La modernità di Paolo Volponi

Paolo Volponi è stato uno dei protagonisti (spesso dimenticati) del secolo scorso. La sua attività di scrittore e intellettuale al servizio del mondo del lavoro si colloca in una esperienza culturale ben più ampia che ha caratterizzato il nostro Paese a partire dagli anni Sessanta: il cosiddetto romanzo industriale, che vedeva impegnati grandi esponenti della cultura al servizio di grandi aziende. Ma un aspetto fondamentale dell’opera di Volponi fu anche il suo impegno politico che esplicitò durante la sua decennale permanenza in Parlamento. A questa fase della sua vita è dedicato il volume Parlamenti (a cura di Emanuele Zinato, Ediesse, 2011) che raccoglie gli interventi in Aula di Paolo Volponi. Qui di seguito, in particolare, riportiamo un intervento in Senato di Volponi del 1985 sulla discussione del disegno di legge sul “Nuovo ordinamento della scuola secondaria superiore”. L’aspetto fondamentale di questi discorsi è che al loro interno ritroviamo, a quasi trent’anni di distanza, temi di valenza attuale quali la degenerazione del ruolo del Parlamento:

“(…) in quanto ormai il Parlamento non è considerato più un luogo di produzione di cultura, ma il luogo dello scontro, della mediazione, dei rapporti di forza e delle battaglie cosiddette parlamentari; non è più considerato - ripeto - come il luogo autentico della formazione della cultura e quindi della legge che applica, spiega e fa produrre una determinata cultura”.

la funzione dell’attività politica:

“In fondo la politica è l’insieme, la somma di tutte le culture, almeno secondo noi che crediamo al dibattito, alla dialettica, alla democrazia, agli scontri e alla ricerca. Ma che cosa è alla fine la politica, praticamente, se non il lavoro, se non il modo in cui lavora un gruppo sociale? Oggi ci troviamo in difficoltà ed i nostri Governi non riescono più a governare, se non appunto attraverso una serie di imposizioni, proprio perché non hanno più alcun rapporto con la qualità, con i modi, con i mezzi e con i fini del lavoro: non sanno neanche più dove e come esso si compie, o ne hanno un’idea piuttosto vaga, quella che è loro rappresentata dagli interessi che alla fine si sovrappongono e si costituiscono sopra i sistemi di lavoro”.

e il valore della cultura nello sviluppo e nella realizzazione della società moderna:

“Ora, per parte mia, dico che non siamo affatto sconfitti dalle tecnologie, almeno, non lo siamo noi che abbiamo presentato questo emendamento. Non abbiamo paura delle trasformazioni e non crediamo che vi sia un vuoto etico incolmabile tra noi e la scuola, tra noi ed il mondo del lavoro, tra noi e la società, tra noi e i vari gruppi, anche emergenti e nuovi, perché teniamo fermo il principio democratico della ricerca, che è alla base dell’insegnamento, il principio della materialità della verità e dei suoi strumenti, anche scientifici e culturali. È il principio secondo il quale la cultura non deve perdersi nelle parole e nelle proclamazioni ideologiche, ma deve entrare effettivamente nel campo del lavoro e della trasformazione e impossessarsi di tutti i termini - anche di quelli tecnico-scientifici - che derivano sempre dalla ricerca, dal pensiero, dalle capacità dell’uomo e dal suo lavoro”.

Paolo Volponi

 

Paolo Volponi, un gigante del Novecento

Nato a Urbino il 6 aprile 1924 - quest'anno si celebrano i novant'anni dalla nascita - in una famiglia medio borghese (il padre era proprietario di una piccola fornace per laterizi e la madre proveniva da una famiglia di piccoli possidenti agricoli marchigiani), dopo aver ottenuto la maturità classica nel 1943 si iscrisse alla Facoltà di Legge nella nascente Libera Università di Urbino e, dopo un’esperienza partigiana sugli Appennini, qui si laureò nel ‘47. L’attività letteraria di Volponi ebbe inizio nel 1948 con la pubblicazione de Il ramarro, raccolta di poesie sospese tra il tardo ermetismo e il neorealismo. Nel 1950 avvenne l’incontro che segnò la vita del giovane Volponi con Adriano Olivetti, la cui visione sociale e solidaristica dello sviluppo industriale lo convinse a trasferirsi a Roma per lavorare, nel 1953, presso un ente di assistenza sociale, per il quale compì inchieste sull’evoluzione economica del Sud.

Nel 1956 fu assunto presso la Olivetti di Ivrea inizialmente come collaboratore e successivamente come direttore dei servizi sociali; a partire dal 1966 al 1971 tenne la direzione dell’intero settore delle relazioni aziendali.

Durante questi anni prosegue l’attività di scrittore pubblicando L’antica moneta del 1955, Le porte dell’Appennino del 1960 (che ricevette il premio Viareggio) che denotano un nuovo stile narrativo in cui Volponi cerca nel paesaggio campagnolo e contadino i segni del difficile rapporto tra l’io e la realtà. L’opera narrativa iniziò nel 1962 con il Memoriale, incentrato sulla contrapposizione operai-imprenditori negli anni sessanta. Nel ‘65 è la volta de La macchina mondiale, romanzo con cui vinse il premio Strega, in cui l’autore si poneva degli interrogativi universali, trovando risposte contrastanti e spesso foriere di nuovi dubbi.

A partire dal ‘72 si trasferì a Torino, dove avviò una consulenza con la Fiat e nel 1975 divenne presidente della Fondazione Agnelli, incarico che fu costretto a lasciare in seguito alla sua adesione al Partito Comunista Italiano, sgradita ai vertici della Fiat. Nel 1974 pubblicò Corporale, romanzo in cui il protagonista, dopo brutte esperienze in fabbrica e in città, parte alla conquista della realtà.

Nel 1983 fu eletto Senatore come indipendente nelle liste del PCI, sempre nello stesso periodo divenne presidente della Cooperativa soci dell’Unità, promuovendo con il giornale una fitta rete di iniziative fra cui un convegno nazionale su Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1987). Sempre rieletto in Senato, si oppose allo scioglimento del PCI e nel 1991 aderì al nuovo gruppo di Rifondazione Comunista che, secondo Volponi, “manteneva viva la speranza di un mondo più giusto e più razionale”. Nel romanzo Le mosche del capitale (1989), narrò la vita di un manager democratico, Bruto Saraccini, la cui genialità viene schiacciata in azienda dalle cieche logiche di potere e di guadagno. Parzialmente autobiografico, infine, è il romanzo con il quale Volponi vinse per la seconda volta il premio Strega, La strada per Roma (1991), che affronta la vicenda di un giovane uomo che, stanco della routine di Urbino, si trasferisce a Roma, dove vive le speranze e le illusioni della grande città.

L’opera e la vita di Paolo Volponi incarnano dunque un rapporto vitale con la realtà contemporanea e i suoi aspetti essenziali, la letteratura è il mezzo con cui affrontare i temi sociali legati al mondo del lavoro, che deve tenere conto delle inclinazioni dell’uomo e che si deve coniugare con un uso positivo della scienza e della tecnica. Volponi si riconosceva in un Umanesimo moderno che si univa a un forte impegno politico di adesione al comunismo e di attacco dell’ideologia liberista e capitalista.

Rieletto nel 1992 alla Camera dei Deputati, Volponi morì due anni più tardi, il 23 agosto 1994, ad Ancona - ricorre anche il ventennale dalla morte - in seguito a una malattia che lo aveva colpito ai reni.

 

Intervento in Senato del 5 febbraio 19851

VOLPONI. Signor Presidente, signor Ministro e signori senatori, mi domando io stesso quale titolo ho per parlare qui, in questa sede legislativa, con qualche utilità, di scuola e più specificamente di una parte della scuola detta secondaria: titolo che non mi viene certo dalla mia erudizione, la quale anzi mi dissuaderebbe subito dal farlo, riproponendomi un motto del quale tutto si riempie e che è scritto in un autoritratto di un nostro grande pittore del Seicento, Salvator Rosa, che era anche un ottimo poeta e un filosofo utopista in qualche modo. Il motto è questo: «Tacere o parlare dicendo cose migliori del silenzio». E tuttavia mi sollecita la consapevolezza, se volete la coscienza del fatto che con la scuola ho sempre avuto ed ancora ho un rapporto molto aperto e dibattuto, direi addirittura rovente, presente, alla base del quale oggi che non vado più a scuola c’è la verità ormai raggiunta, personale, la certezza (e qui uso ancora una citazione di un personaggio del quale non ricordo il nome) che «tutto quello che non so l’ho imparato a scuola».

VALITUTTI. Salvemini.

VOLPONI. Il senatore Valitutti sa bene cosa hanno scritto i maestri della nostra democrazia. Ma oltre alla verità personale c’è la verità sociale che pone la scuola come misura della cultura e anche della civiltà del paese.

Ho letto attentamente il disegno di legge nel testo della Commissione e poi la relazione di minoranza del senatore Chiarante. Subito, leggendo il disegno di legge, sono stato preso e poi di continuo trattenuto da una diaristica, da una specie di formulazione da registro, frammentaria, nozionistica del concetto stesso, del tema e poi dello svolgimento e dei modi in cui questo svolgimento veniva condotto attraverso il testo articolo per articolo, comma per comma. Prendo ad esempio l’articolo 5. A un certo punto, al secondo comma, è scritto: «Il complesso degli indirizzi deve includere l’intera gamma delle competenze utili all’accesso sia al mondo del lavoro, sia alle istituzioni di istruzione superiore». Subito viene indicato, proposto, direi immediatamente quasi imposto il lavoro. Ma quale? Non se ne parla, non si dice quale lavoro può essere raggiunto, può essere guadagnato attraverso gli indirizzi di questa scuola secondaria, i vari sistemi o ordinamenti della scuola secondaria.

Ma leggendo il testo si capisce di quale lavoro si tratta: il solito lavoro comandato e subalterno che è quello che poi è proposto e ordinato dal mercato del lavoro; il lavoro cioè che non è concepito né dal legislatore né dalla scuola né dalla cultura del paese, ma che si trova fuori, nel mondo esterno alla scuola: il lavoro del mercato.

Quelle istituzioni di istruzione superiore che sono l’alternativa a questo solito lavoro sono in realtà le stesse nostre istituzioni superiori di sempre, ugualmente sottintese come albi professionali, dirigenze, funzioni, eccetera. Ancora una volta, cioè, si esce da due porte ed esse segnano poi il percorso costante, continuo di chi ha studiato e si è preparato nelle nostre scuole pubbliche. Ciò accade proprio perché si perde di vista un concetto reale della scuola, dell’educazione, della cultura e della maturità e si va dietro alle esigenze direi quasi utilitaristiche, commerciali, appunto degli scambi di prestazione, di lavoro, di studio, di ricerca, di professionalità. Infatti al comma sesto dello stesso articolo 5 sono indicati tutti gli indirizzi che si propongono in attuazione della presente legge. Essi sono, per il settore artistico, con vaghi accenni, gli indirizzi delle arti visive e figurative anche applicate e dello spettacolo e l’indirizzo musicale; per il settore linguistico, letterario, storico, filosofico, l’indirizzo classico e l’indirizzo moderno; per il settore delle scienze umane e sociali, l’indirizzo giuridico-economico-aziendale (ecco già l’azienda, il grande centro di legittimità della nostra cultura, della nostra società odierna), l’indirizzo delle scienze umane, psicopedagogiche e sociali e infine l’indirizzo turistico; per il settore naturalistico, matematico e tecnologico sono poi previsti nove indirizzi. Qui la tecnologia diventa una scienza, non è più - come dovrebbe essere - il metro di applicazione di vari princìpi scientifici, ma diventa per conto suo una scienza. Questo a mio avviso è uno degli sbagli che la nostra cultura e la nostra politica oggi fanno. Per il suddetto settore si specificano un indirizzo agrario ed agroindustriale, un indirizzo biotecnologico-sanitario, un indirizzo chimico-fisico (come se quest’ultimo non dovesse essere considerato insieme al biotecnologico-sanitario), un indirizzo elettrotecnico-elettronico, un indirizzo matematico-naturalistico, un indirizzo meccanico, un indirizzo delle scienze e tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni (forse questo fa riferimento al decreto di ieri che con tanta convinzione direi di tipo dottrinale il Governo ha imposto al Parlamento), un indirizzo delle scienze del territorio, dell’ambiente e delle costruzioni (aggiornamenti che mi paiono piuttosto generici) e infine un indirizzo dei trasporti (aerei e marittimi). Sembra di leggere un elenco di dicasteri di un governo, di quelli del nostro tempo, in carica o no, come appunto il Ministero delle scienze, del territorio, dei trasporti, eccetera.

Tutto questo deriva da uno sdoppiamento, che è costante nel nostro sistema scolastico, nei princìpi che l’hanno retto, fra ciò che è universale, trascendente, filosofico, di concezione astratta e razionale ma in qualche modo superiore, teorico, e ciò che invece è pratico e particolare. Da una parte, infatti, il soggetto pratico, l’alunno e poi il diplomato, il giovane maturo che si affaccia alla nostra società e alle sue attività è un’altra volta rotto, utilizzato, scomposto, ricomposto, insomma, mercificato (la parola è semplice e anche giusta, nel suo significato più vero e più reale).

D’altra parte, questo stesso soggetto è visto – e qui ci sono tante belle dichiarazioni di principio - come l’«Uomo», l’uomo assoluto, l’uomo della divinità, figlio e immagine dell’Eterno, centro dell’universo, con tutte le sue astrazioni, simboli e trascendenze. Questo nuoce al nostro sistema scolastico ed agli indirizzi di insegnamento che esso mette in atto, al valore e alla validità di questi stessi indirizzi e dei loro strumenti. Infatti questo disegno persegue un aggiornamento della scuola secondaria, disegnato in conformità alle «prediche» che vengono dal nostro mondo produttivo, dalla cosiddetta cultura industriale o dalle ammonizioni di grandi personaggi dell’industria, della finanza o della politica del nostro paese. C’è una subalternità non tanto alle scienze - che sono fondamentali, reali, vere ed utili - quanto alle loro applicazioni del momento, attraverso le tecnologie, le tecniche, i modi attuali di sviluppare le scienze in termini di produzione e di trasformazione della materia e della vita dell’uomo.

Ho già detto che la tecnologia è affermata genericamente come una scienza, addirittura quasi come un principio di filosofia, addirittura come una ideologia. Si parla, infatti, dappertutto della nostra carenza di tecnologia e della necessità di aumentare il nostro patrimonio tecnologico per arricchire la nostra cultura, la nostra capacità di progettare e di insegnare. Ma molte delle nuove tecnologie sono banali e, direi, transitorie.

Esse sono soprattutto delle simulazioni, delle sofisticazioni, delle abbreviazioni o degli stratagemmi, messi in atto per ottenere dall’applicazione di certi princìpi di scienza risultati più rapidi, più vasti, più economici, più facili o più commerciali. Esse non hanno un vero valore esemplare né sul piano metodologico né sul piano dell’esperimento e del prodotto: sono al servizio di un sistema di potere, cioè dell’attuale sistema di produzione che è il reale sistema di potere in un paese. In realtà, queste nuove tecnologie insegnano poco o, se volete, non insegnano niente sul piano scolastico e culturale in quanto non liberano affatto il soggetto scolastico, i ragazzi ai quali pensiamo riferendoci ai nostri sistemi scolastici.

Le tecnologie sono utili alla produzione, ma, come sappiamo, non tanto per la nostra cultura e per la nostra società quanto per gli interessi, la cultura ed il predominio di chi oggi possiede gli strumenti, le tecniche, i mezzi della produzione e le risorse. Questi indirizzi sono perciò da valutare con attenzione: non possono essere messi dinanzi ai nostri professori di scuola media e imposti come le nuove ed assolute formule per rinnovare e rendere pratica, efficiente ed aggiornata la nostra scuola. Questi indirizzi sono pericolosi perché non concedono, come ho detto, sul piano educativo, culturale e sociale niente o poco più di niente, come la televisione della quale si parlava ieri e nei termini nei quali ha parlato il collega Lipari o altri senatori della Sinistra indipendente, come il senatore Ossicini che ha affermato che queste tecnologie, come la televisione, agiscono direttamente su certi modelli, sull’inconscio e sul comportamento più che sulla cultura e sulla capacità di coordinare, di capire e di fare degli individui o dei gruppi di individui, togliendo molto della capacità di stare attenti, di conoscere, di imparare e di studiare.

Esse quindi tolgono molto alla coscienza individuale e alla capacità di critica sociale, non aumentano lo spazio psicologico, culturale e storico di una persona e tanto meno di un sistema scolastico. Ci troviamo in una condizione molto grave. Molti dei miei amici che insegnano nelle nostre scuole, in un luogo dalla lunga tradizione culturale come Urbino, specialmente quelli che insegnano nelle medie o nelle scuole secondarie superiori, mi hanno detto che spesso si trovano davanti delle scolaresche preparate in modo approssimativo, lacunoso e quasi scandaloso.

Questi ragazzi in terza media non sanno fare un tema compiutamente e con qualche originalità di lingua e di contenuto; sanno solamente usare il tempo presente e quello imperfetto ed ignorano il passato remoto ed il futuro, per non parlare del congiuntivo che è diventato un po’ l’emblema della nuova lingua italiana, come il «vadi e il venghi» del cinema e della televisione, cioè dei grandi mezzi di informazione, che anche se vogliono fare della parodia alla fin fine strizzano un occhio ed insegnano che anche questi termini valgono e forse più di altri, immettendo nel sistema della cultura e dell’educazione la furbizia, che rappresenta un tema prevalente nel nostro paese. Insegnano che non si deve studiare e diventare bravi ma si deve essere furbi. È una banalità, e scusate se la ripeto in quest’Aula.

Un mio amico professore mi ha detto che ha voluto fare in prima media un esercizio scolastico prendendo un manifesto dei Puffi, dove le azioni di questi soggetti sono illustrate con i fumetti e sono narrate con un linguaggio che in un certo senso sfuma il verbo appropriato e lo sostituisce con quello «puffare»; per esempio frasi come «andiamo nell’orto a puffare le mele» sono contenute in questi fumetti. Il mio amico professore ha provato a chiedere ai suoi scolari quale era il verbo che in italiano corrispondeva alla parola puffare: «andiamo nell’orto a … le mele». La maggior parte dei ragazzi non ha saputo sostituire questo verbo irreale con un verbo che indicasse un’azione concreta come: «andiamo nell’orto a guardare, a raccogliere, a prendere, ad abbattere ...». Tutto ciò rappresenta un fatto molto grave per noi, per il nostro lavoro e per il nostro paese, di una gravità notevole e minacciosa.

Non mi sembra che questo progetto di riforma della scuola secondaria superiore tenga conto di questa grave situazione e proponga qualcosa per evitarla, per allargare il discorso delle culture reali, dei veri princìpi dell’umanesimo, della scienza, della letteratura, della filosofia, della comprensione, della coscienza e della conoscenza, ma che invece si limiti a ripetere e a somministrare il corrente, quello che è indicato dalle vie normali e commerciali della comunicazione, dello scambio, del successo o della fortuna. Anche nei modelli di lettura che vengono indicati prevalgono le cose immediatamente facili, le più prossime e riconoscibili, consuete e quelle dal gusto un po’ corrotto.

Bisognerebbe invece pensare ad un modo diverso di fare la scuola, di avere dei rapporti scolastici, culturali, familiari, sociali ed anche politici con i nostri giovani; bisognerebbe quindi ritornare ad alcuni elementi che sono indispensabili nella formazione culturale di un individuo come in quella di una società, a materie, testi, discipline e strumenti che abbiano prima di tutto un grande contenuto di verità, così come contengano princìpi che possano servire di comprensione critica nei riguardi delle cose del mondo, della storia degli uomini e dei loro attuali ordinamenti, così come della loro vita, del loro lavoro e del loro destino.

Tutto ciò non può trascurare i grandi indirizzi umanistici, letterari, filosofici e storici per nessuno degli indirizzi della scuola secondaria perché altrimenti la scuola formerà delle persone che resteranno sempre in sospensione e sempre in debito di fronte alle abbreviazioni, ai segni, alle cifre, alle simulazioni della televisione e di tutti gli strumenti che vanno oggi di moda, dall’archivio del computer alla tastiera di un altro strumento, al gioco fatto e prefabbricato e in fondo ai modelli ed alle idee che verranno sempre ispirate da chi manovra le centrali ed i sistemi di informazione e comunicazione. Dietro ogni scoperta vi è sempre qualcuno; queste macchine non esistono da sole, e l’uomo non deve fare i conti con una intelligenza artificiale. Queste macchine sono al servizio di certi uomini e di certi interessi costituiti da determinati gruppi. Dobbiamo chiarire queste cose e riprendere la storia del nostro paese che ha una infinità di culture, di testi, di verità e di indirizzi che possono consentire una conoscenza completa, attiva e reale anche in questi tempi confusi e dal volto smarrito.

Ho lavorato per tanti anni nell’industria, nel settore dei rapporti sindacali ed organizzativi di una grande industria come era e come è la Olivetti. Sottolineo come era quando era ancora innovativa, quando sperimentava ed era in competizione con le grandi industrie americane e con la IBM; era un’industria dove si inventava e dove si facevano ricerche tra le più avanzate nel mondo. Non come oggi che la Olivetti compra le licenze e magari anche i semi-lavorati prodotti ad Hong Kong o in Sud America, li assembla e li vende grazie ad un grande sistema di distribuzione; a quei tempi ricercava, era una grande industria e non una holding finanziaria e commerciale. Era una industria dove si studiava e dove per esempio un operaio, entrato come operaio, è diventato direttore generale tecnico, cosa che ci può far capire quale era il clima di quella industria; quel clima era garantito anche dalle scuole che c’erano all’interno della stessa industria, che l’industria apriva anche al suo circondario, alla comunità e alla città presso la quale sorgeva. A tutti i corsi, anche a quelli più semplici per operai specialisti o per attrezzisti, partecipavano tanti bravi intellettuali che lavoravano all’Olivetti; scrittori, pittori, ingegneri, bibliotecari o giornalisti e in questi corsi si seguivano lezioni di storia della filosofia, della letteratura, della musica o dell’arte. Questo serve a spiegare come l’Olivetti sia stata la prima tra le aziende nel mondo a dare una certa attenzione al designer; l’Olivetti è stata la prima industria a colorare la macchina da scrivere e a farla apparire diversa da quelle tradizionali che molto somigliano al monumento a Vittorio Emanuele II che adorna la nostra città eterna. Occorre quindi ricercare e sperimentare nel pieno di un’acquisizione teorica, culturale, tecnica, senza ripetere mai le cose soltanto per riproporre un prodigio vincente che coincide con il momento di produzione di una cosa pratica.

A questo punto si può attaccare un’altra citazione; essa è di Einstein, una persona cioè che ha introdotto una vera nuova cultura nel mondo, il quale ha detto che non vi è nulla di più pratico della teoria. Lo ripeto anch’io, nulla è più pratico di una teoria; certamente più ricca di effetti pratici è infatti la teoria della comunicazione che non il sistema stesso che su di essa viene costruito.

Sono queste le critiche forse un po’ generiche, che io muovo al disegno di legge in esame. Credo però che esse abbiano un fondamento non tanto nella specializzazione scolastica quanto nella verità e nella qualità della scuola nel nostro paese. Mi sembra che la relazione di minoranza presentata dal senatore Chiarante si muova in questo senso e fornisca buoni spunti e contributi nella direzione che io ho indicato e che, qua e là, è lumeggiata dallo stesso disegno di legge. La relazione Chiarante dovrebbe a mio avviso essere ripresa, valutata e sviluppata da parte della maggioranza per capirne ed ampliarne le possibilità e gli indirizzi pratici, in essa contenuti, nel corso della nuova legislazione scolastica.

Anche il senatore Chiarante comunque mette in guardia nei confronti di questo riconoscimento totale e di questo uso immediato delle tecnologie, le nuove tecnologie più o meno grandiose quanto minuziose che, come ho detto, alla fine spiegano ed illustrano solo le strutture del sistema attuale. La scuola però non deve mai guardare ad un certo sistema; essa infatti è luogo di formazione e di dibattito, è un luogo di critica, di anticipazione di formazione delle idee e dei disegni di società e di comunità, nonché di crescita, maturazione ed impegno diverso. Perché dobbiamo considerare il lavoro sempre come un fatto subalterno al tipo di produzione attuale, al modo in cui oggi si produce? Poiché adesso ci sono i robot, l’uomo diventa un supplemento, un contorno, un supporto dell’organizzazione robotica adottata in un certo tipo di aziende. Perché invece non pensiamo a un tipo di lavoro diverso che l’uomo possa fare anche sopra le qualità, le capacità, la rapidità e la precisione dei robot? Il lavoro cambia, deve cambiare in tutte le sue formulazioni, ma nella concezione stessa che esso deve avere nella coscienza e nella qualità della cultura e della politica di una società.

In fondo la politica è l’insieme, la somma di tutte le culture, almeno secondo noi che crediamo al dibattito, alla dialettica, alla democrazia, agli scontri e alla ricerca. Ma che cosa è alla fine la politica, praticamente, se non il lavoro, se non il modo in cui lavora un gruppo sociale? Oggi ci troviamo in difficoltà ed i nostri Governi non riescono più a governare, se non appunto attraverso una serie di imposizioni, proprio perché non hanno più alcun rapporto con la qualità, con i modi, con i mezzi e con i fini del lavoro: non sanno neanche più dove e come esso si compie, o ne hanno un’idea piuttosto vaga, quella che è loro rappresentata dagli interessi che alla fine si sovrappongono e si costituiscono sopra i sistemi di lavoro.

Ora, queste tecnologie, queste tecnostrutture dell’attuale sistema concedono molto, ma mutano anche spesso, tanto da mettere a disagio la nostra cultura, specialmente quella più debole e sprovveduta, che si lascia più suggestionare perché meno ancorata in fondo alla realtà della vita umana quale si può concepire e addirittura conoscere attraverso la storia e attraverso i lavori, le culture e i prodotti della storia degli uomini; mutano per togliere, per ammaestrare, per acquietare, per distribuire. Sarebbe un po’ come ridurre Dante alle citazioni di qualche verso ed alle rime sue più famose, come certe applicazioni di tipo tecnologico, considerate come a sé stanti, complete, esemplari; infatti quelle citazioni e quelle rime entrano nel discorso per aiutarlo, per illustrarlo, per fiorirlo, ma non entrano come conoscenza di quel contributo che possono dare invece la grande poesia e la grande mente di Dante. È lo stesso discorso di Don Chisciotte in relazione alla follia, o di Leopardi all’infelicità della sua gobba e potrei fare tanti altri esempi.

Stiamo un po’ percorrendo questa strada: anche i libri creativi oggi della nostra cultura o i testi più belli della nostra ricerca giornalistica e saggistica diventano complementi degli intrattenimenti e degli spettacoli televisivi oppure argomento per tavole e riviste di successo; la loro circolazione è questa e non tocca certo le scuole, non entra certo nel rapporto tra scuola, cultura e società. Questa sembra oggi una banale ripetizione ma è la realtà della qualità di un momento storico, il segno della possibilità di uscire dalla nostra crisi, che non è solo dovuta all’incertezza o alle difficoltà che incontrano la nostra produzione e la nostra economia oppure ad altri motivi, ma è la crisi di tutta la nostra cultura e di tutto il nostro modo di vivere. Si pensi alla crisi delle grandi città: queste sono sempre state nella storia e nell’attualità dei popoli e delle società i luoghi di cultura, dell’università, dell’invenzione, del progetto, del piano; invece oggi le nostre città sono i luoghi della ripetizione, della distribuzione, dell’acquietamento, dell’aggregamento, dell’accampamento se volete.

Il testo del senatore Chiarante porta - ripeto - alcuni princìpi ed indicazioni validissimi che meriterebbero un’attenzione specifica, un commento, per parlare in termini scolastici, fatto qui insieme ad alta voce. Io non posso però andare oltre perché il tempo che mi è consentito non sarebbe sufficiente e posso soltanto raccomandare che questa relazione non resti soltanto una specie di saggio per una rivista, un’altra delle belle relazioni o orazioni che si recitano qui dentro, senza perforare nemmeno l’area di questo emiciclo perché neppure la stampa ne da notizia in quanto ormai il Parlamento non è considerato più un luogo di produzione di cultura, ma il luogo dello scontro, della mediazione, dei rapporti di forza e delle battaglie cosiddette parlamentari; non è più considerato - ripeto - come il luogo autentico della formazione della cultura e quindi della legge che applica, spiega e fa produrre una determinata cultura.

Intendo proseguire nel mio intervento ancora per cinque minuti perché sulla relazione del senatore Chiarante vorrei fare alcune considerazioni magari rapidamente. Posso dire che anche i grandi maestri, per esempio della letteratura e del pensiero pedagogico, hanno fatto molto spesso ricorso - trattando anche in modo saggistico certi temi della morale o della istruzione o dell’educazione degli individui in una determinata epoca - ai loro ricordi scolastici. In questo momento mi viene per esempio in mente Babel che ha scritto su tale argomento pagine magnifiche. Possiamo anche ricordare alcuni nostri ottimi scrittori che si sono rifatti non pedantemente, non solo emotivamente né con la solita poetica del fanciullino ai ricordi di scuola e che hanno considerato la scuola come il luogo delle loro prime scoperte, dei loro primi dolori, dei loro conflitti, del conflitto, finalmente, della loro personalità con la realtà e con l’esterno. Il conflitto, cioè, di chi si propone alla conoscenza e alla maturità.

Anch’io ho qualche ricordo di scuola, specialmente dei primi anni del mio ginnasio, primi anni ‘30, ginnasio duro, intitolato al nome di Giovanni Pascoli, che aveva studiato nello stesso collegio che allora era retto dagli Scolopi, duro proprio in termini di stratificazione sociale, di classe, ginnasio che per me era una pretesa, era una sfida forse della mia famiglia alla propria condizione e insieme l’affermazione e la prova che volevano darmi dell’affetto che avevano per me mandandomi a istruirmi e a studiare. Andavo male a scuola perché non la sentivo come mio ambiente, anche perché ero duro, un po’ nevrotico, goffo, recalcitrante, insomma non avevo buoni rapporti nemmeno con i miei compagni, tranne con qualcuno dell’ultimo banco che veniva dai paesi vicini e che aveva un’impronta un po’ meno urbinate, cioè meno civile, meno gentile, questa è la parola giusta. E cos’è che mi ha salvato e portato avanti attraverso il ginnasio e il liceo fino all’università, frequentata sempre ad Urbino? Posso dire onestamente che sono stato salvato e condotto fino in fondo specialmente alla seconda ginnasiale - la prima ginnasiale era stata una grande scoperta, c’erano dei compiti da fare e uno li faceva senza quasi capire, intontito dalla solennità del luogo, eccetera - dalla inalterabile, inattaccabile luce della matematica. Avevamo anche, per fortuna, un professore bravo, onesto e di buon tratto. La matematica non poteva essere commentata, alterata, non poteva essere deformata, non poteva essere romanizzata, imperializzata o italianizzata, eccetera, ma era nella sua purezza brillante e vera e risultava dalla lavagna come un grande testo. La stessa impressione l’ho avuta in seguito, per esempio, al ginnasio superiore leggendo i lirici greci nel testo e nella traduzione che facevamo noi o in quella già contenuta nei libri. E questo perché i lirici greci trattavano in modo diretto, direi quasi materiale, certe verità inalienabili dell’uomo: il vino, la donna, l’amore, la battaglia, la paura eccetera. E mi pareva che questo si confondesse con la matematica. E poi al liceo certe volte la fisica rimandava alla «Divina commedia» o la «Divina commedia» faceva capire meglio la storia o la filosofia. Anche la chimica si poneva ad un certo punto in rapporto con certe poesie: ricordo, per esempio, certi brani dell’Ariosto o del Tasso. Quelle letture sembravano tediosissime e poi uno le capiva con l’aiuto della scienza; certe concezioni che non erano più quelle specialistiche di un linguaggio o di una dottrina diventavano un modo di comprensione, davano la capacità di capire una cosa, di avere una acquisizione nella propria coscienza e nel proprio bagaglio di istruzione.

Le materie comuni essenziali, i grandi testi della storia, della produzione artistica dell’uomo e dei gruppi, del lavoro e della lingua di certe epoche non possono essere trascurati anche quando si parla di indirizzi di tipo strettamente professionale, direi di supporto alle tecnologie prevalenti. A questo riguardo io rimpiango di non aver avuto nel ginnasio liceo la possibilità di imparare bene fino in fondo, proprio fino alla possibilità di usarla, una lingua, di leggere, di capire, di scrivere, di trattare con una lingua. Eravamo mutilati, bloccati, chiusi nella nostra lingua: un po’ perché erano gli anni del fascismo e della guerra e quindi pensare all’Europa ci era addirittura impedito; potevamo tutt’al più pensare all’ippogrifo o a Carlo Magno o a Roncisvalle, ma all’Europa delle storie, dei paesi, delle lingue vive e reali per la civiltà di quel momento, proprio non arrivavamo a lanciare la nostra mente. Ci era difficile anche riuscire a immaginare, a spiegarci e a capire Milano con l’industria e le fiere e Roma con i ministeri, le piazze, i ruderi.

Queste cose poi si capiscono con le interrelazioni, con le composizioni che si fanno sul piano culturale, non sul piano delle nozioni o delle tecniche, ma sul piano della comprensione, della critica, del dibattito, del vero studio. E ancora passa attraverso la lettura, i confronti, la critica, la capacità di riordinare tutta una logica e tutto un sistema. Non vorrei che oggi avessimo un certo senso di inferiorità nei confronti della cosiddetta cultura industriale e che ci accingessimo ad aggiornare rapidamente la nostra scuola ai princìpi di questa. In fondo questo viene continuamente predicato, quasi comandato, da tanti autorevoli uomini della nostra Repubblica, sia politici che dell’economia, sia di Governo che della cultura, i quali continuano a ripetere che non abbiamo una cultura industriale, che siamo in arretrato, che non sappiamo ricercare.

Ma cosa abbiamo dato, cosa diamo noi alla ricerca scientifica? E poi, se la nostra cultura è in arretrato di fronte ai temi dello sviluppo industriale, delle tecniche dell’industria e delle sue necessità, se non c’e questa cultura diffusa nel nostro paese, di chi è la colpa? Direi soprattutto della nostra grande industria, del suo spirito capitalistico, egocentrista e quindi molto élitario e autoritario, tanto più che la nostra è un’industria nata come autarchica, che quindi non avvertiva neanche il bisogno di essere competitiva, di confrontarsi con la concorrenza, di spuntare il confronto con altre industrie su altri mercati. È nata come un’industria protetta, viziata: è un figlio unico di famiglia nobile e ricca, che ha vissuto e ha continuato sempre a vivere di rendita, che ancora oggi vuole vivere di rendita imponendoci tante compatibilità che vanno bene a lui, principe figlio unico, e al suo palazzo, alla sua corte.

Per esempio, il caso della Olivetti resta unico. Era un’industria aperta al confronto con l’università, un’industria che non dava solo borse di studio e non chiedeva corsi strumentali alle proprie esigenze o alle tecniche del proprio sviluppo, ma che apriva il discorso su tanti temi della cultura industriale, da quelli della sociologia all’urbanistica, dal design all’economia politica, all’elettronica, eccetera. Ma quell’industria è rimasta isolata e sola, così isolata e sola che la Confindustria - l’organizzazione dell’industria nazionale - aveva come comandamento quello di boicottare l’Olivetti e i suoi prodotti. Questa è una realtà innegabile, una storia vera, riscontrabile nei trattati, nelle cronache, nelle verità della nostra economia e della nostra politica.

Quindi sta a noi prendere l’iniziativa anche nei confronti dell’industria e chiedere ad essa per esempio di socializzare un po’ delle sue conoscenze, di mettersi a contatto con l’università. Cosa avviene dove l’industria è veramente innovativa e di ricerca? In America, soprattutto, e in altri grandi paesi industrializzati l’industria e l’università studiano insieme. Che altro sono il MIT, Palo Alto, Harvard e tanti altri centri di ricerca, che sono un po’ delle industrie e un po’ delle istituzioni scolastiche pubbliche o private di un certo territorio?

Da noi questo contatto è da creare. Esso non riguarda solo il Politecnico, ma anche la scuola cosiddetta secondaria. I nostri ragazzi delle scuole secondarie dovrebbero poter avere un’idea di quello che è un grande ambiente di lavoro di tipo industriale o anche di altro tipo, e capire quanto in realtà valgono e sono assolutamente indispensabili certi patrimoni, certi bagagli, certi princìpi critici e come questi vengono messi in difficoltà da certi modelli di organizzazione di fronte ai quali essi potrebbero appunto sviluppare un senso critico, cioè il principio di una nuova cultura.

Noi dovremmo prendere l’iniziativa con questa e con altre leggi e dialogare con la cultura dell’industria. Se è vero che nel mondo industriale si hanno queste conoscenze, questa capacità e superiorità, si mettano a disposizione della società, del nostro paese, della cultura di tutti, in modo che essa si arricchisca e possa avere un rapporto migliore con l’industria, con le sue esigenze, i suoi princìpi e i suoi ambienti.

Tutto ciò può essere fatto e non è affatto utopistico, irreale o politicamente impossibile. Non richiede nuove avanzate e nessun nuovo equilibrio: richiede solo un po’ più di buona volontà e di senso di precisione nella conoscenza e nello studio dei problemi veri della vita del paese.

Certo, occorrerebbe fare delle spese per attrezzarsi meglio sul piano scolastico, su quello universitario, nei centri di ricerca, nel contatto con l’industria, per una innovazione vera e non solo per l’applicazione di licenze prese altrove, come invece spesso facciamo.

Anche i nostri uomini politici di primo grado fanno a gara a chi è il concessionario esclusivo del reaganismo per l’Italia. Vanno tutti a farsi ricevere e fotografare vicino a Reagan per potersi presentare agli elettori italiani appunto come veri concessionari esclusivi del reaganismo per l’Italia. Non accettiamo questa vera volgarizzazione e commercializzazione brutta della politica, delle sue qualità e della sua cultura. Di soldi la nostra Repubblica ne ha: spende 16.000 miliardi e più per la difesa armata. Ebbene, sottraiamo qualcosa ai titoli di essa e aumenteremo veramente la capacità di difesa del nostro paese proprio in termini di maggior coscienza, di maggiore civiltà e capacità di confrontarsi, di dialogare e anche di opporsi e di resistere ai modelli degli altri.

La nostra cultura è importante, primaria: abbiamo un patrimonio che non è subalterno, che ci siano o meno i patti sui servizi segreti. C’è un’alleanza che ci costringe a certi obblighi che a mio avviso sono contrari alla nostra autentica vocazione e alla nostra capacità e possibilità di fare cultura.

La scuola non si chiude nelle scuole o nel Ministero della pubblica istruzione o in queste riforme, piccole o grandi che siano, ma è sempre aperta al dibattito politico e democratico, nella civiltà del nostro paese.

(Vivi applausi dall’estrema sinistra. Congratulazioni)

 

Note

1. Resoconto stenografico 241a seduta pubblica (pomeridiana), Senato della Repubblica, 5 febbraio 1985, IX Legislatura, pp. 27-34; [PDF]

 

Bibliografia

P. Volponi (a cura di E. Zinato), Parlamenti, Ediesse, Roma, 2011

 

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