioventù, ecc.) ad eccezione della blasfemia e dal disprezzo per l'interdizione della Chiesa. Si ha l'impressione che, se vi fosse stato qualcosa da dire sull'empietà di elicitare eventi casuali per un innocente passatempo, il santo non avrebbe mancato di parlarne. L'attitudine generale sembra sia stata la tolleranza dell'effettivo gioco, ma la fiera opposizione ai vizi associativi.
V'è qualche prova positiva che va nella stessa direzione. All'incirca nell'anno del Signore 960 un certo vescovo Wibold da Cambray inventò una versione clericale dei dadi alla quale farò riferimento più tardi; evidentemente questo sagace e pratico religioso riconobbe l'impossibilità di porre definitivamente fine al male e così tentò di volgerlo al bene. I partecipanti alla terza Crociata (1190) disponevano, fra le loro istruzioni essenziali, di una affermazione scritta relativa ai limiti sino ai quali avrebbero potuto scommettere: a nessuno al di sotto del rango di cavaliere era permesso giocare per soldi; i cavalieri e i religiosi potevano giocare ma non avrebbero potuto perdere più di venti scellini in ventiquattro ore. Chaucer, nel Franklin's Tale, riferisce del giocare a scacchi o alle tavole (backgammon) con il lodevole intento di alleviare le pene dello sconsolato Dorigene.

Possiamo anche notare una serie di leggi, ad iniziare dal regno di Edoardo III, che proibiscono certi giochi per sostenere sport maschili. Un atto di Enrico VIII aggiunse carte e dadi alla lista dei divertimenti proibiti per legge, anche se Enrico - come molti altri monarchi - costituiva un cattivo esempio al riguardo. Queste leggi avevano origini militari, e la gente comune non doveva sprecare il divertimento giocando a giochi pacifici come le bocce, i birilli, l'hockey e i dadi in quanto il loro dovere consisteva nel praticare il tiro con l'arco per prepararsi alla prossima guerra.

Ho ricordato tali fatti per stabilire due punti.

  • Il gioco con i dadi (o più tardi con le carte) continuò senza interruzione, dai tempi dei romani sino al Rinascimento e fu praticato non solo dalle classi elevate ma anche dalla classe media e dalle classi basse.
  • Sebbene vari governi e la Chiesa scoraggiarono il gioco sino a proibirlo, una grande quantità di giochi fu praticata sia come innocente passatempo sia in sfida alla legge, con l'approvazione popolare. 

Uno degli aspetti esasperanti dei molti riferimenti a giochi di dadi fra il 1000 ed il 1500 sta nel fatto che invariabilmente gli autori presumono che i loro lettori siano familiari con i giochi che considerano e, di conseguenza, non fanno riferimento alle regole dei giochi presentati. Siamo così del tutto al buio sull'esatta natura dei giochi che venivano praticati. Ve ne sono due, in particolare, che hanno una lunga ed interessante storia:

l' hazard, antecessore del moderno gioco detto crap
e il primero, antecessore del poker.

E' istruttivo considerare succintamente le loro linee di sviluppo.

I romani giocavano con quattro tali (astragali) ma con solo tre tesserae (dadi). In qualche momento antico sono menzionati giochi con due soli dadi, per esempio il vescovo Eustachius, in un commento all'Odissea, scritto nel 1180, si riferisce a giochi con due dadi. Anche il passo di Chaucer, dianzi citato, fa riferimento a due dadi. Nel 1707 Montmort scrisse sul "le quinquenove, le jeu de trois dez et le jeu du hazard. Le deux premier sont les seules jeux de dez qui soient en usage en France, le dernier n'est commun qu'en Angleterre". Entrambi, il quinquenove e l'hazard, erano giocati con due dadi e tutti e tre sono varianti della stessa idea.

L'hazard, nome del gioco distinto dalla moderna accezione di caso, fu portato in Europa, credo, dagli uomini della terza Crociata. Goffredo di Buglione ci dà una falsa derivazione : "À Hazait [Hazar] s'en ala ung riche mandement, et l'apiel - on Hazait pour le fait proprement que ly dés fu fais et poins premierment." Non può esservi che un residuo dubbio che il nome derivi dall'arabo al zhar (dado). Quale che sia la sua origine, sia il nome sia il gioco devono essersi diffusi rapidamente in Europa. Il racconto di Jean Bodel Le jeu de Saint Nicolas, ascritto al 1200, si riferisce all'hazart. Salimbene (figlio di un crociato) , scrivendo circa nel 1287, riferisce del giocare "ad azardum alias taxillum". Dante nel Purgatorio, scritto tra il 1302 e 1321 si riferisce a azar, e Chaucer (circa nel 1375) impiega la parola più volte. Le regole esatte del gioco non sono registrate, per quanto sappia, e senza dubbio vi furono molte varianti. Ma il riferimento a Chaucer appena fatto suggerisce che le caratteristiche essenziali del moderno craps erano presenti sin dall'origine; la somma dei punti sui due dadi e le chance di ciascun giocatore vengono chiaramente indicate.

Si sarebbe potuto supporre nel migliaio di anni che precedettero, diciamo, il 1400, che qualche idea della costanza dei rapporti statistici e i rudimenti della teoria delle frequenze avrebbe potuto apparire. Non conosco nessuna prova che suggerisca che sia stato così.
Sino al secolo XV troviamo poche tracce del calcolo delle probabilità e, invero, poco che suggerisca l'emergere dell'idea che fosse possibile un calcolo sui risultati dei dadi. Potrebbe essere che i giocatori avessero un'approssimativa idea delle frequenze relative d'occorrenza - difficilmente si vede come avrebbero potuto mancare di cogliere tale idea - e come vi sia qualche prova della costruzione di dadi distorti sin dai tempi dei romani. Presumibilmente era presente la nozione complementare di lanci corretti. Potrebbe anche essere che qualche persona intelligente abbia sviluppato gli elementi di una teoria per se stesso, ma deve aver tenuto per sé il segreto a motivo del valore monetario. Tuttavia in effetti non lo credo; altre persone provarono più tardi a fare lo stesso ma senza stabile successo.

Il più antico lavoro che conosco e che sembrerebbe aver enumerato i modi in cui i dadi possono cadere è il gioco inventato da Wibold e dianzi citato. Per quanto sappia nessun manoscritto coevo ci è pervenuto, ma una spiegazione del gioco (molto oscura, sia detto) fu data nell'undicesimo secolo dal cronachista Baldericus, il cui lavoro fu pubblicato per la prima volta nel 1615. Wibold enumera 56 virtù, ciascuna corrispondente a ciascuno dei modi in cui tre dadi possono essere lanciati, a prescindere dall'ordine. Con ogni evenienza un monaco tirava un dado tre volte, oppure tre dadi, e sceglieva quindi una virtù particolare da praticare nelle 24 ore successive. Non ha l'aspetto di un gioco ma forse ho mal compreso il resoconto di Baldericus. Il punto importante tuttavia è che le partizioni delle scoperte dei dadi erano enumerate correttamente; non v'era alcun tentativo di stabilire le relative probabilità.

L'impiego dei dadi con lo scopo di scegliere fra un certo numero di possibilità potrebbe essere molto più antico di Wibold e certamente continuò molto dopo i suoi tempi. Vi sono parecchi poemi medioevali inglesi che illuminano l'interpretazione da dare ai lanci di tre dadi. Quello meglio conosciuto è il Chaunce of the Dyse, in rime reali (stanze di sette versi così rimati (ababbcc) [n.d.c.]) . Tali poemi furono senza dubbio utilizzati per forme elementari di lettura della fortuna: si tiravano i dadi per scegliere la frase adatta a ciascuno. Il punto da notare è che, per ragioni puramente di astragalomanzia, i differenti possibili lanci venivano enumerati e conosciuti senza alcun riferimento al gioco o a basi probabilistiche.

Una simile idea viene presentata nel sermone del 1423 di San Bernardino che opera una comparazione molto dettagliata della Chiesa di Cristo e della chiesa di Satana rappresentata, nella circostanza, dal gioco. La Chiesa corrisponde alla casa da gioco, l'altare alla tavola da gioco, i calici sacrificali al bossolo dei dadi e così via. Nel mezzo di tutto questo nonsenso capita un passo che ci ricompensa un po' per il doverlo leggere. "Il messale lo comparo ai dadi poiché per flessibilità, permanenza e scopo non è in alcun modo inferiore al messale di Cristo stesso; e proprio come il messale è composto con un singolo alfabeto di ventuno lettere, così nel [gioco dei] dadi ci sono ventuno lanci".
I ventuno possibili lanci sono senza dubbio quelli con solo due dadi. Numero, questo, corretto nell'interpretazione dell'indistinguibilità delle partizioni. Non si può migliorare e va ammirata la sagacia della comparazione o figurarsi cosa il Santo avrebbe detto se avesse dovuto trattare con i vangeli in greco o in aramaico.

Il più antico modo di contare il numero dei modi in cui tre dadi possono cadere (incluse le permutazioni) sembra capiti nel poema latino De vetula. Questo notevole lavoro per qualche tempo è stato ascritto ad Ovidio e incluso in alcune edizioni medioevali dei suoi poemi. L'ascrizione è comunque solo supposta e sono stati proposti diversi altri candidati come autori.
Fra questi Richard de Fournival (1200-50) è il preferito; egli era un dotato umanista del Medio Evo e Cancelliere della cattedrale di Amiens. Se ciò risultasse corretto, il poema dovrebbe essere stato scritto fra il 1200 ed il 1250 e contiene un lungo passaggio che tratta di passatempi e di giochi ed in particolare di giochi di dadi. Forse vale la pena dire per esteso cosa è il primo calcolo conosciuto del numero di modi di lanciare tre dadi. Il passaggio rilevante può essere spiegato, in breve e liberamente, come segue:

Se tutti e tre i numeri sono uguali vi sono sei possibilità; se due sono uguali e l'altro è differente ci sono 30 casi, in quanto le coppie possono essere scelte in sei modi e l'altro in cinque; se tutti e tre sono differenti ci sono 20 modi poiché vale 30 per 4 vale 120 ma ciascuna possibilità nasce in 6 modi. Ci sono 56 possibilità.
Ma se tutti e tre sono uguali v'è un solo modo per ciascun numero; se due sono uguali ed uno differente vi sono tre modi; e se tutti sono differenti vi sono sei modi. La figura mostrata esibisce i vari modi.

[Segue, ma non viene esplicitato, che il numero totale di modi vale:

(6 ´ 1) + (30 ´ 3) + (20 ´ 6) = 216. ]

Esiste una traduzione medioevale del De vetula in francese, edita e pubblicata nel 1862 da H. Cocheris, il principale responsabile dell'idea che de Fournival ne fosse l'autore. La traduzione si prende libertà considerevoli rispetto al testo originario e non è sempre facile trovare l'accordo. Il poema viene attribuito al secolo XIV. Per quanto possa vedere il traduttore sembra aver fallito nel comprendere il punto principale: enumera semplicemente i 16 punteggi possibili con tre dadi e rileva che alcuni d'essi capitano più di frequente di altri. Il passaggio essenziale del De vetula è andato perso.

Nel sesto canto del Purgatorio Dante menziona il gioco dell'hazard.

Quando si parte il gioco della zara
Colui che perde si rimane dolente
Ripetendo le volte e tristo impara

Un commento a questo passo pubblicato nel 1477 dice

Con riguardo a questi lanci si deve osservare che i dadi sono quadrati e ogni faccia può venire, così che un numero che può apparire in più modi [come somma dei punti sui tre dadi] deve capitare più di frequente, come nel seguente esempio: con tre dadi, tre è il più piccolo numero che può essere lanciato e ciò quando tre "uno" si mostrano; il quarto può solo venire in un modo, vale a dire con un due e due assi.

 


A questo punto l'autore sembra essere al bordo dell'usuale fallacia che vuole che il tre occorra tanto frequentemente quanto il quattro. Ma - più per fortuna che per scienza, secondo me - cambia direzione rispetto al punto e prosegue: "e così, come questi numeri possono accadere in un solo modo a ciascun lancio, per schivare il tedio di un'attesa troppo lunga, non sono contati nel gioco e vengono chiamati azzardi (hazards). E così per il 17 e 18…. I numeri fra questi possono capitare in più modi; il numero che può capitare nel maggior numero di modi viene detto il miglior lancio dell'insieme".

 

 

Da questi passaggi appare chiaro che, a partire dalla fine del Quattrocento, i fondamenti della dottrina del caso erano stati posti. La necessaria concettualizzazione del dado perfetto e l'uguale frequenza di occorrenza di ciascuna faccia sono esplicite. L'idea di associare i coefficienti binomiali agli eventi con due o più dadi al fine di calcolare la loro frequenza relativa di occorrenza si era manifestata nel De vetula, ma sembra sia stata persa di vista. Non prima del 1556 Tartaglia aveva pubblicato lo schema ora noto, molto ingiustamente, come triangolo aritmetico di Pascal, e non in un contesto probabilistico. Cionondimeno, se è il primo passo che conta, quel passo era già stato fatto a partire dal 1500.

Sebbene il passo pionieristico del De vetula non sembra noto agli scrittori successivi nei due secoli seguenti, l'idea di enumerare i modi di ottenere un dato punteggio, quando vengano tenute presenti le permutazioni, deve essere stato riscoperta all'inizio del secolo XVI in quanto il De ludo aleae di Cardano contiene le idee essenziali e, per prove interne, deve essere stato scritto intorno al 1526. Abbastanza stranamente comunque troviamo i primi problemi di probabilità, sino ad ora notati nei documenti, in un contesto abbastanza differente.

Fra Luca del Borgo, ovvero Pacioli, era un insegnante di Matematica itinerante, la cui Summa de Arithmetica, Geometria, Proportioni et Proportionalità, pubblicata nel 1494, venne ampliamente studiata in Italia.
Egli considerò una semplice versione di ciò che più tardi divenne noto come problema dei punti: A e B giocano ad un gioco equo (non dadi, ma balla, verosimilmente un gioco di palla) e si accordano nel continuare sino a quando uno vince sei partite, ma la competizione deve essere interrotta quando A ha vinto 5 partite e B 3. Come dovrebbe essere ripartita la posta?

Pacioli fa sì che il problema sembri più difficile di quanto non sia, ma la sua soluzione si compendia nel dire che le poste dovrebbero esser suddivise nella proporzione di 5 a 3. L'errore fu notato da Tartaglia nel suo monumentale General Trattato del 1556 (dato che, possiamo notarlo, è più tardi di 30 anni rispetto al momento in cui Cardano afferma di essere in possesso dei principi di base incorporati nel suo De ludo aleae). Tartaglia era sempre soddisfatto nell'evidenziare gli errori di Pacioli con un'acida superiorità che prefigura molti dei moderni scritti in probabilità e statistica. Sarebbe stato più giustificato in tale occasione se la soluzione alternativa da lui sostenuta fosse stata corretta, e non lo è. Rimarca che secondo la regola di Pacioli se A avesse vinto una partita e B nessuna, A dovrebbe prendere tutta la posta, ciò che è chiaramente ingiusto. Argomenta allora che la differenza fra il punteggio di A (cinque) e quello di B (tre) vale due, ed essendo questo 113 delle partite necessarie per vincere (sei), A dovrebbe ritirare 113 della parte di B e la posta totale dovrebbe essere divisa nel rapporto 2:1. Almeno così interpreto la sua discussione piuttosto prolissa. Ne seguirebbe che se A ha vinto x partite e B y, quando si richiede di vincere complessivamente z partite, la regola di Tartaglia implica che A prenda per sé la proporzione 1/2 + (x-y)/2z della posta.

Due anni dopo il Trattato apparve un breve scritto di G. F. Peverone Due brevi e facili trattati, il primo di Arithmetica, l'altro di Geometria. Nel primo Peverone considera un problema simile senza citare altri autori. Dà due esempi che effettivamente sono uguali e argomenta in questo modo:

A dovrebbe mettere 2 scudi e B 12 [o equivalentemente la posta dovrebbe essere divisa nella proporzione 1:61 "Se giuocassero a 1 giuoco, basterebbero scutti 2[ovvero dividere la posta in ugual proporzione]; et a due giuochi 6, per che vincendo solo 2 giuochi guadagnerebbe scutti 4; ma questo sta con pericolo di perdere il secondo, vinto il primo: però deve guadagnare scutti 6, et a 3 giuochi scutti 12, per che si inddoppia la difficoltà e pericolo."

Ritengo che questo sia stato uno dei risultati mancati per pochissimo in matematica. Per la seconda partita l'argomentazione è corretta. Se a B manca una partita e scommette 2 scudi allora per A:

- mancandogli una partita, scommette 2 scudi
- mancandogli due partite, scommette 2 + 4 = 6 scudi
- mancandogli tre partite, scommette 2 + 4 + 8 = 14 scudi

e così via. Peverone era perfettamente a conoscenza delle progressioni geometriche e impiega il termine progressione in una esposizione della sua risposta a questo problema. Avendo ottenuto la scommessa di 6 scudi da parte di A, quando gli mancano due partite, se fosse rimasto ancorato alla sua regola e considerato la probabilità condizionata di vincita più attentamente, avrebbe risolto questo semplice caso del problema dei punti, sostanzialmente quasi un secolo prima di Pascal e Fermat.

Gli studiosi delle moderne versioni di hazard e primero sono stati colpiti dal giudizio accurato delle probabilità che i giochi incorporano. .La probabilità di successo del primo giocatore a craps, per esempio, dovrebbe essere 1/2 ed effettivamente è 244/493 ; i valori relativi del colore e della scala a poker sono corretti non è intuitivamente chiaro quale dovrebbe essere l'ordine. Sembra, comunque, che questa situazione sia stata raggiunta empiricamente e non a calcolo. Fortunatamente Cardano ci ha dato una spiegazione del primero secondo quanto gli era noto. Gli 8, i 9 e i 10 venivano tolti dal mazzo di 52 carte, lasciandovene 40. Quattro venivano distribuite, due per volta. Le carte possedevano valori specifici: il due valeva 12, il tre 13, il quattro 14 ed il cinque 15, il sei valeva 18, il sette 21 e l'asso 16, mentre le figure 10.
V'erano cinque combinazioni:

a) Numerus (due o tre carte dello stesso colore)

    b) Primero (tutte le carte di colori differenti)

    c) Supremus (nella stessa mano v'erano le tre carte 7, 6 e asso)

    d) Fluxus (quattro carte dello stesso colore)

    e) Chorus (tutte le carte dello stesso valore)

La mano veniva valutata in quest'ordine: Primero batte Numerus e così di seguito. Le categorie non si sovrappongono e, se due giocatori avevano la sessa combinazione, la mano distribuita per prima vinceva a prescindere dalla sua combinazione.
Ora le chance di questi eventi, o meglio il numero di modi in cui possono capitare a seguito di una distribuzione casuale, sono:

Chorus -10
Fluxus-840
Supremus-120
Primero-8990
Due dello stesso seme54.000-
Tre dello stesso seme14.280-
Doppia coppia12.15080.430
--90.390

 

In altre parole il valore relativo del Fluxus e del Supremus nella versione di Cardano erano in ordine inverso rispetto alle loro probabilità. Non so in qual momento l'attuale (e corretto) ordine nel moderno poker sia emerso, ma sembra che ciò sia accaduto prima che qualcuno fosse in grado di calcolare le chance e persuadere i suoi amici scienziati su base matematica che l'ordine avrebbe dovuto esser rovesciato. E' mia opinione che le chance relative furono raggiunte su base intuitiva o empirica secondo il metodo della prova ed errore, nei giochi praticati sino alla metà del Settecento.

Sembra chiaro che in Italia, nel quindicesimo secolo, i problemi di base del caso nei giochi erano stati posti e qualche piccolo progresso nel risolverli era stato compiuto. Un più attento esame dei libri di Matematica del periodo potrebbe rivelare ulteriori prove sulla questione. Si può avere il sospetto che alcuni dei più semplici problemi circolassero come una sorta di puzzle proprio come al giorno d'oggi, senza divenire di qualche riconosciuta importanza scientifica.
Galileo nel suo frammento Sulla scoperta dei dadi, scritto prima del 1640 (data della sua morte), dà una soluzione completa di un problema di probabilità con l'annotazione corretta di tutte le possibilità e scrive come se fosse nuovo, non richiamando nessun precedente autore. Cionondimeno, se il trattato di Cardano può essere correttamente assegnato al 1526, le idee dovevano essere correnti già per un secolo prima che Galileo scrivesse. Ne deriverebbe che un calcolo delle probabilità non solo si sviluppò tardivamente ma che, una volta iniziato, progredì in modo estremamente lento.

Prima di considerarne le ragioni, rimane da dire qualcosa sugli sviluppi in Francia nella prima metà del secolo XVII. A mio vedere, la culla del calcolo delle probabilità fu senza dubbio in Italia. Dal secolo XIV, comunque, vi furono connessioni strette fra la Francia e l'Italia di carattere sia politico sia geografico. Un movimento intellettuale in uno dei due Paesi spesso generò per simpatia un movimento nell'altro. L'invasione dell'Italia di Carlo VIII nel 1494, sebbene sia stata un fallimento politico e militare, viene generalmente ritenuta come una parte di uno sviluppo intellettuale incrociato. Senza alcun dubbio, una gran quantità di lavori artistici italiani e di idee trovarono la via per la Francia con quanto restava dell'esercito di Carlo, sebbene dubiti che una copia del libro di Pacioli fosse fra questi. In tal caso anche una ricerca fra i libri francesi di Matematica scritti fra il 1400 e il 1650 potrebbe mostrarsi molto istruttiva.

La mancanza di riferimenti scritti a problemi di calcolo delle probabilità non necessariamente è indicativa della mancanza di un contemporaneo interesse. La conoscenza del caso era così rudimentale che qualsiasi capacità di coglierlo con accuratezza nel gioco valeva non poco denaro.
Huyghens, visitando la Francia nel 1657, trovò che un intenso interesse per la dottrina del caso contagiava i matematici ma incontrò una certa freddezza nel rendere manifesti i risultati. Ciò presumibilmente era dovuto più al timore della pubblicazione anticipatrice che alla perdita di denaro. Huyghens semplicemente sviluppò da sé la teoria. Una traduzione latina del suo libriccino, De ratiociniis in ludo aleae, stampata da van Schooten nel 1657, fu il primo libro pubblicato sul calcolo della probabilità ed esercitò una profonda influenza su Jacques Bernuolli e Demoivre.

Veniamo ora all'argomento più interessante di questo periodo: perché il calcolo della probabilità ci mise tanto tempo ad emergere?
Non possiamo supporre che i greci fossero incapaci di operare le necessarie generalizzazioni, anche se erano impacciati e frenati nello sviluppare i dettagli dalla loro Aritmetica e dalla loro Algebra. Lo stesso vale per gli arabi e per gli europei del basso medioevo. E' stato suggerito che l'imperfezione dei dadi possa aver avuto qualcosa a che fare con ciò, ma io non credo che questa sia una delle ragioni maggiori. Alcuni dei dadi infatti erano abbastanza ben fatti. Le genti che costruirono il Partenone, la colonna di Traiano, Santa Sofia e Notre Dame erano in grado di produrre alcuni cubi così buoni come quelli ora di uso corrente. Nemmeno penso che il lento sviluppo della notazione matematica abbia molto a che fare con ciò. Abbiamo visto che le partizioni delle scoperte dei dadi venivano contate senza difficoltà nel decimo secolo. Altre quattro possibilità meritano il nostro esame:

a) l'assenza di un'Algebra combinatoria (o almeno di idee combinatorie);

b) la superstizione degli scommettitori;

c) l'assenza della nozione di evento casuale;

d) barriere religiose o morali che si frapponevano allo sviluppo dell'idea di casualità e di caso.

Non sembra che l'Algebra combinatoria sia stata coltivata dagli antichi.
Ll'interesse per questa disciplina si destò nei secoli XVI e XVII.
Leibiniz pubblicò il trattato De arte combinatoria nel 1660 e Wallis il De combinationibus alternationibus et partibus aliquotis tractatus nel 1685. Senza dubbio, le idee essenziali possono essere rintracciate molto prima. Così, quando il calcolo della probabilità era effettivamente in fioritura, un'Algebra combinatoria era a portata di mano.
Cionondimeno a me sembra che non si possa sostenere che l'assenza di una tale algebra sia la spiegazione per il tardo sorgere della dottrina del caso. Cardano, senza di essa, si destreggiava abbastanza bene e l'enumerazione di Galileo dei 216 modi di lanciare tre dadi è perfetta, sebbene in apparenza basata su metodi aritmetici.

La superstizione degli scommettitori è ben nota ed è stata oggetto di rilievo da parte di molti scrittori antichi. Se gli uomini fossero esseri logici, e dall'osservazione pronta, si sarebbe potuto ritenere impossibile che ognuno si applicasse al gioco e, allo stesso tempo, credere che i favori della fortuna fossero iniquamente distribuiti nel lungo andare. Ma sembra abbastanza possibile per un giocatore prestar fede a due proposizioni incompatibili. con sufficiente acume suppongo che sia anche possibile riconciliare la credenza nella legge dei grandi numeri con quella che la fortuna cambierà se uno si siede su di una differente sedia. Si può dire molto al riguardo. Mi limito a registrare l'opinione che, sebbene la psicologia del giocatore possa aver contribuito un po' a raffrenare lo sviluppo del concetto di legge probabilistica, non possa aver impedito alle menti migliori del tempo di raggiungere tale concetto.

Se scontiamo fattori come i dadi mal costruiti, la mediocre perizia matematica, la superstizione e così via, e se conveniamo che il gioco con i dadi e le carte erano così diffusi da sollevare l'interesse generale delle persone intelligenti, allora ci sembra d'essere condotti alla conclusione che la tardiva emergenza del calcolo delle probabilità sia ascrivibile a qualche fattore più fondamentale. L'appropriata nozione di caso, l'idea di legge naturale, la possibilità che una proposizione possa essere vera e falsa in una data proporzione, tutti questi concetti sono al giorno d'oggi tanta parte delle nostre comuni abitudini di pensiero che forse dimentichiamo che non erano tali per i nostri antenati. Sono proclive a cercare una spiegazione del ritardo nelle attitudini basilari verso i il mondo fenomenico, nell' insegnamento e nelle barriere morali e religiose. La Matematica non conduce mai il pensiero ma lo esprime soltanto.

Greci e romani - per quanto si possano fare affermazioni generali per popoli i cui membri sostennero punti di vista differenti - sembrano, nel complesso, aver riguardato il mondo come determinato in parte dal caso. Dei e dee ebbero influenza sul corso degli eventi e, in particolare, potevano interferire col lancio di dadi, ma erano soltanto esseri superiori con poteri sovraumani e non onnipotenti entità che controllavano ogni cosa. E le divinità più vaghe (la Fortuna, i Fati e il Fato) appaiono ai nostri moderni occhi più nel ruolo punitivo della colpevole e personificata coscienza che come padroni dell'universo.
La situazione venne radicalmente mutata dall'avvento del cristianesimo. Per i primi Padri della Chiesa il dito di Dio era ovunque. Alcune cause erano palesi, altre nascoste ma nulla accadeva senza causa. In tal senso nulla era casuale e non v'era posto per il caso. "Nos eas causas - dice Sant'Agostino - quae dicuntur fortuitae (unde etiam fortuna nomen accepit) non dicimus nullas, sed latentes; easque tribuimus vel veri Dei, vel quorumlibet spirituum voluntati."
Questo modo di vedere prevalse anche nel Medio Evo. Tommaso d'Aquino, argomentando che tutto è soggetto alla provvidenza di Dio menziona esplicitamente l'obiezione che, in tali circostanze, azzardo e fortuna sparirebbero. Replica che vi sono cause universali e particolari: una cosa può sfuggire all'ordine di una causa particolare ma non a quello di una causa universale, e nella misura in cui vi si sottrae viene detta fortuita, rispetto a quella causa. San Tommaso assumeva il punto di vista aristotelico della cause primarie e secondarie ma non abbiamo bisogno di seguire da presso le sue lotte col problema della causalità, della predestinazione e del libero arbitrio. Egli riflette lo spirito del tempo in cui Dio e una elaborata gerarchia di suoi ministri controllavano e antivedevano, ordinandoli, i più minuti accadimenti. Se ogni cosa sembrava accadere per caso ciò era dovuto alla nostra ignoranza e non alla natura delle cose.

Talvolta San Tommaso viene ricordato per essersi espresso in favore di una teoria frequentista della probabilità ma, a mio vedere, ciò si appoggia su di una notevole confusione che, di passata, può essere utile rimuovere.
Lungo tutto questo articolo, ho parlato della dottrina del caso (che de Moivre tradusse come Mensura sortis) e non della probabilità in senso ampio. I primi scrittori impiegarono probabilitas con un differente significato, riferito al grado di dubbio con il quale una proposizione viene sostenuta. Al momento dello stabilirsi della nostra scienza, le due cose erano distinte ed è un peccato che non lo siano restate e che il nostro linguaggio abbia teso a confonderle.
Sembra sia stato James Bernuolli il primo a pensare di applicare la dottrina del caso all'arte della congettura e, sebbene troviamo applicazioni alla valutazione della credibilità delle testimonianze già nel 1697, non fu che sino ai tempi di Bayes (1763) che essa fu anche applicata all'accettabilità delle ipotesi. La confusione che ne è risultata, come ben noto, è esistita sin da allora e ai giorni attuali sembra, se possibile, divenir anche peggiore. Se fosse richiesta qualche giustificazione per lo studio della storia della probabilità e della statistica, si rinverrebbe semplicemente ed abbondantemente in ciò: la conoscenza dello sviluppo del tema avrebbe reso superfluo molto di quello che è stato scritto su di esso in questi ultimi trenta anni.

L'Aquinate non dà una definizione di probabilitas ma fa riferimento ad Aristotele: "probabilia sunt quae videntur omnibus, aut sapientibus, et his vel omnibus vel plurimis maxime nobilibus et probatis." Lo stesso San Tommaso ritenne la probabilitas una qualità che origina una opinione. Esplicitamente dice che ammette dei gradi. Del caso (casus, inglese chance) afferma: "ea quae accidunt semper vel frequenter non sunt casualia neque fortuita, sed quae accidunt in paucioribus" e ancora: "sicut in rebus naturalibus in his quae ut in pluribus agunt, gradus quidam attenditur quia quanto virtus naturae est fortior, tanto rarius deficit a suo effectu, ita et in processu rationis qui non est cum omnimoda certitudine, gradus aliquis invenitur, secundum quod magis et minus ad perfectum certitudinem acceditur." Per come capisco la sua posizione, San Tommaso riconobbe che la probabilitas precede la certezza nella formazione della conoscenza e che la frequenza degli eventi che hanno qualcosa a che fare con la "fortuita" natura della casualità e della relativa intensità della causa sottostante. Ma non posso scorgere nei suoi scritti un'affermazione esplicita che la frequentia incrementa la probabilitas o che le due fossero collegate molto strettamente. Il punto effettivamente merita uno studio più approfondito, ma mi sembra chiaro che la dottrina del caso non era presente alla sua mente quando discuteva di probabilitas.

Per la mia tesi, può essere una buona circostanza che l'atteggiamento religioso nel tempo abbia scoraggiato lo sviluppo dello studio del comportamento casuale per implicazione. Persino ciò non mi soddisfa come spiegazione esaustiva, ma penso sia molto verosimile che prima della Riforma la sensazione che ogni evento, anche minuto, accadesse per influsso della Divina Provvidenza possa esser stato un severo ostacolo allo sviluppo del calcolo del caso.
Sembra che ci siano volute diverse centinaia di anni perché l'umanità si abituasse ad un mondo in cui alcuni eventi fossero senza causa o, almeno, in cui larghi insiemi di eventi erano determinati da una casualità così remota: da poter essere accuratamente rappresentati da un modello non casuale. Ed invero l'umanità nel suo complesso non si è ancora abituata all'idea. L'uomo nella sua fanciullezza è ancora spaventato dal buio e poche aspettative sono più fosche del futuro di un universo soggetto solo alle leggi meccaniche ed al cieco caso.
Quali che possano essere le ragioni, sembra innegabile che la dottrina del caso per svilupparsi abbia preso un tempo rimarchevolmente lungo. Una volta iniziata, ovviamente, ha proceduto molto rapidamente: v'è solo un secolo fra l'Ars coniectandi di Bernoulli ed il Traité di Laplace. Ma i risultati di quel secolo di scoperte richiesero parecchie migliaia di anni per germinare. Sino a quando una. ricerca più intensa non sarà in grado di mettere a nudo i primi tentativi e modi di pensare degli studiosi dei secoli XV, XVI e XVII, il processo di nascita del calcolo delle probabilità deve restare abbastanza enigmatico.

 

BIBLIOGRAFIA

DAVID F.N. (1955). Dicing and gaming (a note on the history of probability), Biometrika, 42, i. (articolo apparso, in traduzione, su Induzioni, 20,2000)

LIBRI C.D.S. (1838-41). Histoire des sciences mathématiques en Italie, 2 vols. Paris.