Il fattaccio dell’Accademia

"Il fattaccio dell’Accademia". Lucio Lombardo Radice, la storia della scienza in televisione e le polemiche dei "compagni"

 

Premessa. Il sogno di un paleomarxista

Le lezioni, a scuola, erano iniziate da meno di un mese, allorché giovedì, 13 ottobre 1977, alle 20.40, subito dopo la pubblicità, andava in onda, sulla rete 2, Il sogno di d’Alembert, il primo dei cinque telefilm storici, curati dal matematico ed eclettico animatore culturale Lucio Lombardo Radice e dal regista Ansano Giannarelli, con l’ambizione di parlare del rapporto tra scienza e società in prima serata. Ad un prodotto di fiction abbastanza convenzionale, il cui stile didattico ricordava, pur non volendolo, le ingessate biografie televisive recentemente firmate per la Rai da uno stanco Roberto Rossellini – da Blaise Pascal (1972) a Cartesius (1974), passando per L'età di Cosimo de' Medici (1972-73) – seguiva, in diretta, trasmesso dall’Accademia delle scienze di Torino, un dibattito che, forse sfuggito di mano agli organizzatori, avrebbe molto fatto parlare di sé.

Per alcuni mesi obiettivo degli strali polemici sarebbe stato proprio il «paleomarxista», come Lombardo Radice amava definirsi, in quanto sostenitore della necessità storica di riappropriarsi dell’«eredità culturale delle vecchie classi egemoniche» per risemantizzarla e metterla a disposizione di tutti. Il suo era un interesse antico per le questioni educative, ereditato dal padre Giuseppe, responsabile di quei Programmi di studio e prescrizioni didattiche per le scuole elementari (1923), che già esprimevano una genuina curiosità per la conoscenza scientifica, estranea al resto della Riforma Gentile1. Ad influire maggiormente sulla formazione del giovane Lucio erano però stati soprattutto quegli uomini «dalla doppia cultura», al contempo scientifica e umanistica, da lui incontrati a Roma, durante gli anni universitari2:

Se avessi pensato (se pensassi) che la matematica è solo tecnica e non anche cultura generale; solo calcolo e non anche filosofia cioè pensiero valido per tutti, non avrei mai fatto il matematico (non continuerei a farlo). Sono uno dei pochi intellettuali italiani che, in un succedersi di generazioni, hanno seguito all’Università i corsi di studi di matematica per una infezione filosofica liceale, come diceva di sé, conversando con gli allievi, uno dei più grandi maestri che ho avuto la fortuna di avere nell’Ateneo romano tra il 1934 e il 1938: Federigo Enriques. All’Università il maestro che predilessi e prescelsi fu Gaetano Scorza: colui che più di ogni altro mi sembrò sentire con contenuta passione, e mi fece sentire, la matematica come arte, come filosofia, come pensiero.3

Un “artista-filosofo” della matematica, dunque, che proprio negli anni degli studi a La Sapienza aveva maturato un’adesione al marxismo, costatagli due arresti, il primo nel ’39, il secondo nel ’43, a ridosso del quale, durante la detenzione, aveva organizzato varie attività didattiche per sé e per i suoi compagni di sventura.4 Ogni progetto educativo era, a suo giudizio, da intendersi come un fatto intrinsecamente politico: per questo, già dal primo articolo non clandestino pubblicato sull’«Unità»,5 egli aveva invocato la creazione di istituzioni speciali, alla maniera delle Rabfak sovietiche, «per la rapida promozione culturale almeno di una avanguardia operaia».6 Impegnato, tra il ’45 e il ’48, con Mario Alighiero Manacorda nella gestione del Convitto per partigiani e reduci di Roma, già dal ’47 si era dedicato alla discussione dei problemi educativi in seno al Pci, dirigendone la Commissione scuola. Per diffondere le proprie idee pedagogiche aveva infine fondato, nel ’55, con Dina Bertoni Jovine, la «Riforma della scuola».7

Occorreva trasformare ogni lavoratore in uno scienziato, vale a dire in un cittadino consapevole8. Libero9. Di qui, negli anni cinquanta, l’impegno al fianco di intellettuali come Ludovico Geymonat, Enzo Paci, Remo Cantoni e Antonio Banfi nella battaglia – ahimè, poco fortunata – per restituire alla cultura scientifica il giusto posto nella scuola italiana10. L’esercizio della scienza era invocato come una palestra di razionalità. Anni dopo, con impressionante lungimiranza, Lombardo Radice avrebbe dichiarato:

Oggi, e domani ancor di più, quello che conta e che conterà sarà una preparazione politecnica e scientifica; non l’apprendimento del mestiere, ma la capacità di apprendere un mestiere e di cambiarlo; non il possesso strumentale di un procedimento, ma la mentalità e lo spirito scientifico che consentono di impadronirsi di qualsiasi procedimento.11

L’«educazione della mente», com’egli la chiamava, ridisegnando l’immagine che ciascuno si era fatto del mondo, avrebbe comportato una tanto proficua quanto rivoluzionaria Entzauberung: un riassetto piagetiano-weberiano che avrebbe fatto esplodere il modo di pensare «magico», «animistico » ed «artificialista» del fanciullo per trasformarlo in una mentalità finalmente razionale12. Era questo il motivo per cui occorreva recuperare il bagaglio, segnatamente scientifico, della società borghese, ripercorrendolo storicamente:

Il compito dell’educazione scientifica è far passare da una mentalità ad un’altra mentalità [...]. Ciò che conta davvero è il passaggio da un’idea ad un’altra idea, da un’ipotesi ad un’altra ipotesi, da una concezione ad un’altra concezione. [...] Per questo motivo è necessario che l’insegnamento scientifico abbia sempre un carattere storico, [...] come sintetica misura della differenza di mentalità che vi è fra un periodo e l’altro.13

 

Non ho tempo

Nel tentativo di educare le masse, la scelta del mezzo televisivo fu in qualche modo obbligata. Lombardo Radice fu difatti ideatore, sceneggiatore e consulente (oltreché ospite) di numerose trasmissioni, tra cui alcuni sceneggiati scientifici, i quali ben si inscrivevano nella consolidata tradizione pedagogica di una Rai sempre attenta a miscere utile dulci.14 Per le sue avventure televisive però gli occorreva un “complice”, che non tardò a farsi vivo. Sullo scorcio del 1969, a pochi giorni dalla strage di Piazza Fontana, Ansano Giannarelli proponeva così in televisione un film su Évariste Galois, uno dei padri fondatori dell’algebra astratta. Per far passare il progetto, egli dichiarava di voler tratteggiare un ritratto rassicurante dell’algebrista, ma le sue intenzioni erano evidentemente altre.15 «Nessuno ci racconta mai la storia di Évariste Galois», lamentava in Aden Arabie lo scrittore Paul Nizan, il quale si sarebbe voluto servire della storia del giovane matematico per criticare la borghesia francese degli anni ’30. In fondo, ad un medesimo fine ideologico erano tesi gli sforzi di Giannarelli.

Liberamente tratto da Tredici ore per l’immortalità, di Leopold Infeld, che il giovane Ansano, come egli raccontò, aveva, anni prima, per caso trovato nella biblioteca di suo padre, matematico, il film fu sceneggiato dallo stesso Giannarelli e da Edoardo Sanguineti, con la consulenza scientifica di Lombardo Radice e Nicola Lombardi, avvocato difensore di Pietro Valpreda. Girato nel ’71, con il titolo di Non ho tempo, esso avrebbe dovuto confrontarsi con almeno due precedenti “scenici”: Évariste Galois (1965), di Alexandre Astruc, uno dei padri della nouvelle vague, il quale aveva girato un film romantico di appena 30 minuti, e Evaristo (1964, ma messo in scena solo nel ‘67), una pièce di Franco Molè, in cui ad interpretare lo sfortunato protagonista era stato chiamato Tomas Milian. L’opera, nell’attesa che la Rai ne programmasse la trasmissione, conobbe una versione breve, di un’ora e quaranta minuti, la quale fu presentata nel ‘72 a Cannes, dove venne giudicata «l’une des plus réussies expériences actuelles de cinéma politique».16 Avrebbe spiegato Giannarelli:

La Rai aveva chiesto in un primo tempo la precedenza, ma dopo aver visto la pellicola e aver ordinato alcuni tagli, dove si intravedono riferimenti a Valpreda e al commissario Calabresi, ci ha permesso di uscire prima nei circuiti cinematografici d’essai, chiedendo tempo per decidere la collocazione.17

Nonostante le assicurazioni formali, il passaggio in televisione seguì tuttavia percorsi assai accidentati. Nell’estate del ’74 il regista avrebbe informato il proprio consulente su quanto stava avvenendo:

  1. Verso la metà di maggio, mentre ero fuori Roma per motivi di lavoro, vengo a sapere indirettamente (non ho ricevuto alcuna comunicazion personale) che il 6 giugno sarebbe andato in onda Non ho tempo nella versione corta, nel quadro dei Film per la tv che sono attualmente in programmazione.
  2. Qualche giorno dopo, sempre indirettamente, so che Non ho tempo era stato rinviato al 20 giugno, mentre il 27 giugno sarebbe andato in onda Uno dei tre, un film di Gianni Serra sulla Grecia dei colonnelli. Da notare la concomitanza di questi film con il campionato del mondo di calcio, le cui partite verranno trasmesse in tv.
  3. La Rai rimandava da tempo l’emissione di un altro lavoro di Gianni Serra, Dedicato a un medico, in tre puntate, sulla situazione degli ospedali psichiatrici. Dall’interno della Rai parte una protesta contro la mancata trasmissione di questo programma (prevista prima per febbraio e poi per maggio).
  4. Allora, che cosa succede? La Rai annulla – sempre senza nessuna comunicazione di chicchessia – la messa in onda di Non ho tempo e di Uno dei tre e la sostituisce con quella di Dedicato a un medico, ottenendo così insieme due risultati. Il rinvio sine die di due film fastidiosi e il boicottaggio alla visione di un’altra trasmissione sgradita, che cadrà, in qualcuna delle sue tre serate, in concomitanza con trasmissioni di partite di calcio.
  5. Tutto ciò non è certo nuovo, anche se stavolta la cosa colpisce di più perché concentra più casi in un’unica soluzione […].18

Ne sarebbe derivata una clamorosa protesta, che avrebbe contato decine di aderenti tra intellettuali, politici e operatori della televisione.19 Ciononostante, Non ho tempo sarebbe stato trasmesso solo quasi tre anni dopo, verosimilmente anche grazie alla riforma del ’75 e a cambiamenti intervenuti nei vertici politici dell’azienda, allorché molti suoi riferimenti al maggio francese e all’autunno italiano avevano già perso di attualità:20 «Far paura un secolo e mezzo dopo morti. Un destino che pochi riescono a guadagnare in vita; un destino bellissimo; ma spetta a noi rompere la porta della prigione di Evaristo, non lasciare che i suoi nemici prevalgano».21 Lo sceneggiato si inseriva in un complesso progetto politico-culturale che la Reiac Film – fondata nel ’62 da Giannarelli, dalla produttrice Marina Piperno, che era sua moglie, e dal regista e autore Piero Nelli – intendeva portare avanti con grande determinazione e la Rai lo sapeva bene … D’altronde Giannarelli considerava Non ho tempo come una sorta di ballon d’essai: una prova generale che preludeva alla realizzazione di un film, ahimè mai girato, su Karl Marx, in cui a fare da protagonista si voleva Orson Welles.22

Andata in onda in tre puntate, dal 4 al 18 gennaio 1977,23 la originaria versione televisiva si presentò come una vera e propria docufiction: al film visto al cinema si aggiungevano il backstage, dibattiti più o meno spontanei tra attori e tecnici, come pure interviste, condotte dallo stesso Évariste Galois, alias Mario Garriba, a specialisti stranieri (doppiati in italiano ma con un artificioso accento francese), quali il regista Pierre Gidaud, il biografo Robert Bourgne, il filosofo Michel Serres, il matematico Jean-Pierre Azra ecc.24 Rispetto al final cut cinematografico, occorreva adottare un diverso linguaggio, che tuttavia rimase assai cerebrale.25 «Nella versione televisiva […] la cronologia della vita di Galois sarà rispettata in modo più preciso, didascalie saranno apposte alle immagini più metaforiche e di non immediata comprensibilità per un pubblico indifferenziato. Sarà comunque altrettanto incisivo il doppio piano continuo fra l’ieri e l’oggi».26 Ciononostante, dalla recitazione monodica e straniata ai dispositivi didattici di sapore modernista, dalle scenografie espressionisticamente deformate alla rilettura attualizzante delle vicende storiche, il film sviluppava un’intricata struttura, forse un po’ troppo per “palati fini”, che si ispirava al teatro di Bertold Brecht, Antonin Artaud e Peter Weiss nonché al cinema di Jean-Luc Godard. Nonostante l’accuratezza storica (i dialoghi, ad esempio, erano tratti dagli scritti dello stesso Galois o comunque da fonti coeve), il protagonista – interpretato da un Garriba che, pur avendo le physique du rôle, di lavoro faceva il regista, non l’attore – sembrava collocarsi in una dimensione a cavallo tra l’onirico e l’agiografico. Egli era ritratto come un rivoluzionario, tanto nella politica quanto nella scienza, benché evidente fosse quanto sugli autori le suggestioni di Marx avessero più presa di quelle di Kuhn. Galois era, in altri termini, uno studente contestatore del 1968 trovatosi per caso ai tempi della rivoluzione di luglio del 1830.

Ritrarre l’inquietudine politico-matematica di Galois era un modo per parlare della società contemporanea senza incorrere in troppe censure o critiche,27 le quali comunque non tardarono ad arrivare stigmatizzando quando «nella sostanza ideologica, Non ho tempo ripete forse un po’ troppo la stessa canzone».28 Il film diveniva un luogo ideal-mediatico in cui discutere liberamente di temi d’attualità, dal lavoro minorile alla vita nelle carceri. In cui criticare, in termini brechtiani, una scienza arroccata su una malsicura torre d’avorio: ad esempio i fisici atomici, giudicava Lombardo Radice, non potevano prescindere dal considerare l’uso bellico che del loro lavoro spesso si faceva.29 Bisognava essere ciechi per non vedere i riferimenti, impliciti ed espliciti, all’Italia di quegli anni:

In questo film […] serpeggiano due polemiche parallele: l’una contro il “sistema”, repressivo e persecutorio ieri come oggi; l’altra a favore dell’impegno politico degli intellettuali e contro il disimpegno. Ora, mentre la prima polemica ha buon gioco nel mostrare che le polizie e le magistrature sono sempre pronte, ieri come oggi, a mettere in prigione il Valpreda di turno, sull’altra polemica c’è da osservare che l’aver scelto Galois come esempio di intellettuale impegnato è per lo meno fuorviante. Infatti Évariste Galois […] è “di per sé”, a causa della propria genialità, rivoluzionario e impegnato. Così, si potrebbe dire che, senza volerlo, il film di Giannarelli sottolinea l’ingiustizia che l’egualitarismo politico opera ai danni delle preziose quanto misteriose ineguaglianze naturali.30

Un Galois politico, quindi, quello a cui si sceglieva di dar vita sullo schermo, a scapito del Galois matematico, la cui resa scenica sarebbe stata d’altronde francamente assai difficile: così la stessa spiegazione della teoria delle equazioni risolubili per radicali, introdotta da Lombardo Radice, forse per scrupolo didattico, con l’aiuto di pannelli luminosi, restava di fatto ai più verosimilmente incomprensibile…

Non ho tempo era, in sintesi, un’opera, per così dire, di comunicazione metascientifica, piuttosto che di divulgazione in senso stretto: abdicando al più tradizionale insegnamento dei contenuti, essa invitava gli spettatori a condividere gli intimi convincimenti epistemologici di autori e sceneggiatori. Chiedeva Galois: «Allora, la scienza assomiglia a un minerale, che cresce per giustapposizione e progredisce per una serie di combinazioni, nelle quali il caso gioca una parte non secondaria?» Rispondeva, paterno, il professor Louis Paul Émile Richard, interpretato da un Lombardo Radice, che – un po’ per scherzo, un po’ per dar ancora più concretezza al suo impegno personale – non disdegnava di far l’attore:31 «Sì, è giusto, non si può negare l’evidenza. I matematici non deducono: i matematici spiano, sondano, sollecitano la scienza e quando giungono a risultati nuovi, vi giungono come a tentoni, direi quasi per caso». Oppure sono irretiti dall’eleganza dei calcoli, come precisava, in una intervista, Azra.

 

Uomini della scienza

Alessandro Volta primo barone della scienza. L’abate Spallanzani che applicava preservativi ai rospi, ingravidava artificialmente cagne e si recava in Turchia per studiare da vicino gli eunuchi dell’harem imperiale. “E tutto questo lo farete vedere in tv?”, domanda allibita una giornalista. “Sicuro, sicuro”, rispondono radiosi e in coro sei registi e un manipolo di scienziati di chiara fama (Lucio Lombardo Radice, Giorgio Israel, Piero Negrini, Ernesto Capanna, Arcangelo Rossi, Angelo Baracca) […].32

Se Non ho tempo fece già molto parlare di sé, a costituire un vero e proprio casus belli fu però una serie di cinque telefilm (dovevano essere sei, ma l’episodio su Watt non venne mai realizzato), curata da Lombardo Radice e Giannarelli e trasmessa il giovedì sera, dal 13 ottobre al 10 novembre 1977, sotto il titolo complessivo di Uomini della scienza. Il progetto, concepito nel ’72, ma approvato solo dopo la riforma della Rai,33 si articolava in più cicli, che avrebbero dovuto narrare le vicende di alcune decine di scienziati «da Archimede a Einstein»34. Furono verosimilmente le polemiche che i telefilm suscitarono a non consentire la prosecuzione dell’iniziativa.

Gli episodi, a colori, della durata di un’ora circa ciascuno, erano preceduti da un «cappello», vale a dire una breve introduzione in bianco e nero dello stesso «paleomarxista», e seguiti da un dibattito, ospitato in un luogo simbolico sempre diverso, con cui si intendevano attualizzare i temi che la fiction affrontava in chiave storica. Il progetto si inseriva in quello che veniva presentato come un new deal della divulgazione Rai, finalmente aperta alle scienze, anche grazie alla spinta data in tal senso da Giorgio Tecce, biologo a La Sapienza e «consigliere rosso».35 L’intenzione dichiarata in prima puntata era quella di parlare di «uomini della scienza, che fanno una scienza degli uomini», di rifuggire cioè, innanzi tutto, dal didatticismo, ma anche dalle storie romanzate e dai medaglioni agiografici … alla fine però quasi tutti gli episodi – girati in fretta, con pochi mezzi e caratterizzati da un livello particolarmente basso della recitazione – furono le tre cose insieme. Insomma, prodotti non eccelsi in sé, ma pur sempre «il primo tentativo che fa la scienza di servirsi del mezzo televisivo senza cadere in troppe tentazioni di “abbellimenti”».36

Una novità era il periodo storico considerato. Emancipandosi dalla tradizione rinascimentista tipicamente italiana, che, sul piccolo schermo, aveva da poco plaudito alla realizzazione del pluripremiato La vita di Leonardo da Vinci (1971) di Renato Castellani, Lombardo Radice sceglieva di raccontare le vicende di personaggi vissuti tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. In tale periodo infatti, grazie alla forza dirompente della rivoluzione francese – momento cruciale del riassetto di equilibri politici, ma anche culturali, quindi, nella fattispecie, scientifici – più evidente, a suo giudizio, si mostrava l’intreccio tra quelle categorie che certo manicheismo storiografico dell’epoca chiamava storia «interna» ed «esterna». Egli illustrava: «Si tratta di un periodo cruciale della scienza europea in cui sorgono la problematica, la struttura della scienza di oggi […], mentre si fa strada la separazione tra potere politico e potere accademico. Sono, cioè, gli anni in cui la borghesia si afferma come classe egemone».37 Ancora una volta, il termine «rivoluzione», in tutta la sua pregnanza marxista, tornava quasi ossessivo. La scienza era difatti intesa come forza intrinsecamente politica, giacché «chi è rivoluzionario della mente è, almeno potenzialmente, un rivoluzionario senz’altro, in tutti i campi»:38

Vogliamo educare dei rivoluzionari, rivoluzionari della tecnica, del pensiero, dell’arte, delle leggi e del costume, delle istituzioni pubbliche e dei rapporti di proprietà. […] Vogliamo che i rivoluzionari del pensiero e dell’azione, da San Francesco a Gandhi a Carlo Marx, da Galileo a Voltaire e Darwin, non siano più i santi ai quali nelle scuole, incapaci di educare uomini simili a loro, si tributa un ipocrita elogio funebre, ma modelli di comportamento.39

Apriva la serie dei cinque telefilm Il sogno di d’Alembert, che, prendendo spunto dall’omonimo scritto di Denis Diderot, intendeva scandagliare il rapporto tra scienza e tecnica al tempo dei philosophes. Tormentata fu l’elaborazione della sceneggiatura. Almeno tre furono infatti le versioni ap prontate, col succedersi delle quali si fecero progressivamente evaporare, per motivi di immediatezza comunicativa, i contenuti squisitamente matematici previsti all’inizio dei lavori. «Durante questa ri-stesura», scriveva Giannarelli a Lombardo Radice, «sono mancati per varie ragioni i collegamenti con Israel e Negrini; i quali, dopo averne letto le prime sequenze, so che hanno manifestato perplessità appunto sull’aspetto matematico».40

Sotto il profilo narrativo la fiction si sviluppava intorno alla nascita del progetto dell’Encyclopédie e alle difficoltà da esso incontrate a causa dell’ostracismo dei poteri forti, in particolare dei gesuiti, che, a dire il vero, venivano rappresentati in maniera poco più che macchiettistica, come vendicativi garanti dell’ordine costituito. Quello di d’Alembert era un sogno ad occhi aperti, che coniugava amore e politica: la possibilità di una vita felice con Mademoiselle de Lespinasse e l’utopia di un re-filosofo disposto a governare in scienza e coscienza. In armonia con un siffatto desiderio di palingenesi, l’Encyclopédie era esaltata non tanto per le sue finalità conoscitivodescrittive, quanto per quelle prescrittive: occorreva, per farla breve, sporcarsi le mani per cambiare il mondo.

L’interesse per la tecnica – a dire il vero, più discussa che mostrata41 – era chiaro sin dalla prima scena, ambientata nel salotto di Madame du Deffand, colmo di dames e philosophes visibilmente meravigliati di fronte al funzionamento di una delle celebri anatre meccaniche di Vaucanson, congegno tanto geniale, quanto improduttivo. La tecnica andava dunque esaltata come strumento di mera curiosità e diletto? Sì, per Fontenelle, no per Diderot, sanguigno protagonista e vero alter ego di Lombardo Radice, costantemente ritratto nel visitare officine, nel proporre agli operai di unirsi in società per l’acquisto dell’Encyclopédie, nel cercare, in altri termini, di connettere il mondo delle scienze esatte a quello di una tecnica finalmente utile all’umanità. A lui si affiancava e in alcuni casi contrapponeva un più esangue d’Alembert, legato ad una visione più disincarnata e teoreticista della ricerca: «Quanto al filosofo», egli, quasi preconizzando Wittgenstein, considerava nell’ultima scena del telefilm, «in certi casi l’unico atteggiamento degno di lui è il silenzio. E ora permettetemi di allontanarmi». Dopodiché, ascoltato Malesherbes, concludeva Diderot con parole che non potevano non ricordare quelle di Richard di Non ho tempo: «I matematici sono cattivi giocatori. Nella vita, come in quasi tutti i giochi, ci sono cose che non si possono calcolare, che non si possono esprimere con quantità certe, x e y, perché sono legate al filo sottile dell'intuizione e della conoscenza degli uomini».

Da un punto di vista strettamente televisivo, l’episodio più riuscito apparve La ballata dell’abate Spallanzani, in cui, con una tecnica quasi pirandelliana, il bravo Bruno Corazzari, guidato da un felicissimo Virgilio Tosi, entrava ed usciva dal personaggio del protagonista per dialogare di biologia con lo zoologo Ernesto Capanna: «Molto, molto bello. Apprezzo in modo particolare l’idea di Capanna attore-consulente, e l’inserzione di commenti di scienziati moderni», scrisse Lombardo Radice in una sua nota alla sceneggiatura. Un’allegra ballata, intonata da un cantastorie, fungeva da voice off in grado di attrarre il pubblico più giovane e riportare al “tono medio” la narrazione, in alcuni frangenti divenuta un po’ accademica: così la ballata «del rospetto innamorato» accompagnava la celebre esperienza delle «rane in mutande», mentre quella «del cane di Reggio» illustrava, con inevitabile quanto opportuna ironia, la fecondazione artificiale della cagna scandianese. Era difficile parlare di argomenti del genere in televisione: qualcuno, ad esempio, eccepì che gli autori, oltre ad aver commesso qui e lì errori storici, avevano fatto del protagonista un «antesignano della contraccezione».42 Altri, che si era consumato «il martirio di Spallanzani».43 Altri ancora che gli si erano attribuiti interessi metafisici che egli non aveva … Ma ovviamente vi furono anche numerosi ed autorevoli plausi.44 Polemiche a parte, la struttura del telefilm si esprimeva in un triplice livello narrativo – le vicende storiche, il commento straniato, la ballata – che, pur complicando ne il tessuto, lo rendeva senz’altro più vivace del precedente.45 La figura del beffardo Spallanzani, ritratta in maniera tutt’altro che agiografica, era giocata sull’intima contraddizione che, secondo gli autori, sarebbe derivata dall’esser egli stato al contempo prete e scienziato. Era la sua natura di sperimentatore ad avere tuttavia la meglio sullo schermo; uno sperimentatore inesausto che, quasi novello accademico del Cimento, chiudeva l’episodio con la frase: «C’è qualcosa che ancora non capisco. Devo provare ancora».

Il telefilm dedicato alle Ipotesi sulla condanna a morte di A.L. Lavoisier intendeva tratteggiare un personaggio «complesso, tragico, contraddittorio», che però nel tessuto narrativo si rivelava, molto più tradizionalmente, come un attento sperimentatore, amante delle misurazioni e così facoltoso da essere disinteressato alla dimensione sociale ed economica della ricerca in cui si impegnava. Nell’introduzione Lombardo Radice illustrava: «È rivoluzionario come scienziato. Nello stesso tempo ha però vedute conservatrici sull’organizzazione della scienza. Vuole mantenere intatta la vecchia accademia. E anche dal punto di vista del suo impegno economico, produttivo, non è soltanto esattore delle imposte: è anche un uomo moderno, borghese, di finanza e di economia capitalistica, potremmo dire un Guido Carli della sua epoca». Quali, dunque, le imputazioni a suo carico? Gli autori guardavano con sospetto al territorio di autonomia dalla politica che Lavoisier desiderava ritagliare intorno alla scienza (in questo senso sarebbe stata intesa la sua difesa ad oltranza dell’Accademia delle scienze, ancorata alla vecchia classe dirigente), l’idea cioè secondo cui sarebbe stata la scienza, grazie alla propria extraterritorialità teorica, a dover governare la politica, non viceversa.

Sotto il profilo drammaturgico, ad essere rappresentato era una sorta di processo al processo, in cui i vari deuteragonisti – la moglie Marie-Anne Pierrette Paulze, Antoine-François de Fourcroy, Gaspard Monge, Pierre Simon Laplace e Louis-Bernard Guyton-Morveau – venivano chiamati a deporre, accompagnati da una musica, di Vittorio Gelmetti, così inquietante da ricordare in ogni momento quello che sarebbe stato il drammatico esito delle vicende. Limpida risultava nondimeno la messa in scena degli esperimenti di calcinazione, intesi a dar forza alla teoria, appunto lavoisieriana, dell’ossigeno contro quella, stahliana, del flogisto, e di sintesi dell’acqua, a partire da idrogeno e ossigeno.

Non esattamente un opportunista, ma comunque un abile politico, «un grande barone della scienza», era d’altronde anche il protagonista di La luminosa carriera del Prof. Volta. Lombardo Radice lo precisava nell’introduzione, la quale di nuovo riconosceva centralità al potere tra le condizioni di esistenza della scienza moderna: «Napoleone è un uomo di scienza. Il primo degli uomini politici ad interessarsi con assiduità finora sconosciuta alla scienza, ai nostri problemi». Una desacralizzazione di Volta pertanto, quella tentata dagli autori, la quale tuttavia non aveva grande esito nella successiva articolazione drammaturgica, tanto da far apparire l’introduzione quasi come una excusatio non petita. L’interno del tempietto voltiano di Como, ricostruito in studio, diventava lo sfondo di tutte le azioni sceniche, di ascendenze esageratamente didascalico-teatrali. Rispetto agli altri, il telefilm risultava far riferimento ad una maggior mole di contenuti tecnici, ma le esperienze, più che agite scenicamente, erano raccontate – talvolta con la cornice di strumenti d’epoca, che comunque non venivano usati – quasi sempre dal discepolo e amico Luigi Valentino Brugnatelli, personaggio straniante interpretato da un quanto mai monocorde Mario Garriba (finalmente mostrata era invece la costruzione della pila, ma alla maniera di un’esperienza scolastica in costume). La stessa nota controversia con Luigi Galvani non era rappresentata drammaticamente, bensì narrata, in dieci interminabili minuti, attraverso la fictio scenica dell’intermediazione di Bassiano Carminati e Giovanni Aldini, i quali riferivano a ciascuno dei due protagonisti, immobili al proprio posto su una balconata, quanto l’altro avesse detto o fatto.

Chiudeva la serie l’Elogio di Gaspard Monge fatto da lui stesso, ideale prosecuzione dell’Ipotesi sulla condanna a morte di A.L. Lavoisier: ai personaggi già incontrati corrispondevano gli stessi interpreti, cosicché sembrasse di ripercorrere quasi le medesime vicende, ma da un differente punto di vista. I due telefilm erano connessi anche tematicamente: questa volta però si ampliava l’orizzonte della riflessione, triangolando il rapporto tra scienza e politica con la considerazione di quella imprescindibile polarità rappresentata dalla tecnica. Ed è proprio a quest’ultima (per esempio alle procedure da seguire per la costruzione dei cannoni) che veniva concesso ampio spazio, ben più di quanto fosse stato fatto ne Il sogno di d’Alembert.

Nel telefilm si registravano buoni tentativi di offrire un’idea, seppur vaga, della geometria descrittiva, di cui Monge era stato uno dei padri nobili; a distanza di tempo non è però facile intuire che tipo di effetto essi avessero su un pubblico “non esperto”, evidentemente invitato a compiere uno sforzo di comprensione (lo stesso Lombardo Radice si dichiarò solo parzialmente soddisfatto dei risultati ottenuti). Ciò che invece con ogni verosimi glianza passava agli spettatori era il metamessaggio del telefilm: gli apporti originali del matematico francese sarebbero stati una sistematizzazione e, al più, una riconcettualizzazione di tecniche accumulatesi nei secoli. In un documento di lavoro Lombardo Radice precisava infatti che «le “scoperte” e le “invenzioni” [andavano considerate] come momenti nodali di un lungo processo ricco di apporti collettivi, e non soltanto come fulminanti illuminazioni di geni solitari».46 Monge veniva dipinto come senz’altro meno “ignavo” di Lavoisier, nondimeno ancora convinto che fosse la scienza a dover governare la politica e non viceversa. Un puro, insomma, vittima di se stesso, prima che degli altri. Benché la sua fine fosse meno tragica di quella del collega chimico, anch’egli avrebbe infatti avuto di che lagnarsi negli ultimi anni della sua vita, per non aver avuto la scaltrezza politica di un Volta. Un suo studente chiosava: «Uomini coraggiosi avevano piantato una foresta di alberi nuovi. Coloro che li hanno strappati, nell’agitarli hanno sparso un seme che crescerà assai lentamente. Le ortiche si sforzeranno di soffocare le giovani piante, ma gli amici della foresta non devono preoccuparsi se non riescono a strappare di continuo le erbacce. Abbiano fiducia nella natura. La pioggia, il sole e le virtù del seme lo faranno prima o poi trionfare dei suoi scuri nemici».

 

Esiste una scienza operaia?

I cinque telefilm mandati in onda nell’autunno del ’77 erano prodotti paradidattici a basso budget, di qualità assai diversa tra loro, sì innovativi per alcuni versi, ma comunque in sé non in grado di innescare discussioni particolarmente animate.47 Seguiti, di volta in volta, da un dibattito su temi di attualità vagamente ispirati ai contenuti della fiction, essi però si spinsero, forse anche per caso, ben oltre le intenzioni dei curatori. D’altronde, già a gennaio, su «L’Osservatore Romano» qualcuno aveva paventato:

Ci sarà, comunque, anche il dibattito dopo ciascuna trasmissione e sarà aperto a specialisti e a spettatori vari (così è stato affermato). Non vorremmo proprio – come purtroppo è spesso capitato – che interventi a “ruota libera”, discorsi esoterici, pretestuose disquisizioni, gratuiti (non si sa quanto) imbonimenti, ingenerassero confusione di idee a scapito della validità del telefilm.48

In particolare, dopo Il sogno di d’Alembert, lo storico Luigi Firpo, un’intellettuale impegnata come Laura Conti e i direttori di due importanti enciclopedie, Treccani e Einaudi, vale a dire Vincenzo Cappelletti e Ruggiero Romano, vennero invitati a discutere, con lo stesso Lombardo Radice, di scienza e tecnica presso l’Accademia delle scienze di Torino. Solo da poco più di un anno era stato pubblicato L’ape e l’architetto, libro che, negando la neutralità di una scienza intesa come «proiezione ideologica» di rapporti sociali e materiali, aveva innescato, a vari livelli, un dibattito culturale inimmaginabile al giorno d’oggi.49 Recensendo la riedizione del testo, Marco d’Eramo avrebbe icasticamente illustrato:

Fino alla fine degli anni l’60 […] la sinistra italiana era stata scientista, d’istinto e di convenienza. Lo scientismo era l’orizzonte filosofico più comodo per coniugare insieme emancipazione sociale e progresso tecnologico, razionalismo anti-superstizioso e laicità. Una versione paludata di quello slogan «soviet + elettrificazione» in cui Lenin aveva condensato tutto il comunismo. Sul versante opposto, le critiche alla scienza venivano tutte da un orizzonte irrazionalista, poetante, nietzscheano, aborrente i numeri («la legge di gravità non renderà mai conto della poesia della luna di notte») e la rivendicazione di un’ineffabilità sostanziale del mondo. Ma già dal titolo, L’ape e l’architetto, con la sua implicita citazione marxiana, i quattro autori rimescolavano le carte.50

Certo, non era ritornata l’epoca dei maghi, ma, con l’esaurimento delle suggestioni di Lukács, ad aver guadagnato credito nella sinistra italiana erano stati i maestri della scuola di Francoforte, prima Adorno e Horkheimer poi Marcuse, alla luce dei quali la polemica anticapitalistica era divenuta critica della società industriale. Di lì alla contestazione del sapere scientifico o, meglio, della razionalità tecnoscientifica, intesa come strumento di dominio non soltanto sulla natura, ma anche sugli uomini, il passo era stato breve.

Le posizioni di Lombardo Radice, che aveva a cuore la storicità, piuttosto che la non neutralità della scienza, non erano esattamente sovrapponibili a quelle del gruppo di Cini. Ma egli era citato nell’introduzione de L’ape e l’architetto e soprattutto, bonario, ne aveva assunto pubblicamente le difese nella infuocata primavera del ’76. Il «paleomarxista», benché con grande garbo, aveva, innanzi tutto, preso le distanze dalle accuse mosse al volume da Lucio Colletti;51 poi, dalle posizioni recentemente maturate da Ludovico Geymonat, il quale, pur avendo «il merito storico di aver fatto rientrare la scienza nella cultura», optando per un materialismo dialettico di ascendenze engelsiane, aveva mantenuto un approccio così teoreticista – «in cui l’accento […] rimane sempre sul pensiero» – che «non sembrò soddisfacente ad un gruppo di giovani studiosi marxisti di epistemologia e di storia della scienza».52 Aveva infine dichiarato le proprie simpatie per il new deal del materialismo storico. Gli era stato chiesto dall’intervistatrice Chiara Valenzano: «I motivi di questa insoddisfazione sono da ricercare nella pretesa del materialismo dialettico di spiegare lo sviluppo scientifico sulla base di leggi generali del pensiero, isolando la scienza dalla storia degli uomini, dai rapporti di produzione, dalle idee dominanti?». Ed egli aveva risposto: «Appunto! Faccio qualche nome e scelgo, di proposito, studiosi che, politicamente, militano in diverse formazioni della sinistra, o sono indipendenti: Israel, Negrini, Baracca, Rossi, e, tra gli autori dell’Ape e l’architetto, Ciccotti e Jona-Lasinio. Il comune denominatore di questo nuovo indirizzo è il richiamo al materialismo storico».53

I nomi menzionati non erano casuali: i giovani Giorgio Israel, Piero Negrini, Angelo Baracca e Arcangelo Rossi erano (insieme con Ernesto Capanna) proprio i consulenti scientifici di Uomini della scienza. Tra l’altro, alcuni di loro avevano manifestato serie perplessità sull’Ape.54 Cionondimeno, il fatto che lo stesso curatore dei telefilm li ponesse, forse strumentalmente, senza distinzione, in stretta relazione con alcuni dei non-neutralisti del gruppo di Cini non poteva non accreditare la convinzione, condivisa (a giusto titolo o no) dai padroni di casa torinesi, secondo cui vi sarebbe stata una stretta parentela tra le posizioni di Lombardo Radice, dei suoi giovani collaboratori, degli autori dell’Ape e infine di tutti quanti, cavalcando l’onda lunga del ’68, a metà degli anni settanta denunciavano la «natura di classe» della razionalità tecnoscientifica.55 Dopotutto, c’era chi, già a proposito di Non ho tempo, aveva giudicato che «tema centrale del film [fosse] il rapporto tra scienza e potere, la critica alla presunta neutralità della scienza».56 Insomma, come avrebbe denunciato qualcuno, «non bastava, tuttavia, il dibattito tramite la carta stampata. Per giungere a sradicare anche nelle masse la convinzione circa l’oggettività della scienza bisogna pure valersi della più popolare televisione».57

In sintesi, Lombardo Radice parlava di «materialismo storico», tra l’altro pervaso di una vibrante fiducia nella scienza come forza conoscitiva, ma molti intendevano «non neutralità», per di più luddistica e ascientifica. Vi era dell’altro, però. Egli non sempre condivideva in pieno le posizioni dei suoi giovani collaboratori; riteneva nondimeno che, all’interno dell’intelligencija di sinistra fosse opportuno mantenere il pluralismo. E per questo si esponeva in prima persona. Già un recente contributo di Giorgio Israel su «Rinascita» aveva ingenerato una serie di polemiche che, a causa del rifiuto della rivista di sconfessare l’articolo, erano sfociate nell’allontanamento di Geymonat dal PCI.58 Poco più di un mese dopo, presentando un testo di Arcangelo Rossi alla redazione del medesimo periodico, Lombardo Radice cercava di essere esplicito:

Potrei limitarmi a dire che si tratta di uno scritto ottimo, anche se personalmente tendo più ad accentuare la scienza come forza produttiva (=conoscenza). Ma non mi limito a ciò, sarebbe ipocrita. È in corso una piccola guerra, pubblica e privata, di Ludovico Geymonat contro alcuni giovani marxisti (Israel, Rossi, Baracca e altri) che non la pensano come lui, con forti tendenze del robusto pensatore piemontese a prese di posizione autoritarie, non esclusi i “veti” a questa o a quella pubblicazione. Questo non mi pare tollerabile. Dobbiamo difendere il pluralismo epistemologico non meno di quello politico. Mi sta molto bene che Mascitelli abbia pubblicato su «Rinascita» una lettera anti-Israel (non importa se abbastanza schematica); pubblichiamo Rossi, e Tagliagambe, Giorello o chi altri voglia risponda. Questa mia lettera di accompagnamento è ragionevolmente riservata.59

Gli organizzatori volevano, dunque, una discussione vivace e pluralista, che esulasse dall’analisi di erudite questioni storiche per affrontare i problemi della società contemporanea. Non per nulla, allorché, nel dicembre del ’76, si era valutata la possibilità di organizzare un dibattito, a molti era venuto in mente «il recentissimo episodio del processo all’Enciclopedia della vita sessuale, per la quale sono stati usati, da parte del sostituto procuratore della Repubblica, termini che sembrano presi di peso dalle accuse rivolte nel ’700 a d’Alembert e Diderot ([…] i libri in parola, essenzialmente corruttori, non possono essere strumento di elevazione spirituale secondo la concezione dei nostri legislatori, e quindi non corrispondono al carattere di scientificità […])».60

In una Torino già esasperata dagli scontri e dalle violenze perpetrate da Brigate rosse e Prima linea, culminate da appena una decina di giorni nel «rogo dell’Angelo azzurro», la tensione faceva tremare i polsi a molti. Bastò poco, dunque. Un invito al dibattito su «l’Encyclopédie e i problemi attuali della divulgazione scientifica» fu spedito, non si sa bene da chi, anche alle locali organizzazioni sindacali. Queste inviarono una delegazione di operai, i quali, dopo i brevi interventi degli accademici, presero la parola, monopolizzando di fatto la conversazione: essi si mostravano insofferenti nei confronti delle dotte relazioni dei «professori» e rivendicavano il proprio diritto di fare cultura, anzi scienza. «Per loro, nel film c’erano troppi candelabri e troppi broccati, e le disquisizioni degli enciclopedisti devono esser sembrate delle chiacchiere leziose di signori».61 I toni si fecero subito accesi. Gli operai parlavano di «rabbia», che soffocavano appena nelle loro frasi concitate. «C’è stata così all’inizio del dibattito qualche animosità. Gli esperti hanno rischiato di venir messi sotto accusa. Qualcuno di loro rispondeva all’aggressività con il paternalismo», avrebbe notato Gianni Rodari.62 Una situazione imbarazzante. Finanche pericolosa. Ben lontana dall’irenismo dei registri televisivi e accademici dell’epoca. Insomma, «inconsueta per una tv che, per tanti anni, ha teso invece a coprire, mistificare, eludere conflitti e contraddizioni, cercando costantemente di ricomporre l’universo negli equilibri asettici delle inchieste “guidate” e delle “tavole rotonde”».63 Anche se non fino in fondo, in molti se ne sarebbero accorti. Il fisico Antonio Rostagni, in una lettera inedita a Norberto Bobbio, “padrone di casa” in quanto presidente dell’Accademia delle scienze di Torino, avrebbe commentato:

Nella trasmissione del 13 avevo notato il tentativo di reazione di Firpo, caratterizzato da quella forza ed abilità dialettica che si ritrovano nei suoi articoli. Mi aveva colpito il tuo volto teso, più ancora che serio, e la mancanza di ogni intervento, anche di semplice saluto, da parte tua. Ma non avevo attribuito a questi fatti un significato, che, invece, evidentemente avevano.64

Fu Laura Conti a svolgere il ruolo di mediatrice. Come mostrano alcuni documenti inediti, la sua partecipazione alla serata non era prevista, ma, all’ultimo momento, aveva dovuto sostituire, con grande disappunto di Bobbio, il direttore degli Editori Riuniti ed ex manager dell’Enciclopedia della scienza e della tecnica Ruggero Boscu.65 Ascoltate le lagnanze degli interlocutori, la voce storica dell’ecologismo politico italiano cercò di riportare la conversazione sul binario della riflessione teorica. Era contraria alla tecnocrazia, Laura Conti. L’operaio, a suo giudizio, riguadagnando consapevolezza del proprio ruolo, avrebbe prodotto, sì, già cultura; gli occorreva però ora impadronirsi anche della scienza, vale a dire di quel bagaglio di cognizioni tecniche, di cui, ahimè, era stato espropriato per l’appunto dal settecento (alcuni avrebbero criticato questa datazione, un po’ tranchant). Se egli avesse avuto nozione dei processi, non avrebbe dovuto delegare il controllo della fabbrica a terzi, così, ad esempio, evitando tragedie come quella di Seveso: in quell’occasione, per dirla in maniera semplice, vi era pure un termometro che avrebbe potuto mettere in guardia rispetto a quanto stava per avvenire, tuttavia gli operai, banalmente, non sapevano leggerlo.66 Altrove avrebbe precisato: «Noi comunisti non intendiamo dare deleghe ai tecnici, e del resto non pensiamo neppure che la delega la debbano ricevere, invece che i tecnici, i politici. O meglio: riteniamo che i politici debbano essere delegati a mettere in pratica quello che la gente decide, in piena consapevolezza dei termini del problema».67Il fattaccio dell’Accademia, come ebbe a intitolare Bobbio una cartella contenente i documenti relativi alla vicenda, si era consumato.

Il primo ad intervenire su un quotidiano fu il filosofo Pietro Rossi, il quale, due giorni dopo gli eventi, sottolineando la novità, per il panorama culturale italiano, di un dibattito in cui si confrontassero intellettuali ed operai, chiariva quelli che, a suo giudizio, erano stati gli equivoci di fondo di rivendicazioni ispirate ad una cultura ancora stancamente sessantottesca, le cui matrici affondavano in una koiné culturale che andava «dalla Scuola di Francoforte alla polemica esistenzialistico-spiritualistica contro il sapere scientifico». In primis, l’aver considerato la scienza come mero strumento di dominio capitalistico, quindi come portatrice di disagi sociali e catastrofi ecologiche, la qual cosa si era tradotta in un’avversione, palpabile in sala, verso il lavoratore intellettuale, «che non si sporca le mani e che perciò sta “dall’altra parte”». La divisione del lavoro non poteva infatti essere abolita per motivi ingenuamente ideologici, ma rispondeva ad un’esigenza di competenza delle varie figure professionali coinvolte nel processo produttivo e, in genere, nelle dinamiche sociali. L’errore, in altri termini, consisteva nell’aver identificato la scienza con l’uso capitalistico che se ne faceva, il quale le era invece in buona misura estraneo, in quanto risultato di specifiche scelte fatte dai gruppi industriali per massimizzare i profitti: «Chiamare la scienza e gli scienziati sul banco degli imputati ha, anzi, l’esito paradossale di fuorviare l’attenzione dai veri responsabili» nonché di inimicarsi figure dalla cui collaborazione la classe operaia potrebbe sperare solo benefici. Lombardo Radice – che veniva citato in qualche modo contro la sua stessa posizione – aveva pertanto ragione: solo recuperando il sapere scientifico delle vecchie egemonie si sarebbe potuto sconfiggerle. Per converso, rifuggire nell’anti-scientismo avrebbe solo ulteriormente allontanato gli operai dai meccanismi del potere, della qual cosa il capitalismo sarebbe stato l’unico beneficiario. In secundis, l’aver confuso scienza e cultura tout court. Mentre quest’ultima poteva infatti nascere e liberamente circolare nelle fabbriche, la prima doveva, per forza di cose, farsi nei laboratori. Il suo carattere talvolta «astratto», come lo avevano definito i rumorosi ospiti dell’Accademia, non era d’altronde un aspetto necessariamente negativo. Talvolta, al contrario, era persino necessario. La classe operaia poteva, certo, godere dei prodotti della scienza, ma non ottenerli da sé, se non mandando i propri figli all’università e facendoli diventare tecnici di un sapere specialistico ad essa purtroppo precluso. In altre parole, come recitava il titolo dell’articolo, «la scienza operaia non esiste».68

La fabbrica, quindi, intesa come mero luogo di colonizzazione della tecnoscienza? Laura Conti, riprendendo quanto espresso in diretta, replicava dalle pagine de «L’Unità» con una annotazione epistemologica che intendeva intaccare l’anacronistico monolitismo di ciò che le pareva come una recrudescenza di positivismo. Ovviamente, data la sua formazione, aveva in mente le scienze biomediche ed ambientali:

Nel secolo scorso gli scienziati che per primi intrapresero lo studio della psicologia animale allestirono un’infinità di labirinti nei quali i topi dovevano destreggiarsi fra ostacoli materiali e scariche elettriche, alla ricerca del cibo. Solo in questo secolo si è capito che tali sperimentazioni non fornivano informazioni sul “topo”, bensì su un animale fantastico che ha l’anatomia del topo, ma non le sue stesse funzioni; o quanto meno su un’astrazione concettuale che, a partire dal topo, era stata operata dagli scienziati stessi. “Una scimmia è mezza scimmia” fu coniato da quelli che studiavano la psicologia delle scimmie proprio per significare che quando si studia un animale “in condizioni di laboratorio” si ricevono informazioni ridotte: se si vuole un’informazione più ricca bisogna studiare l’animale nel suo ambiente […].69

Fuor di metafora: o la scienza si faceva anche in fabbrica, ossia nella società, o essa non avrebbe compreso nulla della realtà che si prefiggeva di spiegare, come era successo a quella medicina che, rimanendo barricata in asettici laboratori, ben pochi risultati aveva ottenuto nello studio di malattie derivanti dall’interazione uomo-ambiente. La questione di fondo era comunque più ampia e aveva a che fare con il rispetto per «i rissosi operai della Mirafiori», i quali avevano il diritto di partecipare alla gestione della fabbrica: su questo vi era poco da discutere. D’altronde, il mondo stava cambiando e con esso il ruolo critico degli intellettuali. La crisi del vetusto mito di un progresso che guardava alla scienza come a una forza autonoma rispetto al capitalismo nonché l’emergere di una coscienza critica circa i limiti dello sviluppo avrebbero dovuto invitare a fermarsi e a ridisegnare una volta per tutte il sistema.70

Anche Luigi Firpo aveva partecipato al dibattito in diretta e, come la stessa Conti, denunciato quanto mistificante dal punto di vista storico fosse presentare l’Encyclopédie come il frutto degli sforzi della working class a beneficio della medesima: i lavoratori infatti non avevano partecipato al progetto né, tanto meno, ne avevano potuto beneficiare, essendo solitamente analfabeti e comunque non in grado di affrontare l’enorme spesa dell’acquisto. Non era tuttavia questo l’oggetto del contendere. Firpo, che voleva dar voce alla più algida tradizione accademica, stigmatizzava il comportamento di «un intellettuale», Lombardo Radice appunto, che aveva mandato degli operai allo sbaraglio, in un contesto in cui, a voler essere benevoli, essi erano apparsi ingenui:

Ora, nessuno contesta che gli operai abbiano pieno diritto di accedere ai canali televisivi e che i loro problemi siano degni della massima attenzione. [...] Ma quello che mi è parso intollerabile è che per l’appunto un intellettuale li abbia mandati con cinismo allo sbaraglio, facendoli parlare a sproposito, fuori tema, nel posto meno adatto, dopo che la telecamera aveva ripreso i loro sbadigli, quasi “barbari” calati nei giardini dell’Arcadia. Essi hanno infatti dichiarato che non sanno che farsene della nostra cultura, perché stanno elaborando una loro autonoma cultura della fabbrica, confondendo così acculturazione o esperienza esistenziale con conoscenza scientifica. Hanno condannato l’automazione perché sottrae posti di lavoro, minacciando un nuovo luddismo, le mazze calate sui computers, ignorando che il progresso tecnologico accresce l'occupazione differenziata e promuove il tempo libero.71

Gli operai legittimamente rivendicavano il diritto alla cogestione del lavoro: senza tuttavia cognizione dei procedimenti, dei rischi e degli scopi – a prescindere, cioè, da un approccio scientifico alla materia – non avrebbero mai potuto conseguire alcun risultato. Era bene dirlo una volta per tutte: le 150 ore, che più volte erano state celebrate durante la trasmissione come luogo ideale di creazione di un nuovo sapere, si erano rivelate utili non tanto alla formazione degli operai, quanto alla legittimazione degli stipendi di piccoli intellettuali, che sbarcavano il lunario proprio grazie a tal tipo di didattica.72 Insomma, la lezione dell’Enciclopédie, opera fatta dai borghesi per i borghesi, era che la scienza libera chi la possiede. Non comprenderlo – paradossalmente, era uno storico a rimproverarlo a uno scienziato e divulgatore (e indirettamente ad un medico e attivista) – poneva ipso facto al di fuori di ogni processo partecipativo.

La discussione si stava lentamente spostando sul significato della cultura e sul ruolo delle discussioni collettive. «Mi venivano in mente anche molti dibattiti tra studenti, nelle loro infuocate assemblee. Certo, la assemblea è anche un modo di fare cultura. Ma la cultura dell’assemblea è sufficiente?» si chiedeva lo stesso giorno Gianni Rodari sulle pagine di «Paese Sera». Insomma, anche per lui, che partiva da presupposti ben lontani da quelli di Firpo, il valore del dibattito risiedeva proprio nell’aver fatto capire che per aver voce in un confronto politico sulle ricadute sociali di scienza e tecnica, occorreva innanzi tutto conoscerle. E questa era una risposta a chi voleva abolire i contenuti didattici nelle scuole. Agli studenti stessi, inoltre, che continuamente si chiedevano: perché studiare?73

Geymonat, a Milano, non aveva guardato la trasmissione televisiva, ma si era fatto un’idea di quanto era successo grazie proprio all’articolo di Firpo, che gli era stato passato in fotocopia da un suo amico giornalista. Egli, consapevole che «ci sono dei problemi ben più gravi che riguardano tutta l’Italia e tutta l’Europa», intendeva gettar acqua sul fuoco, pur introducendo alcune puntualizzazioni.74 Più che sul dibattito svoltosi all’Accademia, Geymonat, fermo sostenitore di un punto di vista razionalista, si concentrava sull’atteggiamento incoerente di alcuni intellettuali – Firpo era più volte citato testualmente, ma mai menzionato – che accusavano gli operai di «parlare per schemi, per slogan» nella condanna della scienza, mostrandosi invece assai più indulgenti quando a farlo erano dei loro colleghi. L’antiscientismo dei lavoratori della Mirafiori non era infatti poi così lontano da quello dell’ingiustamente celebrato Charles P. Snow o di tanta cultura idealistica, la quale non era stata abbandonata neanche dopo la caduta del fascismo, «basti ricordare le celebrazioni di Giovanni Gentile, tenute pomposamente a Roma dal 26 al 31 maggio 1975, per le quali neanche il PCI scrisse una parola di condanna».75 L’esperienza delle 150 ore, poi, in molti contesti, come quello lombardo, aveva consentito, grazie all’introduzione della storia della scienza, di sperimentare pratiche innovative nella didattica delle discipline scientifiche, che non avevano attecchito nella scuola italiana ancora una volta a causa della pervicace cultura idealistica. Concludeva infine, sottolineando l’importanza di temi assai cari allo stesso Lombardo Radice:

Non sono infine d’accordo sul modo con cui gli estensori di alcuni commenti alla trasmissione televisiva in questione, hanno parlato della pretesa di portare l’elaborazione della scienza anche nelle fabbriche. Non si tratta infatti di pura demagogia, ma di un problema molto serio, connesso alla ricerca di un criterio di verificazione delle scoperte scientifiche non solo nella pratica individuale del singolo ricercatore, ma nella “pratica sociale”. È un problema largamente discusso in Cina e nell’URSS, e c’è da rallegrarsi che esso cominci a suscitare un vivo interesse anche in Italia, per lo meno da parte di persone decise a studiare il marxismo senza paraocchi idealistici.76

Poi, il silenzio. La polemica sembrava essersi esaurita, allorché, alcune settimane dopo, «Il Giornale Nuovo», un quotidiano assai lontano dall’orizzonte ideologico di un po’ tutti i contendenti, dava alle stampe una lettera, apparentemente privata, inviata da Bobbio a Paolo Grassi, presidente della Rai, e, per conoscenza, a Ugo Zatterin, direttore della sede regionale di Torino, e a Massimo Fichera, direttore della seconda rete. Bobbio protestava che l’originario dibattito sulla Encyclopédie era stato, a sua insaputa, esteso ai «problemi attuali della divulgazione scientifica». Gli era stato poi assicurato che a parlare sarebbero stati studiosi qualificati, mentre, a parte le poche battute iniziali, avevano monopolizzato ogni discussione gli operai, «che interloquirono uno dietro l’altro con interventi probabilmente concordati con il moderatore e certamente preparati in anticipo su argomenti di cui non intendo discutere l’importanza, ma che non avevano niente, proprio niente a che vedere con il commento del film e con il tema in discussione». Il «paleomarxista» era dunque stato scorretto con l’Accademia e con gli stessi operai, «col favorire la loro partecipazione ad un dibattito in cui non potevano dare alcun contributo».77

Lucio Lombardo Radice era rimasto in silenzio fino a quel momento, ma ora l’attacco era frontale. Protestandosi non responsabile della brutta piega che avevano preso gli eventi – anzi, dichiarandosi vittima degli stessi – egli stigmatizzava «che il compagno Norberto Bobbio, che critica spesso da sinistra i comunisti, come presidente Norberto Bobbio abbia criticato un comunista sul “Giornale”». Insomma, era il politico Lombardo Radice a parlare, non lo scienziato e divulgatore. Un comunista che non capiva come mai fossero proprio i «compagni», o comunque degli intellettuali che si dichiaravano di sinistra, a polemizzare (come d’altronde era stato fatto per L’ape e l’architetto), facendolo per giunta sul quotidiano dell’ostile Montanelli. I panni sporchi si sarebbero, al massimo, dovuti lavare in casa. Egli si sentiva, sì, «paleomarxista», ma non «stalinista», come aveva polemizzato Firpo, bensì erede di «tutta la cultura elaborata dalla borghesia, secondo gli insegnamenti di Lenin e di Gramsci».78 Era vero, ammetteva, a Torino gli operai si erano scagliati in modo quasi luddistico contro scienza e tecnica, ma non si poteva assolutizzare l’accaduto. A Firenze, ad esempio, in occasione del dibattito seguito all’Ipotesi sulla condanna a morte di A.L. Lavoisier, trasmesso dalla Fondazione Lavoratori Officine Galileo, gli stessi avevano chiesto la collaborazione degli scienziati, i quali avrebbero dovuto una volta buona sporcarsi le mani, come già da trecento anni ingiungeva Galileo.79

In effetti, a partire dalla seconda puntata i toni erano calati. Ciò dipendeva, senz’altro, da un controllo più attento esercitato dagli organizzatori, ma anche da un atteggiamento più “concordista” degli ospiti accademici, che non avevano intenzione di trovarsi in temibili situazioni come quella di Torino e che nei loro discorsi glissavano sull’esistenza stessa di una scienza pura, per enfatizzare le «magnifiche sorti e progressive» di quella applicata. Qualcuno, in privato, avrebbe commentato:

Ho seguite anche le trasmissioni successive del ciclo, nelle quali vi è stato un “crescendo” nella falsificazione dell’idea di scienza, come di un qualcosa che deve servire soltanto alla soluzione dei problemi pratici, in particolare di quelli (pur sacrosanti) della sicurezza nel lavoro. L’ultima trasmissione, di Firenze, ha raggiunto il vertice (se pure questo non verrà superato) con le affermazioni sul carattere classista della scienza (scienza dei padroni e scienza proletaria) e sulla opportunità di limitarne l’autonomia: affermazioni nelle quali si sono trovati d’accordo platea e palcoscenico (il che non mi ha meravigliato, conoscendo almeno l’orientamento dei fisici che sedevano su questo). Per cui mi ero seriamente domandato quale danno verrà dal ripetersi di questo tipo di trasmissioni alla considerazione, già così scarsa, della ricerca scientifica libera e fondamentale in Italia. Il raggiro di cui sei stato vittima porta a ritenere che vi sia una volontà precisa in questo senso.80

Quella di Bobbio era una lettera privata, scritta a ridosso dell’intervento di Firpo su «La Stampa» e tale sarebbe dovuta rimanere. Ciò, almeno formalmente: il presidente, nel suo successivo articolo di risposta a Lombardo Radice, dimenticava infatti di dire che in realtà si trattava di una comunicazione circolare, inviata per conoscenza a tutti i soci dell’Accademia, i quali avrebbero risposto con messaggi di solidarietà così numerosi da riempire una intera cartella.81 Molti erano perplessi per l’ingenuità commessa da chi, come Bobbio, sapeva che le cose non sarebbero potute andare a finire che così. Da Padova, ancora Antonio Rostagni, con grande tatto, considerava che «non l’avrei accettato [il dibattito] all’Istituto Veneto, finché ne ho la responsabilità, come avevo negata a suo tempo, alcuni anni fa, l’aula dell’Istituto di fisica ad uno spettacolo di Dario Fo».82 Dalla stessa Torino, il linguista Giuliano Bonfante invece tuonava:

E siccome costui è comunista (e notorio), meraviglia che tu te ne sia fidato. Se è professore di matematica, è naturalmente prima comunista e poi professore di matematica. Resta dunque in piedi quel che ti dissi della tua ingenuità: che ti aspettavi da un comunista?! Speriamo che la cosa ti serva per l’avvenire. Ma te ne accorgi adesso?83

Con tutto quel parlare, che qualcuno avesse inoltrato la lettera a «Il Giornale Nuovo» non doveva pertanto esser così sorprendente. Forse, sì, il presidente Rai avrebbe dovuto informarne Lombardo Radice, a cui d’altronde Bobbio aveva presentato le proprie rimostranze la sera stessa degli eventi, a trasmissione conclusa, ma la sostanza non cambiava. L’accademico torinese – che, nel frattempo, attraverso una serie di telefonate e una informativa ufficiale dai vertici Rai, aveva realizzato che il matematico romano forse davvero non aveva colpa84 – dichiarava di non voler scendere in polemiche. Nondimeno, sentendovisi tirato per i capelli, precisava che il problema era semplicemente di civiltà e rispetto e che la politica non c’entrava nulla:

Una delle novità dei comunisti italiani è, come tutti sanno, la teoria dell’egemonia. Credo di aver capito che quando i comunisti parlano di egemonia intendono dire che la conquista del potere politico, del mero dominio, deve essere preceduta, da parte della classe che aspira a dirigere la società per una epoca storica, dalla conquista del primato intellettuale e culturale. Ma è un primato, questo, per raggiungere il quale non ci sono facili e rapide scorciatoie. Scorciatoie, invece, mi sono sembrate quelle attraverso cui cercavano di aprirsi la strada con pochi argomenti e con molta arroganza alcuni intervenuti di quella sera. Se nel far parlare gli operai in un’accademia uno degli scopi era quello di mortificare la “boria dei dotti”, bisognava guardarsi dal dare libero sfogo alla boria degli indotti.85

In sintesi, per Bobbio, prima di parlare, occorreva informarsi. In qualche modo paradossale era la situazione che si era venuta a creare: essa vedeva infatti, nei medesimi ambienti di sinistra, storici e filosofi, intellettuali dunque di cultura umanistica, conservare alla scienza uno statuto epistemologico forte, contro i desiderata degli stessi scienziati – ma anche di filosofi e divulgatori della scienza – i quali sembravano, per converso, voler erodere quella extraterritorialità teorica di cui il loro sapere aveva sempre goduto. Gli umanisti, per così dire, accusavano gli scienziati di non credere alla scienza, di rinnegare la forza della razionalità, il che era, per dirla con Paolo Rossi, «il segno di un desiderio di autodistruzione, di un impulso cieco a cancellare la propria storia, di una fuga dalle scelte e dalle responsabilità del mondo reale».86 Ma anche di voler abdicare al ruolo di rischiaramento e guida intellettuale che la cultura accademica aveva conservato, finanche nei fragori del ’68. Mario Bolognani illuminava sul carattere di novità della situazione: «È accaduto questo: che l’operaio ha lottato e lotta per la scienza e la tecnologia, anche senza lo scienziato e il ricercatore, e di questo occorre tener conto, altrimenti non si capisce più la differenza tra il 1968 e il 1977».87

A tirare le somme dell’accaduto si ergeva, a serie conclusa, Francesco Barone, il quale infine inquadrava la polemica nella cornice del dibattito epistemologico che stava animando in quegli anni le discussioni di molti intellettuali italiani. Egli mostrava insofferenza nei confronti di recenti, a suo giudizio ingiustificati, fenomeni editoriali – da L’ape e l’architetto a La neutralità impossibile a Scienza al bivio88 – voluti da «marxisti nostrani», desiderosi, come i telefilm di Lombardo Radice, di porre in discussione la neutralità della scienza. Come al solito, si faceva di tutta l’erba un fascio. Egli però introduceva una interessante precisazione:

Se per non neutralità della scienza si intendesse il carattere storico, alla pari di tutte le altre attività umane, anche dell’attività in cui consiste la ricerca scientifica, sarebbe difficile non riconoscere la fondatezza di tale tesi. Ma si potrebbe in tal caso, nondimeno, ancora obiettare che è equivoco parlare di non neutralità anziché semplicemente di storicità della scienza.89

In fondo, era quanto affermava lo stesso Lombardo Radice, allorché parlava di materialismo storico … Ciò che andava fatto era riguadagnare uno spazio alla storia della scienza, che fosse autonomo rispetto alla storia della filosofia, da una parte, e a quella delle forze produttive, dall’altra. Denunciava Sandro Petruccioli:

Si ricava spesso l’impressione che nelle varie prese di posizione sulla portata e sul significato da dare alla tesi della non-neutralità della scienza, sia proprio la storia della scienza a dover rinunciare ad una propria identità disciplinare. In realtà, a seconda che si intenda rintracciare la logica interna della crescita in una valutazione dei problemi logico-filosofici tipici delle fasi rivoluzionarie e “normali” della sua storia, o si tenda a spostare l’accento sulla determinatezza sociale delle forme di appropriazione scientifiche della natura, la storia della scienza si trasforma di fatto in un capitolo della storia della filosofia, oppure in un’appendice della storia delle forze produttive e dei rapporti sociali.90

La storia della scienza, le cui prime cattedre italiane sarebbero state istituite di lì a una manciata d’anni, avrebbe nei decenni successivi dovuto raccogliere la sfida di dar sostanza all’espressione «storicità della scienza», che all’epoca suonava a molti ancora vaga ed eufemistica.

 

Videografia:

Non ho tempo (1972), regia di Ansano Giannarelli, sceneggiatura di Ansano Giannarelli e Edoardo Sanguineti, consulenza scientifica di Lucio Lombardo Radice e Nicola Lombardi, prima messa in onda, su Rete 2, in tre puntate, martedì 4, 11 e 18 gennaio 1977, durata complessiva della versione televisiva 2h 58min.

Uomini della scienza, a cura di Lucio Lombardo Radice e Ansano Giannarelli:

Il sogno di d’Alembert (1977), regia di Antonio Vergine, sceneggiatura di Aldo e Antonio Vergine, consulenza scientifica di Giorgio Israel e Piero Negrini, prima messa in onda, su Rete 2, giovedì 13 ottobre 1977, durata 1h 11min. Seguito da un dibattito in diretta, sui problemi della divulgazione scientifica, svoltosi presso l’Accademia delle Scienze di Torino, con la moderazione di Lucio Lombardo Radice e interventi di Vincenzo Cappelletti, Laura Conti, Luigi Firpo e Ruggiero Romano.

La ballata dell’abate Spallanzani (1977), regia e sceneggiatura di Massimo Andrioli e Virgilio Tosi, consulenza scientifica di Ernesto Capanna, prima messa in onda, su Rete 2, giovedì 20 ottobre 1977, durata 1h 3min. Seguito da un dibattito in diretta, sulla ricerca biologica e la programmazione della vita, svoltosi presso la Sala Pignatelli di Napoli, con la moderazione di Lucio Lombardo Radice e interventi di Adriano Bompiani, Antonio Calì, Gianfranco Ghiara, Alberto Monroy e Raffaello Causa.

Ipotesi sulla condanna a morte di A.L. Lavoisier (1977), regia di Antonio Vergine, sceneggiatura di Aldo e Antonio Vergine, consulenza scientifica di Giorgio Israel e Piero Negrini, prima messa in onda, su Rete 2, giovedì 27 ottobre 1977, durata 1h 8min. Seguito da un dibattito, sulla neutralità della scienza, svoltosi presso la Fondazione Lavoratori Officine Galileo di Firenze, con la moderazione di Lombardo Radice e interventi di Evandro Agazzi, Marcello Cini, Luigi Mara, Silvano Tagliagambe e Giuliano Toraldo di Francia.

La luminosa carriera del Prof. Volta (1977), regia e sceneggiatura di Massimo Andrioli, consulenza scientifica di Arcangelo Rossi, prima messa in onda, su Rete 2, giovedì 31 novembre 1977, durata 1h 1min. Seguito da un dibattito in diretta, sulla egemonia scientifica e il potere accademico, svoltosi presso il Museo della scienza e della tecnica di Milano, con la moderazione di Lucio Lombardo Radice e interventi di Costantino Anzi, Fortunato Arecchi, Luigi Ruggiu, Paolo Portoghesi, Giovan Battista Zorzoli.

Elogio di Gaspard Monge fatto da lui stesso (1977), regia e sceneggiatura di Ansano Giannarelli, consulenza scientifica di Giorgio Israel e Piero Negrini, prima messa in onda, su Rete 2, giovedì 10 novembre 1977, durata 1h 2min. Seguito da un dibattito in diretta, sulla formazione scientifica e il potere accademico, svoltosi presso l’Istituto tecnico Lagrange di Roma, con la moderazione di Lucio Lombardo Radice e interventi di Gian Piero Bassetti, Lino Lauri, Giuseppe Medusa, Giovanni Satta, Bruno Trentin.

 

 

Note

1. L. Bruno (a cura di), L’impegno culturale e pedagogico di Giuseppe e Lucio Lombardo Radice, Catania, Cuecm, 1987.

2. L. Lombardo Radice, Taccuino pedagogico, a cura di L. Benini Mussi, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 80, 102-103.

3. L. Lombardo Radice, Prefazione, in Istituzioni di algebra astratta, Milano, Feltrinelli, 1965, p. X.

4. Per ogni riferimento biografico si rinvia a L. Benini Mussi, Introduzione, in L. Lombardo Radice, Taccuino pedagogico, cit., pp. 1-54; A. Vittoria e P. Ceccherini, Lombardo Radice, Lucio, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2005, vol. 26, pp. 544-548. Un testo con contributi molto diversi, che cercano di inquadrare lo sforzo di Lombardo Radice volto a superare le due culture è AA. VV., L’unità della cultura. In memoria di Lucio Lombardo Radice, Bari, Dedalo, 1985. Su Lombardo Radice matematico e divulgatore della matematica si rinvia invece a G. Israel, Lucio Lombardo Radice e la presenza della matematica italiana nella cultura italiana del nostro secolo, in La matematica nella cultura contemporanea, a cura di A. Brigaglia, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia Editore, 1985, pp. 7-28.

5. L. Lombardo Radice, Per una scuola operaia, in «L’Unità», 9 agosto 1944.

6. L. Lombardo Radice, La ricerca di una avanguardia operaia, in AA.VV., A scuola come in fabbrica, Milano, Vangelista, 1978, p. 10.

7. E. Taviani, Lucio Lombardo radice e gli intellettuali del dissenso, in «Studi storici», 3, 2004, pp. 837-871; A. Criscenti Grassi, Educare alla democrazia. Pedagogia e politica in Lucio Lombardo Radice e Dina Bertoni Jovine, Catania, Bonanno, 2005, pp. 45-80.

8. L. Lombardo Radice, Educazione e rivoluzione, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 21.

9. L. Lombardo Radice, L’educazione della mente, Roma, Editori Riuniti, 1962; ried. 1971, p. 17.

10. Ivi, pp. 188-89.

11. L. Lombardo Radice, L’interdisciplinarità. Perché e come, in AA.VV., Insegnamento. Contenuti e metodo, Milano, Isedi, 1978, p. 97.

12. L. Lombardo Radice, L’educazione della mente, cit., p. 167.

13. Ivi, pp. 198-99.

14. Una curiosità: nel 1961 Lombardo Radice, che all’epoca insegnava a Palermo, partecipò tra gli esperti del “pensatoio”, allorché Campanile Sera sbarcò a Monreale. Tra le trasmissioni di cui egli fu autore, si ricordano: Dall’uno all’infinito (1971), una serie di 12 puntate di introduzione alla matematica, scritto con Angelo D’Alessandro; Le rivoluzioni della scienza (1972): 4 puntate – La rivoluzione eliocentrica (da Tolomeo a Copernico); La rivoluzione atomistica (da Democrito a Bohr); La rivoluzione evoluzionistica (Da Linneo a Darwin); La seconda rivoluzione fisica (da Newton ad Einstein) – destinate ad un pubblico di studenti liceali, scritte con Delfino Insolera (e con altri collaboratori) e dirette da Virgilio Tosi; Scrivere con le immagini (1981), in collaborazione con Arminia Maida e rivolto agli studenti delle scuole medie, chiamati a produrre dei cortometraggi (benché il nome del matematico in genere non appaia nei credit). Sul contesto si rinvia a R. Farné, Buona maestra tv. La Rai e l’educazione da “Non è mai troppo tardi” a “Quark”, Roma, Carocci, 2003; F.P. de Ceglia, La scienza al cinema, alla radio, in televisione, in Annali della Storia d’Italia, vol. 26, Scienze e cultura dell’Italia unita, a cura di F. Cassata e C. Pogliano, Torino, Einaudi, 2011, pp. 321-348. Nell’archivio di Lombardo Radice si trova anche un appunto, su carta della Reiac Film, che lascerebbe intuire l’esistenza del progetto di un programma sulla vita del matematico Renato Caccioppoli, che, a quanto pare, non venne mai realizzato. Archivio della Fondazione Istituto Gramsci, Lucio Lombardo Radice (da ora in poi ALLR), Carte di lavoro, Programmi televisivi, Film tv [e] cinema (Non ho tempo).

15. M. Fantoni Minella, Non riconciliati. Politica e società nel cinema italiano dal neorealismo a oggi, Torino, Utet, 2004, p. 338.

16. G. Haustrate, Non ho tempo, in XXVI Festival International du Film de Cannes 1973, Semaine internationales de la critique française, Cannes, S.I.C., 1973, pp. non numerate.

17. A. Giannarelli, La pellicola su Galois illustrata dal regista, in «La Stampa», 1° aprile 1973. Si ricordi tuttavia che ad interpretare il ruolo del presidente del tribunale rimase il già citato Nicola Lombardi.

18. Lettera di A. Giannarelli a L. Lombardo Radice, Roma, 2 giugno 1974, ALLR, Corrispondenza, Ge-Gi, Giannarelli.

19. I. Cipriani, Tv recidiva: rimandato “Non ho tempo”, in «Paese Sera», 1° giugno 1974.

20. I. Cipriani, Galois, matematico e rivoluzionario, in «Rinascita», 4, 28 gennaio 1977, p. 36.

21. L. Lombardo Radice, Libertà per Evaristo, in «L’Unità», 30 giugno 1974.

22. N. Ferrero, Galois rivive in “Non ho tempo”, in «L’Unità» (edizione di Milano), 25 marzo 1973. Già in Non ho tempo comunque, il discorso pronunciato da Filippo Bonarroti è composto di brani di opere di Marx ed Engels.

23. Tra le recensioni, si segnalano: I. Cipriani, “Non ho tempo”: Cinque anni in anticamera, in «Paese Sera», 5 gennaio 1977; N. Ginzburg, Matematico rivoluzionario, in «Corriere della Sera», 5 gennaio 1977; Vice, Matematico francese in difesa del popolo, in «La Stampa», 5 gennaio 1977; M. Doletti, Galois, ovvero algebra e politica, in «Il Tempo», 5 gennaio 1977.

24. Note sono le vicende narrate nel film: Galois, dopo aver tentato due volte di essere ammesso all’École polytechnique, si iscrisse al Collège Royal Louis-le-Grand, dove, a causa della sua insofferenza per ogni convenzione, entrò in conflitto con alcuni docenti. L’adesione alle idee repubblicane gli costò due processi, il secondo dei quali si concluse con una condanna a sei mesi di carcere. Poi una tormentata storia d’amore e il duello, celebrato non si sa bene per quale motivo, nel corso del quale egli perse la vita, il 31 maggio 1832. Sull’argomento si rinvia a L. Infeld, 13 ore per l’immortalità, Milano, Feltrinelli, 1957.

25. Critiche contro la «la negazione di ogni ricercatezza formale [che] si fa ricercatezza essa stessa» e la recitazione di Garriba si trovano, ad esempio, in (Anonimo) Non ho tempo, «Il Messaggero», 14 aprile 1973; S., Abbiamo Visto, in «Il Popolo», 5 gennaio 1977.

26. A. Santuari, Arriva sugli schermi l’inventore dell’algebra, in «Paese Sera», 12 aprile 1973.

27. M. Emmer, Numeri immaginari. Cinema e matematica, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, p. 179.

28. L.P., Un matematico rivoluzionario, in «La Stampa», 31 marzo 1973.

29. B. Brecht, Sulla “Vita di Galileo”, in Vita di Galileo, Torino, Einaudi, 1963, pp. 133-45.

30. A. Moravia, Al cinema. Centoquarantotto film d’autore, Milano, Bompiani, 1975, pp. 280-83, in particolare p. 281. Il film era mostrato in occasione di infauste ricorrenze per innescare il dibattito. Ad esempio, da una lettera di Cesare Trebeschi a Lombardo Radice, datata Brescia, 10 gennaio 1977, si viene a sapere che esso venne proiettato proprio nella città lombarda in occasione del secondo anniversario della strage di Piazza della Loggia. ALLR, Corrispondenza, Tau-Tu, Trebeschi.

31. Sul suo impegno come attore si veda C. Laurenzi, Illustre professore di algebra in cattedra anche sullo schermo, in «Corriere della Sera», 24 maggio 1973. Laurenzi colloca Lombardo Radice in continuità con alcuni suoi “predecessori”, come il filologo Carlo Battisti, protagonista di Umberto D. (1952), di Vittorio De Sica, e con i molti intellettuali che avevano interpretato dei cammei in Il Vangelo secondo Matteo (1964), di Pier Paolo Pasolini. G. Grassi, Chissà che faccia faranno i miei colleghi professori, in «Domenica del Corriere», 26 settembre 1972. Appena uscito l’articolo, Lombardo Radice rimproverò la giornalista, che aveva infarcito il pezzo di errori e considerazioni inappropriate. Nonostante lo avesse fatto in toni più che bonari, anni dopo, sulla lettera avrebbe apposto un commento autocritico: «Poveretta, c’è rimasta malissimo. Brutta lettera, di “accademici” colla puzza sotto il naso. 3 novembre 1975». ALLR, Corrispondenza, Gr-Gu, Grassi.

32. I. Musiani, Professione: scienziati, in «Paese Sera», 5 gennaio 1977. Sulla stessa conferenza stampa si veda (Anonimo), Processo in televisione agli “uomini della scienza”, in «Il Giorno», 5 gennaio 1977; (Anonimo), Tutti gli uomini della scienza, in «Il Tempo», 5 gennaio 1977; A. Gangarossa, Sei registi per sei scienziati, in «Il Messaggero», 5 gennaio 1977.

33. Uomini della scienza, Proposta di Ansano Giannarelli e Lucio Lombardo Radice, marzo 1972. ALLR, Corrispondenza, Ge-Gi, Giannarelli.

34. Uomini della scienza, Proposta di una serie di telefilm […], ALLR, Carte di lavoro, Programmi televisivi, Uomini della scienza.

35. G. Cesareo, La scienza vista dalla Tv, in «L’Unità», 15 settembre 1977.

36. L. Seno, Cinque scienziati per la Tv, in «L’Unità», 20 ottobre 1977.

37. P. Cascella, La scienza fa spettacolo in Tv, in «L’Unità», 15 gennaio 1977. Per approfondire tale interpretazione si vedano i contributi che sull’argomento scrissero alcuni dei consulenti scientifici di Uomini della scienza: G. Israel e P. Negrini La rivoluzione francese e la scienza, in «Scientia», 108, 1973, pp. 41-53, 357-375; A. Baracca e A. Rossi, Scienza e rivoluzione borghese. 1789: Prassi e organizzazione della scienza, in «Sapere», 75, 10, 1974, pp. 46-52.

38. L. Lombardo Radice, Educazione e rivoluzione, cit., p. 27.

39. L. Lombardo Radice, Non tanto moderni, quanto rivoluzionari, in «Riforma della scuola», n. 1-2, 1966, p. 52.

40. Lettera di A. Giannarelli a L. Lombardo Radice, Roma, 3 dicembre 1976, ALLR, Carte di lavoro, Programmi televisivi, Tv Reiac. Sono conservate, per i tutti i telefilm delle serie, varie versioni delle sceneggiature. Nel d’Alembert, ad esempio, i tre principi del moto, spiegati, con l’ausilio di grafici, in una bozza (pp. 18-23), sono eliminati in una successiva. È conservata anche la sceneggiatura, con annotazioni di Lombardo Radice, del mai realizzato Watt. Esso prevedeva la regia di Riccardo Napolitano e la consulenza scientifica di Angelo Baracca.

41. G. Cesareo, Scienza e masse, in «L’Unità», 15 ottobre 1977; F. Brunetti, Il linguaggio della scienza, in «L’Unità», 31 ottobre 1977.

42. C. Castellani, Lettera al direttore, in «L’Unità», 4 novembre 1977. Si ricordi che proprio in quei mesi Carlo Castellani stava curando le Opere scelte di Spallanzani, che sarebbero state pubblicate l’anno successivo.

43. Lettera di G. Jarre a N. Bobbio, [Torino], 21 ottobre 1977, Archivio Norberto Bobbio, Stanza Studio Bobbio, 21. Accademia delle Scienze, 107, Faldone 31, Dibattito su una trasmissione RAI sul film Il sogno di d’Alembert, 13 ottobre 1977, Il fattaccio dell’Accademia. Da ora in poi ci si riferirà a tale cartella con ANB, SB, 107, 31.

44. L. Lombardo Radice, Risposta al Prof. Castellani, in «L’Unità», 4 novembre 1977. Nell’articolo Lombardo Radice dichiarava di aver ricevuto una lettera di apprezzamento da parte di Giuseppe Montalenti.

45. U. Buzzolan, L’abate Spallanzani, i rospi e le lumache, in «La Stampa», 21 ottobre 1977.

46. Uomini della scienza. Pro-memoria, 1° dicembre 1976, ALLR, Carte di lavoro, Programmi televisivi, Uomini della scienza.

47. Sulle scelte fatte dalla Reiac Film per sfruttare al massimo le esigue risorse e i limitatissimi tempi di produzione, si rinvia a un documento non datato, intitolato Relazione sull’impostazione produttiva della serie “Uomini della scienza”, ALLR, Carte di lavoro, Programmi televisivi, Tv Reiac.

48. R. Terrosi, Sei scienziati dell’illuminismo, in «L’Osservatore Romano», 15 gennaio 1977.

49. G. Ciccotti, M. Cini, M. de Maria e G. Jona-Lasinio, L’ape e l’architetto. Paradigmi scientifici e materialismo storico, Milano, Feltrinelli, 1976; ried. Milano, F. Angeli-Bicocca, 2011. Significative intuizioni sulla non neutralità della scienza si trovavano già, un decennio prima, nei «Quaderni Rossi» di Raniero Panzeri. Non si può in questa sede dar conto del complesso dibattito cui la pubblicazione de L’ape e l’architetto diede avvio. Si rinvia per semplicità a P. Caprioli, Pro o contro la scienza (intorno a una polemica), in «Università degli studi di Lecce. Bollettino di storia della filosofia», 4, 1976, pp. 287-307. Agli interventi menzionati da Caprioli occorrerebbe, se non altro, aggiungere gli articoli sul significato della razionalità scientifica, pubblicati per tutto il ’76 su «Rinascita».

50. M. d’Eramo, Quando la sinistra non fu più scientista, in «il Manifesto», 6 settembre 2011.

51. L. Colletti, La dea Sragione, in «L’Espresso», 2 maggio 1976.

52. Sul materialismo dialettico si veda L. Geymonat, Critica della scienza e lotta politica, in «Scientia», 57, 7-8, 1973, pp. 599-605. La polemica con il gruppo di Cini era stata recentemente alimentata, tra l’altro, dalla pubblicazione di Attualità del materialismo dialettico, a cura di E. Bellone, L. Geymonat, G. Giorello e S. Tagliagambe, Roma, Editori Riuniti, 1974. In un suo scritto teorico proprio del ’77, Geymonat denunciava «il carattere illusorio e utopistico della battaglia che alcuni pretenderebbero di ingaggiare contro la scienza e la tecnica », al contrario convinto «che l’incremento di spirito critico causato dallo sviluppo della razionalità scientifica è proprio in grado di fornirci strumenti sempre più raffinati per l’analisi della società in cui viviamo, e in particolare per l’analisi delle radici profonde delle sue contraddizioni ». L. Geymonat, Scienza e realismo, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 111. Qualche anno dopo, avrebbe chiosato: «Se ci si limita a sostenere un condizionamento del lavoro dello scienziato da parte della società dell’epoca in cui egli vive, non ho obiezioni […]. Diverso è però sostenere che le teorie scientifiche possano essere direttamente determinate dalla situazione sociale, per quanto riguarda i loro contenuti. Questa tesi […] mi sembra […] semplicemente sciocca […]». L. Geymonat, Paradossi e rivoluzioni. Intervista su scienza e politica, a cura di G. Giorello e M. Mondadori, Milano, il Saggiatore, 1979, p. 89.

53. L. Lombardo Radice, Ma Lenin non basta, in «La Repubblica», 6 maggio 1976.

54. G. Israel, La scienza come progetto per la società, in «Rinascita», 33, 20 agosto 1976, pp. 23-25.

55. Oltre trent’anni dopo, Pietro Rossi avrebbe ancora messo le posizioni di Lombardo Radice in stretto rapporto con quelle di Cini. P. Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul pensiero italiano del novecento, Bologna, il Mulino, 2009, pp. 283-317. Paolo Rossi fornì un resoconto assai partecipato dei rapporti tra scienza e marxismo nell’Italia dell’epoca. P. Rossi, Italo-marxismo, scienza e società, in I ragni e le formiche. Un’apologia della storia della scienza, Bologna, il Mulino, 1986, pp. 229-247. Altrettanto partecipato fu il quadro tratteggiato da Marcello Lelli, che addivenne però a conclusioni opposte. M. Lelli, Marxismo, scienza, compromesso storico (ovvero: il ronzio fastidioso di un’ape), in «La Critica Sociologica», 38, 1976, pp. 23-40.

56. Anonimo, La scienza contro il potere, in «Repubblica», 5 gennaio 1977.

57. F. Barone, Neutralità della scienza, in «La Stampa», 6 dicembre 1977.

58. G. Israel, La crisi dell’ottimismo scientista e i diritti della ragione, in «Rinascita», 19, 9 maggio 1975, pp. 25-27.

59. Lettera di L. Lombardo Radice alla redazione di «Rinascita», Roma, 24 giugno 1975, ALLR, Corrispondenza, Ro-Ru, Rossi. Lombardo Radice, che comunque avrebbe sempre mantenuto ottimi rapporti con Geymonat, aveva in mente le difficoltà incontrate dalla pubblicazione della seconda parte di A. Rossi, Le due strade della fisica, I, in «Scientia», 7-8, 1973, pp. 543-564, e II, in «Scientia», 8-9, 1974, pp. 801-826.

60. Uomini della scienza. Pro-memoria, 1° dicembre 1976, ALLR, Carte di lavoro, Programmi televisivi, Uomini della scienza.

61. L. Firpo, Di una mistificazione sulla scienza operaia, in «La Stampa», 16 ottobre 1997. Dello stesso tenore, G. Cesareo, Scienza e masse, cit.

62. G. Rodari, A porte aperte. L’operaio e la scienza, in «Paese Sera», 16 ottobre 1977.

63. G. Cesareo, Scosso il rito delle tavole rotonde in tv, in «L’Unità», 12 novembre 1977.

64. Lettera di A. Rostagni a N. Bobbio, Padova, 31 ottobre 1977, ANB, SB, 107, 31.

65. Lettera di U. Zatterin a P. Grassi, Torino, 27 ottobre 1977, ANB, SB, 107, 31.

66. Sulle considerazioni e sulla battaglia di Laura Conti l’indomani dell’incidente di Seveso, si rinvia a C. Certomà, Laura Conti: alle radici dell’ecologia, in Laura Conti, a cura di C. Certomà, Morciano di Romagna, Biblioteca del Cigno, 2012, pp. 15-86.

67. L. Conti, Visto da Seveso. L’evento straordinario e l’ordinaria amministrazione, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 72.

68. P. Rossi, La scienza operaia non esiste, in «Il Giorno», 15 ottobre 1977.

69. L. Conti, Il topo e la scienza, in «L’Unità», 19 ottobre 1977. L’orrore per la condizione di esseri umani usati come cavie da laboratorio fu costante negli scritti di Laura Conti. Riferendosi agli erbicidi contenenti diossina impiegati in Vietnam, responsabili di gravi conseguenze tra le popolazioni locali, commentò: «Gli scienziati guardano soltanto la letteratura scientifica, [mentre] le esperienze che sulla sua carne ha portato un popolo, questo per gli scienziati non ha significato […] perché non sono stati redatti protocolli, perché non sono state fatte le analisi». L. Conti, Situazione determinatasi nella zona di Seveso in seguito alla nube tossica, Seduta del Consiglio Regionale della Regione Lombardia, 27 luglio 1976, in Laura Conti, cit., p. 36. Verosimilmente su tale avversione aveva influito anche il suo vissuto di detenuta nel campo di transito di Bolzano, da cui solo fortunosamente aveva evitato la deportazione in Germania: «Un campo di concentramento è una condizione sperimentale; come per un grande esperimento di laboratorio, viene preparato un terreno sterile, spoglio di circostanze accessorie e incidentali, così che il fenomeno sottoposto all’indagine possa svolgersi, per così dire, in tutta purezza: via i batteri, via i sentimenti; via le sostanze chimiche che potrebbero alterare le reazioni, via ogni contatto che non sia quello tra la struttura SS e l’internato. In questa essenzialità così nuda e asettica, le condizioni di fondo vengono, per contro, estremizzate: il termine di confronto, la pietra di paragone, è sempre uguale e assoluta, è la morte». L. Conti, La condizione sperimentale, Milano, Mondadori, 1965, p. 101.

70. Si ricordi un classico come D.H. Meadows, D.L. Meadows, J.Randers, W.W. Behrens, I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano, 1972. Elaborato dal MIT, su commissione del Club di Roma, presentava una simulazione informatica del futuro della Terra e delle condizioni di vita dei suoi abitanti.

71. L. Firpo, Di una mistificazione sulla scienza operaia, cit.

72. Al contrario, proprio Lombardo Radice per la promozione delle 150 ore si era speso a livello sia politico sia teorico. Su quest’ultimo aspetto si rinvia a L. Lombardo Radice, Specializzazione e interdisciplinarità, in AA. VV., Didattica delle 150 ore, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 168-182.

73. G. Rodari, A porte aperte, cit. Le parole di Rodari sarebbero state riprese da Alberto Izzo e portate alle estreme conseguenze, già intravviste da Firpo: di produzione autonoma di scienza nelle fabbriche era inutile parlare, ma anche sul piano della cultura in generale i risultati delle 150 ore erano stati deludenti. Gli slogan degli operai non rivelavano alcuna elaborazione autonoma: erano invece il frutto delle proiezioni-manipolazioni di quegli intellettuali che li «ammaestravano». A. Izzo, Operai e intellettuali in un dibattito televisivo, in «La critica sociologica», 43, 1977, pp. 223-225.

74. Lettera di L. Geymonat a N. Bobbio, Milano, 25 ottobre 1977, ANB, SB, 107, 31.

75. Il riferimento è ad uno dei classici più controversi, Ch. P. Snow, Le due culture, Milano, Feltrinelli, 1964. Alla traduzione italiana era stato proprio Ludovico Geymonat ad aggiungere una prefazione, in cui aveva precisato che il vero problema era la eccessiva settorializzazione dei saperi. Sull’argomento si veda P. Antonello, Un inglese in Italia: Charles Percy Snow, le due culture e il dibattito degli anni sessanta, in Pianeta Galileo. Atti 2009, a cura di A. Peruzzi, Firenze, Consiglio Regionale della Toscana, 2010, pp. 515-529.

76. L. Geymonat, Professore, vada in fabbrica, in «Corriere della Sera», 21 ottobre 1977. Una posizione assai simile a quella di Geymonat sarebbe sta espressa da I. Cipriani, Scienziati, operai e telespettatori, in «Rinascita», 45, 18 novembre 1977, pp. 36-37. Ai problemi della scuola e delle 150 ore sarebbe stato dedicato quasi per intero l’ultimo dibattito, del 10 novembre, in coda all’Elogio di Gaspard Monge fatto da lui stesso. Sull’argomento si veda S. Grussu, Le 150 ore non sono la nuova scienza, in «L’Unità», 17 novembre 1977.

77. N. Bobbio, L’Accademia ingannata, in «Il Giornale Nuovo», 9 novembre 1977. Copia della lettera, datata 15 ottobre 1977, è in ANB, SB, 107, 31.

78. Insistendo sul volersi riappropriare di tutta la cultura borghese (contemporanea), Lombardo Radice prendeva le distanze dalle posizioni di Geymonat, che la rigettava, accusandola di essere una «non cultura». L. Geymonat, È finito il tempo dei processi a Galileo, in «Rinascita», 5, 31 gennaio 1975, pp. 14-15.

79. L. Lombardo Radice, Se l’Accademia deve restare nella sua torre d’avorio, in «La Repubblica», 10 novembre 1977.

80. Lettera di A. Rostagni a N. Bobbio, cit.

81. La cartella contiene un foglietto di appunti e la lettera di Bobbio, ritagli di giornale e le missive di Enzo Beneo, Gilberto Bernardini, Giuliano Bonfante, Enrico Cerulli, Sergio Cotta, Alessandro Faedo, Ludovico Geymonat, Giovanni Jarre, Nino Marinone, Florindo Pirone, Antonio Rostagni, Giovanni Someda, Sergio Steve, Giuseppe Tucci e una corrispondente non identificata. Tranne Geymonat, tutti espressero una solidarietà incondizionata a Bobbio, talvolta anche con parole pesanti.

82. Lettera di A. Rostagni a N. Bobbio, cit.

83. Lettera di G. Bonfante a N. Bobbio, Torino, 15 novembre 1977, ANB, SB, 107, 31. L’enfasi è nella lettera.

84. Lettera di U. Zatterin a P. Grassi, Torino, 27 ottobre 1977, ANB, SB, 107, 31. Copia della lettera, che attribuiva una certa responsabilità al regista Antonio Vergine, il quale da Roma aveva portato a Torino 60 nuovi inviti, che non erano passati al vaglio dell’Accademia, fu inoltrata da Grassi a Bobbio. Il fascicolo contiene anche degli appunti – a dire il vero, assai poco leggibili – di mano dello stesso Bobbio, in cui si ricapitolano i momenti di preparazione dell’evento e si elencano le numerose telefonate di quei giorni. La questione non è tuttavia chiara, perché gli organizzatori avevano espresso l’intenzione di coinvolgere i sindacati sin da tempi non sospetti: «Già nella riunione del 6 novembre, da parte di alcuni presenti è stata sottolineata l’esigenza di non scegliere esclusivamente addetti ai lavori o personalità accademiche, ma di puntare alla partecipazione – ovviamente motivata – anche di rappresentanti di altre aggregazioni (per esempio i sindacati)». Uomini della scienza. Pro-memoria, 1° dicembre 1976, ALLR, Carte di lavoro, Programmi televisivi, Uomini della scienza. A Roma è d’altronde conservata una lettera di Giannarelli a Lombardo Radice, datata Roma, 11 ottobre 1977, a dire il vero suscettibile di non univoche interpretazioni: «Troverai qui allegate le copie delle lettere per i partecipanti ai dibattiti, che dovresti firmare in modo che poi possiamo spedirle. Quelle del primo dibattito le ho già fatte partire, con un mio biglietto allegato in cui spiegavo perché non erano firmate di tuo pugno. Ho fatto – come tu mi avevi autorizzato – qualche integrazione. Anche a nome di Marina Tartara [capostruttura Rai], ti ringrazio di aver avuto questa idea». ALLR, Carte di lavoro, Programmi televisivi, Uomini della scienza.

85. N. Bobbio, Quando all’Accademia si fa cultura, in «La Stampa», 12 novembre 1977. Il giorno dopo, la pagina scientifica di «Paese Sera» sarebbe stata quasi interamente dedicata alla trascrizione di un dibattito tra Lombardo Radice, Tecce, Rodari Adriana Buffardi, segretaria della CGIL-Scuola, e il microbiologo Franco Graziosi. I convenuti, pur non trovando un vero accordo, avrebbero ancora parlato del rapporto tra università, scienza e società. La scienza a puntate proposta in televisione, in «Paese Sera», 13 novembre 1977.

86. P. Rossi, Aspetti della rivoluzione scientifica, Napoli, Morano, 1971, p. 27.

87. M. Bolognani, I produttori e la ricerca, in «L’Unità», 25 ottobre 1977. Sull’eredità del ’68 si rinvia a A. Guerraggio, Il ’68 italiano e la scienza. Premesse e contesti, in «Pristem/Storia», 27-28, 2011, pp. 3-30.

88. G. Ciccotti, M. Cini, M. de Maria e G. Jona-Lasinio, L’ape e l’architetto, cit.; M.A. Bonfantini e M. Macciò, La neutralità impossibile, Milano, Mazzotta, 1977; AA.VV., Scienza al bivio, Bari, De Donato, 1977. Una bella rassegna dell’editoria scientifica italiana nel 1977 è in G. Angeloni e L. Seno, Il «boom» delle scienze, in «L’Unità», 14 dicembre 1977. Dell’anno precedente era stato A. Baracca e A. Rossi, Marxismo e scienze naturali, Bari, De Donato, 1976, mentre tra il ’79 e l’83 sarebbe stata pubblicata una rivista di critica radicale della scienza come «Testi & Contesti». Sull’argomento si veda A. Rossi, L’esperienza di “Testi & Contesti,” in «Pristem/Storia», 27-28, 2011, pp. 87-96.

89. F. Barone, Neutralità della scienza, cit.

90. S. Petruccioli, Esiste una posizione “di sinistra” della scienza?, in «Rinascita», 45, 18 novembre 1977, pp. 34-35.