Passato, presente e futuro della ricerca scientifica italiana

Cent'anni di ricerca in Italia: un passato da salvare 

Nell'ormai lontano 1907, un piccolo gruppo di studiosi illuminati (Giordano Bruni, Andrea Dionisi, Federigo Enriques, Andrea Giardina, Eugenio Rignano[i]) fondò una rivista internazionale, La Rivista di Scienza, ribattezzata dopo due anni Scientia, poliglotta ma "a favore" dell'italiano. Nel 1909, al gruppo si unì Paolo Bonetti, che sarà l'elemento di continuità nel tempo, superando due periodi bellici con una ostinazione e un sacrificio personale che vanno al di là di ogni immaginazione. Gli farà seguito la figlia Nora, quando Paolo muore, ottantacinquenne, nel 1965. Comunque, il periodo di massima fioritura della rivista fu quello in cui se ne occuparono Bonetti, Enriques e Rignano, convinti dell'assoluta necessità di uno strumento culturale di questa tendenza, specie in Italia.
L'importanza dell'impresa Scientia fu percepita a fondo (loro malgrado) soprattutto da Benedetto Croce e Giovanni Gentile, che reagirono in modo sorprendentemente scomposto e aggressivo[ii]. Gentile scrisse su la "Critica" crociana, recensendo Enriques: "volendosi orientare nella scienza cercano il centro, per dirla con Bruno, discorrendo per la circonferenza. E però è naturale cerchino e non trovino nulla; e facendo la filosofia scientifica, non si scontrino mai con la filosofia". Croce si inviperì quando Enriques, incaricato da incauti accademici di organizzare il IV Congresso Internazionale di Filosofia a Bologna, nel 1911, lo riempì di presunti intrusi: accanto a Henri Bergson, allo stesso Croce e a Hans Vaihinger, fece venire Poincaré, Peano, Ostwald, Arrhenius e Langevin. Orrore! Croce scrisse del "volenteroso professor Enriques che con zelo ma scarsa preparazione si diletta di filosofia". Scientia fu pertanto bollata come un mero contenitore di prodotti lontani dallo spirito: "Di comune non c'è e non ci può essere se non l'unità materiale del periodico, unità la quale non è quel vantaggio (quando è un vantaggio) che si può credere: perché può essere anche un danno, e grave" (B.Croce, Critica).
Come si vede, lo scontro era "senza esclusione di colpi"; ma il neoidealismo italiano vinse con tanto margine da potersi permettere di ignorare questi fastidiosi concorrenti: Gentile mise le mani sulla scuola, Croce fu il punto di riferimento della cultura italiana, Enriques restò relegato nel mondo accademico; Scientia continuò la sua traiettoria. "[La scuola] sarà caratterizzata dal primato dell'umanesimo letterario e in particolare dell'umanesimo classico. Tutte le istituzioni culturali saranno improntate al primato delle lettere, della filosofia e della storia." scriverà Lucio Lombardo Radice in Approssimazione e verità, a cura di Ornella Pompeo Faracovi, 1982.
E lì saremmo in larga misura rimasti, se non fosse avvenuto un fenomeno di generazione "quasi" spontanea di talenti scientifici straordinari. A onor del vero, bisogna ricordare che una categoria di scienziati di prima grandezza era chiaramente riconoscibile nei matematici italiani, tra l'800 e i primi trent'anni del '900. Da Pisa, con la Scuola Normale, a Palermo, con il celebre Circolo, la matematica italiana aveva esempi di studiosi e ricercatori di importanza mondiale. Enriques era ben riconoscibile, e così Vito Volterra. Menziono quest'ultimo con particolare rispetto perché è a Volterra che dobbiamo la nascita, nel 1923, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dopo una lunga gestazione nelle viscere di una rinata Società Italiana per il Progresso delle Scienze. Se si va a vedere quale era la situazione delle cattedre universitarie nelle materie scientifiche in quei tempi, si scopre che i matematici sono di gran lunga dominanti (circa 3 a 1), rispetto a fisici, geologi, chimici e biologi (confinanti però, questi ultimi, con i medici, fatte salve la zoologia e la botanica). Tuttavia, su quanto concerne l'occupazione dei laureati in discipline scientifiche nei primi 30 o 40 anni del '900 bisogna essere cauti: la ricettività del paese a questi aspetti della cultura era veramente scarsa e frustrante. Non mi sembra eccessivo dire che l'egemonia di Croce e Gentile produsse una vera e propria strage di vocazioni; né mi pare sufficientemente consolatorio osservare che quelle che ressero all'impatto furono le più meritevoli e non soltanto le più caparbie. Se posso suggerire una lettura illuminante su questi problemi, vorrei raccomandare un saggio esemplare, quello di Marzio Barbagli dal titolo Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, edito da il Mulino e pubblicato nel 1974: non si può apprezzare l'enorme cammino fatto, particolarmente nel secondo dopoguerra, senza ripercorrere l'analisi delle condizioni iniziali di cui Barbagli parla con accanita precisione. Si scopre, tra l'altro, il perverso intreccio tra cultura dominante e fascismo, troppo spesso messo in sordina: un intreccio non marginalmente ispirato alla idea grossolana che solo la "scienza applicata" abbia valore e interesse, sebbene sia estranea alla cultura. Idea che purtroppo abbiamo visto rinascere in questi ultimi anni con il governo attualmente in carica che, oltre a ignorare le scienze, ignora la storia: ne parlerò tra poco.
La misera sorte del laureato in chimica in Italia negli anni '30 del '900 è descritta dai documenti d'epoca in modo assai drammatico (vedi, per esempio, la rivista "Il chimico italiano", organo del sindacato nazionale fascista dei chimici, anni 1935-36; in questa rivista si denuncia la "miseria" della professione del chimico come fenomeno di inadeguatezza della cultura nazionale assai più che come conseguenza della crisi del '29). E che dire della natura del dibattito, in quegli anni, in ambito medico, lì dove, cioè, il deprecato empirismo dominava la ricerca come ribadito inesorabilmente e crudamente dai cultori dello "spirito"? In quegli anni, il sindacato nazionale fascista dei medici giunse a mettersi in conflitto con il governo perché ostile ai provvedimenti che, producendo una diminuzione delle malattie, riducevano il ricorso alle prestazioni mediche! Oggi, non riusciamo nemmeno a concepire che si possa esprimere pubblicamente un tale punto di vista.
Comunque, l'obiettivo di questi laureati, chimici o medici, erano le professioni e non certo la ricerca. Il che non impediva completamente che questa si sviluppasse in ambito universitario (pensiamo al caso di Giovanni Battista Grassi o a quello di Camillo Golgi, per la medicina); ma senza che raggiungesse quella "massa critica", diremmo oggi, necessaria per creare una comunità scientifica, un ambiente completo di puri scienziati[iii]. Faccio un po' torto a illustri personaggi come Stanislao Cannizzaro o Giacomo Luigi Ciamician, e trascuro i riflessi lontani della grandezza di Amedeo Avogadro, ma mi sto preoccupando degli aspetti collettivi piuttosto che delle virtù individuali[iv].
In questo clima, studiosi di zoologia, botanica e geologia, intenti a classificare varietà viventi o inorganiche, apparivano utili, sì, a illustrare la Natura nelle scuole (e non in tutte: solo in piccola parte di esse) ma non allo sviluppo sociale. Tuttavia, contribuirono non poco a mantenere acceso l'interesse naturalistico in attesa di tempi migliori. Queste conoscenze naturalistiche, poi, confinavano con le competenze di professioni come veterinaria, agraria, geologia applicata alle prospezioni, alla sismologia, all'arte mineraria: tutte assai più redditizie dello studio e della classificazione della realtà naturale.
I matematici, già dal XVIII e XIX secolo, e i fisici (dalla fine dell' '800) costituivano un caso a sé. La contiguità con gli ingegneri, per qualche motivo, non aveva avuto conseguenze soffocanti, non era stata un abbraccio mortale come nei casi di professioni attigue descritti sopra. Si possono fare varie congetture per interpretare questa circostanza eccezionale, tra le scienze. La congettura che io ritengo più adeguata e che mi sembra più ragionevole, è che, se è vero che l'ingegneria si avvale della matematica e della fisica per le sue realizzazioni, è anche vero che ormai, da più di due secoli, un intervallo temporale di 30-50 anni separa i risultati della ricerca dalle applicazioni utili. Il caso dell'elettromagnetismo ottocentesco è forse esemplare; ma molti altri se ne potrebbero usare.
Sta di fatto che i matematici italiani costituirono una comunità, un ambiente che si prestava a rigenerarsi e a svilupparsi attraverso il reclutamento di giovani ricercatori: una "scuola", insomma, con una buona collocazione internazionale[v]. I fisici confinavano con questa scuola, con la quale avevano affinità culturali più profonde della semplice condivisione di strumenti formali. I fisici matematici italiani erano ottimi eredi di quella fisica classica che aveva fatto pensare che questa scienza fosse ormai conclusa alla fine dell' '800: sicché, come ha scritto Russell McCormack[vi], con l'avvento delle grandi scoperte del primo '900 avevano partecipato agli "incubi notturni dei fisici classici". Ma non esisteva la "fisica teorica", e bisognerà aspettare di ravvisarne la necessità e l'importanza con Fermi[vii].
Permettetemi di introdurre in questo discorso un ricordo personale che mi è particolarmente caro. Nel 1948, diplomato a Lecce, dove ero compagno di liceo di Ennio De Giorgi, e ormai studente di primo anno a fisica, a Roma, ero andato a Napoli a trovare dei parenti, i Pascal. Mario Pascal, meccanico razionale, figlio del matematico Ernesto, era cognato di un mio zio materno. Mentre ero lì, scovai un venditore di libri usati in uno scantinato vicino all'università. Aveva appena acquistato dagli eredi la ricca biblioteca di un matematico defunto; non seppi mai chi era, gli eredi avevano cancellato con cura ogni traccia di lui. Telefonai a mio padre (che faceva il notaio e mi guardava, perciò, con apprensione, come chi era destinato - nella sua prospettiva - alla misera sorte di insegnante nelle scuole) e gli chiesi le poche migliaia di lire (un patrimonio, all'epoca!) necessarie a comprare tutto. Spedizione inclusa. Mi ritrovai con un tesoro in casa; tesoro che ancora possiedo e che mi ha seguito nei numerosi traslochi, rendendoli alquanto costosi. Al di là della eccezionale qualità di questi libri, quasi tutti editi da Zanichelli nei primi 25 anni del '900, mi preme qui sottolineare il livello straordinario di cultura che quei volumi testimoniano. Ve ne cito solo alcuni: gli intenditori comprenderanno il mio entusiasmo. I due poderosi volumi del Calcolo delle variazioni di Leonida Tonelli, la Teoria degli spazi Hilbertiani di Giuseppe Vitali, gli affascinanti libri di Gino Loria sulle Curve piane speciali, algebriche e trascendenti, nonché quelli sulle Curve sghembe (quasi libri d'arte, densi di figure meravigliose), i quattro tomi delle Lezioni di Geometria Differenziale di Luigi Bianchi, il Calcolo differenziale assoluto di Tullio Levi Civita, i trattati di Meccanica e di Calcolo vettoriale di Pietro Burgatti, tutti editi da Zanichelli, con decine di altri. Ma poi, manuali Hoepli compatti come i Determinanti e i Gruppi continui di trasformazioni di Ernesto Pascal, Le equazioni integrali , le Funzioni analitiche e le Funzioni poliedriche e modulari di Giulio Vivanti. Infine, sempre per Zanichelli, Molecole e cristalli di Enrico Fermi, Il nucleo atomico di Franco Rasetti, Fondamenti della meccanica atomica, di Enrico Persico (che sarà uno dei miei maestri). Mi interrompo per non tediarvi.
Tutti noi sappiamo, oggi, che invano si cercherebbe in questo paese un editore disposto a pubblicare uno soltanto di quei trattati. Per un triplice motivo: il numero dei ricercatori, sebbene più grande di quello di ottanta anni fa, è complessivamente esiguo per interessare un editore contemporaneo; gli insegnanti della scuola secondaria superiore non studiano più su testi avanzati, ma si limitano a riprodurre i contenuti di manuali scolastici che apprezzano soprattutto per il numero di esercizi già confezionati; infine, i grandi matematici e fisici italiani contemporanei sono assai restii a imbarcarsi nell'impresa di scrivere un trattato, non dico in italiano, ma nemmeno in inglese, lingua che consentirebbe loro un vasto mercato. Faccio salve le debite eccezioni che, insisto, sono rare.
E dunque, benché Croce e Gentile si adoperassero per emarginare ogni forma evoluta di cultura scientifica, matematici e fisici già nei primi decenni del '900 presidiavano con testimonianze indistruttibili la presenza italiana in quei territori. Con due storie evolutive diverse: i matematici alimentando una tradizione già consolidata; i fisici creandola dal nulla grazie alla miracolosa azione illuminata di alcuni formidabili scienziati-organizzatori: Pietro Blaserna, seguito da Orso Mario Corbino , seguito da Enrico Fermi, seguito da Edoardo Amaldi. Questa è la straordinaria dinastia a cui afferisce tutta la famiglia dei fisici italiani; e questa traccia genealogica è quella che ho seguito nel libretto La fisica nella cultura italiana del novecento (Laterza, 1999)
La tecnica con cui i "nuovi adepti" della famiglia venivano adescati, in particolare da Corbino[viii], un prodigioso talent scout, consisteva nel pescare tra i migliori studenti di ingegneria. Il che prova, anche così, come le facoltà professionalizzanti fossero obiettivo dominante della gioventù.
Subito dopo la seconda guerra mondiale, la ricostruzione vede in prima linea queste figure di ricercatori ormai noti in tutto il mondo. Più anziani i leaders della matematica, già affermati nei primi decenni del secolo, più giovani quelli della fisica, poco più che ventenni negli anni trenta. Guido Castelnuovo al CNR, Edoardo Amaldi al neonato Istituto Nazionale di Fisica Nucleare: persone lungimiranti, che sanno dare spazio ai meno fortunati chimici, biologi, geologi, con i quali stabiliscono rapporti stretti. La rivista Scientia, sopravvissuta con Paolo e poi con Nora Bonetti, testimonia una miriade di interessi incrociati[ix].
L'edificio della ricerca di base italiana è ormai nato e ha imparato a crescere. Gli scienziati italiani hanno guadagnato una collocazione internazionale di primo piano, la dedizione dei matematici e dei fisici ha fruttato quel rispetto che i risultati ottenuti meritano. L'onda negativa del neoidealismo di Croce e Gentile si ritira e, con essa, la spinta a ghettizzare la ricerca dando spazio solo a ciò che è utile ed economicamente conveniente su tempi brevi. La ricerca di base è, dopo qualche resistenza ( Alcide De Gasperi, nel 1946, ebbe a dire: "Al popolo italiano, carico di affanni, parrebbe ironia parlare di cultura e di ricerca scientifica", come ricorda Felice Ippolito[x]), riconosciuta come oggetto di pubblico interesse e come tale di finanziamento pubblico. Viene costituito un Ministero della Ricerca. Insomma, tutto andrebbe per il meglio se il sistema italiano funzionasse armonicamente. Ma gli imprenditori stentano a manifestare una qualsiasi forma di cultura apprezzabile: non sono né idealisti né materialisti, sono semplicemente incapaci, con troppo rare eccezioni, di concepire le strutture necessarie a produrre l'innovazione. Rimando a ciò che ha scritto in proposito, Luciano Gallino nel volumetto La scomparsa dell'Italia industriale (Einaudi, 2003). Le tecnologie avanzate non sono certo una vocazione dell'imprenditoria italiana: i tempi di sviluppo sono lunghi, i profitti solo futuribili, gli investimenti sono a rischio e perciò da evitare. A questi elementi penso si debba aggiungere la rigidità del sistema bancario e l'assenza di venture capitals sul mercato degli investimenti privati. La situazione appare paradossale: il contributo alla crescita delle conoscenze c'è ed è dei migliori, ma il contesto sociale non è ricettivo, se non addirittura diffidente. Il problema si rivela immediatamente "culturale": non solo per ciò che riguarda la cultura degli imprenditori, ma anche quella dei politici e più in generale della pubblica opinione. I mass-media sembrano incapaci di fare ciò che pure potrebbero fare efficacemente; in una parte di essi il neoidealismo rispunta proprio lì dove non ce lo saremmo aspettato, a sinistra, sotto le spoglie di un antiscientismo che coglie l'occasione della fragilità della pubblica opinione per rovesciare sulla scienza - in quanto tale - le colpe delle guerre, della contaminazione ambientale, dei disastri futuri. Alcuni sedicenti scienziati, ma "traditori", si improvvisano esperti tecnologi e fanno addirittura carriera politica sfruttando l'ignoranza diffusa a cui la scuola non riesce a opporre rimedi: il paese è preda di superstizioni, diffidenze, paure ancestrali che la letteratura di consumo alimenta come legna secca a cui basta accostare un cerino. I finanziamenti governativi alla ricerca di base non crescono adeguatamente rispetto a quelli degli altri paesi sviluppati; peraltro anche il settore privato è asfittico, anzi non è mai nato (le eccezioni sono irrilevanti). Ed ecco che arriva il governo della destra, Berlusconi, Tremonti, Moratti. La loro ricetta è semplice: dare la ricerca di base, ricca di cervelli, in mano ad alcuni loro fedelissimi (in realtà, gente notoriamente spregiudicata, in cerca di vantaggi personali) disponibili persino allo storno dei cervelli verso la produzione[xi]. E' subito evidente che, oltre a non essere né idealisti né materialisti, costoro sono solo affaristi, esponenti del mercato, rappresentanti di una mentalità che mai, in Italia, è stata considerata cultura. Per contenere l'avidità con cui questi personaggi vogliono impossessarsi di un passato glorioso per trasformarlo in una impresa redditizia dovremmo avere un qualsiasi punto di contatto e di dialogo con loro: ma non lo abbiamo, per formazione, per tradizione, per convinzione. I nostri dizionari dicono solo che la cultura ha a che fare con la conoscenza ma non con gli affari. Vediamo spuntare la parola "committenza" nel CNR che era stato di Volterra; vediamo nascere un I.I.T. o MIT italiano, carico di soldi e senza idee o spazi veri per giovani intraprendenti[xii].
Vi lascio, perciò, con alcune domande a cui non so rispondere: come salveremo il nostro glorioso ma fragile passato? Abbiamo già superato il punto di non ritorno? Possiamo fare di più per sollecitare i nostri giovani allievi a non cadere in quella che per noi è una trappola mortale o siamo ormai già considerati passatisti e antiquati? Se queste domande hanno una risposta, non c'è più tempo da perdere: il guasto potrebbe essere piuttosto grave.

 

  1. Rispettivamente: chimico, a Padova ; medico, a Modena; matematico, a Bologna; zoologo, a Palermo; ingegnere, a Milano
  2. Cf.: L'età degli eroi, di R.Simili, in "Per la Scienza", di F. Enriques, Bibliopolis, 2000; Una nuova antologia enriquesiana, di O. Pompeo Faracovi, in "Intorno a Enriques", a cura di L.M.Scarantino, Agorà, 2004; Considerazioni tumultuarie su Federigo Enriques, di P.Nastasi, in "Intorno a Enriques", a cura di L.M.Scarantino, Agorà, 2004
  3. Cf.: C. Pogliano, Le scienze biomediche; G. Corbellini, I malariologi italiani: storia scientifica e istituzionale di una comunità conflittuale; in "Una difficile modernità", Pavia, 2000
  4. Cf.: L. Cerruti, La comunità dei chimici italiani nel contesto scientifico internazionale: 1890-1940; in "Una difficile modernità", Pavia, 2000.
  5. Cf.: P. Nastasi, La matematica italiana nel cinquantennio 1890-1940, in "Una difficile modernità", Pavia, 2000; La matematica nel ventennio, Sapere, 62, 1996. La matematica italiana dopo l'Unità, a cura di S.Di sieno, A.Guerraggio, P.Nastasi, Marcos y Marcos 1998
  6. R. McCormack, Pensieri notturni di un fisico classico, Editori Riuniti, 1990
  7. C.Bernardini, La fisica nella cultura italiana del '900, Laterza, 1999
  8. O.M.Corbino, Scienza e società, a cura di U.Sanzo, Barbieri, Manduria (Ta), 2003
  9. Scientia. L'immagine e il mondo, Comune di Milano, 1988 (80° anniversario della rivista)
  10. F.Ippolito, Intervista sulla ricerca scientifica, a cura di L.Lerro, Laterza, 1978
  11. C.Bernardini, Il naufragio della ricerca italiana, in "Giornale di Storia Contemporanea", VI, 1, 2003, Riformare con mano pesante, in "Giornale di Storia Contemporanea", VII, 1, 2004
  12. C.Bernardini, L'invenzione dell'I.I.T., Democrazia e Diritto, 3, 2003