2.2 Realismo interno

A partire dalla metà degli anni Settanta – in particolare dall’ultima parte di Meaning and the Moral Sciences (1978), e ancor più da Models and Reality (1977) e Reason, Truth and History (1981) – Putnam gradualmente abbandona il realismo scientifico (si veda Alai 1989a, cap. I), che, come dicevamo, ora chiama “metafisico”, e abbraccia una posizione più pragmatica che lui stesso definisce realismo interno (successivamente chiamato anche realismo pragmatico, o dal volto umano), il quale, in parole povere, ma fra poco lo vedremo meglio, si sostanzia nella negazione dei tre punti poc’anzi visti fondanti il realismo metafisico.

Il mondo, la sua descrizione, non esiste più indipendentemente dalla mente, ma “esiste” solo attraverso gli strumenti che usiamo per conoscerlo, quindi il punto di vista non è più “esterno”, ma è “interno” alle nostre teorie. E, quindi, ogni domanda sul mondo (quale, ad esempio: “Di quali oggetti esso consiste?”), ha senso all’interno e dal punto di vista di un certo apparato concettuale teorico. L’ontologia, l’insieme degli oggetti che noi riconosciamo come esistenti, viene ora a essere determinata in base a una teoria che noi assumiamo sulla costituzione del mondo. L’elettrone non esiste più necessariamente “in sé” ma in quanto è contemplato da una teoria fisica che ci permette anche solo di parlarne. L’idea di un mondo “in sé” composto da determinati oggetti viene meno poiché siamo noi uomini a dividerlo in oggetti, relazioni, proprietà, ecc., in base ai nostri scopi e valori. Il mondo, anche se può essere causalmente indipendente dalla mente umana, non lo è ontologicamente, in quanto la sua struttura (la sua divisione in generi, individui, categorie) viene a essere funzione degli schemi concettuali umani. È un po’ l’idea kantiana della dipendenza della conoscenza del mondo dalle nostre categorie del pensiero.

Laddove, nel realismo metafisico, l’approccio complessivo era non-epistemico, qui è ovviamente epistemico: il mondo, gli oggetti conosciuti, sono “subordinati” al nostro apparato conoscitivo. Di una medesima stanza, un fisico e un arredatore daranno descrizioni differenti ma entrambe saranno descrizioni di come essa è realmente. Il realismo è indebolito, ma un importante elemento di oggettività rimane, ossia dove si postula che le nostre interpretazioni poggiano su un sostrato di fatti indipendenti: “Noi possiamo e dobbiamo insistere nel dire che ci sono alcuni fatti, non costituiti da noi, da scoprire” (Putnam 1987, pp. 50-51). Quindi non basta la coerenza interna alle nostre teorie: esse devono anche “rispondere” all’esperienza. Nel contempo, però, si devono anche ammettere più descrizioni vere del mondo, nel senso che non solo tali descrizioni sono formulazioni linguistiche differenti, ma anche nel senso che gli oggetti che esse descrivono sono diversi poiché sono proprio tali formulazioni a specificare i “fatti” di cui si sta parlando. Insomma, possiamo dire che ci sono fatti da scoprire “solo dopo aver adottato un modo di parlare, un linguaggio, uno ‘schema concettuale’. Parlare di ‘fatti’ senza aver specificato in quale linguaggio stiamo parlando è parlare di nulla” (ibid.).

Così il mondo può sì essere correttamente descritto da prospettive differenti dettate da interessi e pratiche differenti – per esempio, possiamo dire che è costituito da mattoni e cemento, oppure da campi e particelle –, ma tali descrizioni non sono riducibili l’una all’altra, e nessuna di esse, anche se appartenesse alla teoria scientifica più avanzata, è la descrizione del mondo, e, però, entrambe le descrizioni parlano delle stesse cose. Da questo punto di vista, tale realismo è una versione del pluralismo rintracciabile in pragmatisti come Williams James e John Dewey, e risente anche fortemente – nota Mario Alai (comunicazione personale) – del costruttivismo di Nelson Goodman (sebbene probabilmente non ne condivida le tesi estreme, come l’esistenza di molto mondi, o l’inesistenza di una realtà “in sé”). Tale realismo rinuncia a qualsiasi impegno nei confronti di oggetti indipendenti dalla mente e “relativizza l’ontologia a schemi concettuali”, quindi concetti quali verità, riferimento, sono interni al quadro teorico (cioè alla “versione” che assumiamo del mondo, come Putnam la chiama in The Many Faces of Realism) che noi di volta in volta usiamo per servire le nostre finalità contingenti. Non vi è più, quindi, una verità che, come nel realismo metafisico, è indipendente dalle facoltà conoscitive umane.

Il risvolto fondamentale di tale dottrina, detta relativismo concettuale, è che c’è sì un mondo là fuori (e quindi c’è compatibilità col realismo), ma tale mondo non è “bell’e pronto”: è invece un mondo dell’uomo, il cui accostamento al concetto di verità non è appunto più metafisico (non c’è più la ricerca di una “teoria vera”), ma gnoseologico, senza comunque cadere nell’empirismo. C’è il mondo, ma è solo l’uomo che può rappresentarlo. Ma anche se nessuna delle nostre descrizioni può essere scientificamente dimostrata come l’unica e vera descrizione del mondo, questo non fa sfociare in un radicale “relativismo irresponsabile”, in quanto non tutte le descrizioni sono corrette, e quelle corrette non sono determinate soggettivamente: “Ciò che diciamo del mondo riflette le nostre scelte concettuali e i nostri interessi, ma la sua verità o falsità non è determinata semplicemente dalle nostre scelte concettuali e dai nostri interessi” (Putnam 1992, p. 62. Sul realismo interno si veda anche Alai 1989a, capp. II-V; 1990; 1993).