Intervista ad Archimede

Archimede è stato non solo l'eroe della Matematica greca, ma il più grande matematico che sia mai vissuto. Le sue invenzioni continuano a essere di uso comune nella nostra vita quotidiana, dalla leva al pallone da calcio.

Alcune delle sue espressioni sono passate alla storia: dall'Eureka! che esclamò quando, immergendosi nella vasca da bagno, scoprì il principio che oggi porta il suo nome, alla sfida del datemi un punto di appoggio e vi solleverò il mondo.
Il grande matematico visse a Siracusa fra il 287 e il 212 a.C. e morì per mano di un soldato romano, quando la città fu espugnata da Marcello e saccheggiata dai legionari. La sua tomba, ritrovata nel 75 d.C. da Cicerone, è oggi andata perduta. Non così la memoria dei suoi spettacolari risultati scientifici.
Spezzando un silenzio che durava da secoli, Archimede ha acconsentito a concederci un'intervista esclusiva, nella quale parla non solo del passato ma anche del presente della Matematica.

Comincerei dal suo lavoro, se permette. Qual è il risultato al quale si sente più affezionato o che considera il suo migliore?

Il calcolo della superficie e del volume della sfera. Non solo per la perfezione della figura, alla quale il problema si riferiva, ma anche per la bellezza della soluzione. Ho scoperto che, se si paragona la sfera a un cilindro che la contiene esattamente, il rapporto tra la superficie della sfera e quella del cilindro è di due terzi. E anche il rapporto fra i volumi è lo stesso! Sono stato tanto soddisfatto di questo risultato, che ho chiesto che sulla mia tomba venisse scolpita una sfera dentro un cilindro, con la scritta due terzi. Il tempo si è mangiato la lapide, ma non il teorema.

 

Quale risultato le è costato invece la maggior fatica?

Il calcolo delle prime due cifre dello sviluppo decimale di pi (greco, n.d.r.). Ho dovuto approssimare il cerchio mediante poligoni con un numero sempre maggiore di lati, da dentro e da fuori, partendo da 6 lati e raddoppiandoli via via, fino ad arrivare a 96. Ho faticato e sofferto come un atleta delle Olimpiadi. Se mi avessero dato una corona di alloro, mi sarebbe piaciuto che avesse quattordici foglie.

E il risultato che l'ha divertita di più?

Certamente il calcolo di quanti granelli di sabbia ci vorrebbero per riempire l'universo. Deve pensare che il massimo numero per il quale noi Greci avevamo un nome era la miriade, che voi chiamate diecimila. Naturalmente potevamo parlare di miriadi di miriadi o di miriadi di miriadi di miriadi, ma non era certo comodo. E per i granelli di sabbia, avremmo dovuto ripetere miriadi una miriade di volte. Così ho inventato un sistema di notazione per i grandi numeri, che arrivava fino a quello che per voi è dieci alla dieci alla diciassette e che io chiamavo una miriade di miriadi di unità del miriade-miriadesimo ordine del miriade-miriadesimo periodo. Sono orgoglioso di poter dire che solo nel 1933 un matematico, di nome Samuel Skewes, ha avuto bisogno di un numero più grande.

 

Se lei acconsente, vorrei chiederle alcuni pareri sulla Matematica moderna. Anzitutto, si sente a suo agio con i concetti dell'Analisi, in particolare con quello di limite?

Perfettamente. In realtà, sono stato io stesso a introdurli, quando ho mostrato che in un cerchio il rapporto tra la circonferenza e il raggio è il doppio del rapporto tra l'area e il raggio al quadrato. Euclide aveva già dimostrato che i due rapporti erano delle costanti ma, per scoprire la loro relazione, c'era appunto bisogno di un passaggio al limite. Questo metodo, che ho usato spesso per trovare i miei risultati, era però troppo progressista per i miei contemporanei. Le dimostrazioni, dunque, ho preferito formularle in maniera più convenzionale. Oggi, naturalmente, non dovrei più dissimulare il mio pensiero.

E per quanto riguarda l'infinito, tipico della Matematica moderna? Voi Greci lo temevate, mi sembra.

Non si trattava di timore, ma di prudenza. I paradossi di Zenone avevano mostrato che il concetto era problematico. C'era il rischio di cadere in contraddizioni che, puntualmente, si sono presentate ai miei successori. Noi abbiamo preferito limitarci all'illimitato, se mi permette il gioco di parole. Oggi non avrei niente in contrario all'infinito attuale, che d'altronde usavo di nascosto, come ho accennato.

Lei è in grado di capire i problemi aperti della Matematica moderna o li sente irrimediabilmente alieni?

Potrei sbagliarmi, ma mi sembra che i problemi che interessano voi non siano poi così distanti da quelli che interessavano noi. Ad esempio, io studiavo la sfera a due dimensioni; la congettura di Poincaré chiede di caratterizzare quella a tre dimensioni. Per non rimanere sempre sul personale, Euclide aveva dimostrato che i numeri primi sono infiniti; l'ipotesi di Riemann si preoccupa della loro distribuzione. Non c'è una gran differenza, no? D'altronde, gli oggetti della Matematica sono sempre quelli.

 

Forse ha sentito parlare dei teoremi di Gödel, che mostrano l'incompletezza della Matematica. Questi, almeno, saranno stati una grossa sorpresa per lei?

Lei mi sembra così certo delle novità della Matematica moderna, che rischio di deluderla. In realtà, i risultati a cui allude si possono benissimo capire conoscendo anche solo il teorema di Pitagora. Mi permetta di fare una domanda a lei, a questo proposito: ci sono numeri che elevati al quadrato danno come risultato 2?


Beh, dipende. Non ce ne sono di razionali, ma ce ne sono di reali.

Appunto. Il che significa che la risposta alla mia domanda non può essere decisa sulla base di proprietà che siano vere sia per i numeri razionali, che per quelli reali. Non è forse questa una forma del famoso teorema a cui lei allude? Gödel ha solo dimostrato che ci sono domande la cui risposta non si può decidere sulla base di proprietà che siano vere per i numeri razionali (o interi, se preferisce). È un bellissimo risultato, intendiamoci. Volevo solo dire che noi Greci possiamo capirne l'enunciato. E anche la dimostrazione, che mi pare semplicemente basata sul motto di Pitagora che tutto è numero.

E dei calcolatori, che cosa pensa?

Che mi avrebbero semplificato la vita, in certe occasioni. Ad esempio, nel calcolo di pi (greco, n.d.r.). Ma, soprattutto, mi avrebbero permesso di determinare il numero dei capi della mandria del Sole in Sicilia: un problema già posto in una forma semplice da Omero nell'Odissea (XII, 164-168, n.d.r.). Io l'ho generalizzato senza riuscire a risolverlo, ma non per colpa mia. Il computer ha permesso di determinare, nel 1965, che la soluzione è un numero di più di 200.000 cifre! Troppo grande perchè chiunque potesse trovarlo a mano. Ma non così grande da non poter essere espresso nel mio sistema di notazioni. Il che mi consola, perchè significa che ho fatto tutto ciò che era umanamente possibile per risolvere il problema.

Per finire, la sua immagine appare sulla Medaglia Fields, che costituisce il riconoscimento più ambito per i matematici moderni. C'è anche la scritta Transire suum pectus mundoque potiri ("Trascendere le limitazioni umane e padroneggiare l'universo"). Ci si riconosce?

Non troppo, direi. Non è la mia lingua e non solo in senso letterale. Noi Greci non volevamo affatto trascendere l'uomo o padroneggiare la natura. Ci sentivamo parte di essa e cercavamo solo di comprenderla usando la ragione. Quella scritta mi sembra l'espressione più della vostra scienza che della mia. Questo, sì, è un aspetto della modernità che non condivido.