Profonda gratitudine per i grandi maestri

Ci sono momenti eccezionali nella storia dell’umanità, momenti in cui avviene un cambiamento che cancella all’improvviso tutto ciò che costituiva la parte fondante della cultura precedente. Succede – come nella celebre favola – che un pensatore più acuto e meno acquiescente di altri si accorga di qualche “re nudo” nel pensiero dominante e che entri perciò nella storia delle idee grazie a coloro “che non ci avevano ancora pensato”. Purtroppo, questo fenomeno si verifica in alcuni campi del sapere e in altri no. Avviene nelle scienze ma, disgraziatamente, assai meno nella Politica e nella stessa Filosofia. Avviene con Galileo Galilei (1564 – 1642) per la Fisica e con Charles Darwin (1809 – 1882) per la Biologia, anche se non è giusto fare torto ai precursori o ai fiancheggiatori che erano già sulla buona strada (come Nicolaj Kopernik e Johannes Kepler, o Johann Gregor Mendel). La “svolta culturale”, se così vogliamo chiamarla, ha una caratteristica molto precisa: idee di senso comune, accettate come plausibili e soddisfacenti, vengono soppiantate da idee assai più potenti che, pur allontanandosi dalla apparente banalità del senso comune, semplificano enormemente l’interpretazione dei fatti costituendo una fenomenologia assecondata da un suo linguaggio interno molto calzante. Galilei apre il vaso di Pandora della Matematica come linguaggio della Fisica; Darwin costruisce una fenomenologia biologica appropriata ai tempi lunghi del pianeta. Passa finalmente in seconda linea, almeno nell’ambiente scientifico, quello che François Jacob nel suo Il gioco dei possibili (Mondadori, 1980) chiama il “sistema di spiegazione mitologico” che, avendo una risposta generalissima a ogni domanda, non è confutabile e uccide ogni altra domanda. La scienza si afferma come espressione del pensiero induttivo e, rinunciando a strutturarsi come sistema di assiomi, acquista la proprietà di essere generalizzabile. Se si capisce come e perché i sassi cadono sulla Terra, pian piano si capirà la fisica dell’intero universo; se si capisce perché l’orso polare è bianco, pian piano si capirà come si è costituito il patrimonio genetico dei viventi. La forza della mente umana ha del-l’incredibile, quando si pensa alla natura profonda delle conoscenze scientifiche raggiunte, ma queste conoscenze non sono affatto innate nella loro espressione contemporanea. Da qui non possiamo che ricavare una ineludibile convinzione della centralità dei processi formativi come supporto dello sviluppo nella interminabile traiettoria temporale delle generazioni. Matematica, Fisica, Biologia, Geologia, Chimica e tutto ciò che sappiamo non sono “entità” capaci di vivere nella realtà esterna agli individui. Al contrario, sono i nessi che guidano gli individui nella realtà degli oggetti e dei fenomeni. A me sembra che il sorprendente risultato ottenuto dal pensiero di Galilei e di Darwin (e poi di moltissimi altri sulla loro strada) sia stato quello di trasformare un linguaggio primitivo, adatto alla descrizione e all’avvertimento, in un linguaggio capace di predizione e di verifica. Quando il rapporto di causa-effetto si sposta dalla coppia spinta-velocità di Aristotele alla coppia forza-accelerazione di Galilei e Newton, il salto è enorme. La parola accelerazione è un enigma per la vecchia cultura, ma diventa la chiave di volta nella nuova. Quando Galilei vanifica il senso della “velocità assoluta” nello spazio, istituendo la liberazione della descrizione umana (mediante una trasformazione di coordinate) dall’arbitrarietà delle scelte convenzionali, è la stessa nozione di “relatività” a irrompere nel pensiero evoluto con tutto il potenziale che, con Einstein, sconvolgerà ogni fondamento ingenuo. Per non dire di Darwin e del fiorire della Biologia molecolare attorno alle sue meticolose osservazioni e, soprattutto, al suo modo di offrirle ai contemporanei.

Galileo Galilei

 

Non voglio apparire minaccioso e severo: la libertà di “fare e pensare ciò che ci pare” sembra un diritto dei giovani d’oggi. Ma penso che vergognarsi dell’analfabetismo scientifico dilagante sia un sentimento da diffondere. Il diritto all’ignoranza finisce con il produrre guasti enormi. La mia ricetta preferita è il ricorso allo studio della storia delle idee: perché una favola sarebbe “più bella” della storia di Galilei o di Gauss, di Maxwell, di Einstein, di Born, di Linneo, di Darwin, di Spallanzani, di Golgi, di Pasteur e di tanti altri anche in altre discipline? Con il vantaggio che queste sarebbero anche storie esemplari…. Ma, forse, proprio questo è il punto: c’è una sorta di feedback, di reazione, tra l’ignoranza e le scienze. Una favola è una creazione strettamente umana, fatta per sbalordire con parole semplici e accattivanti; la scienza è anch’essa una creazione umana; fatta per incuriosire con parole non sempre preesistenti nel linguaggio comune. Dunque una favola “vera” che offre anche il linguaggio con cui è raccontata, con le sue chiavi interpretative. Per molti, questa è una limitazione, un vincolo sgradevole. In più, c’è chi si è adoperato per costellare di dogmi etici ciò che la scienza tenta di dire senza mai pretendere che sia la verità; anzi, lavorando più sui dubbi che sulle certezze. È l’insanabile conflitto tra la laicità e il pensiero dogmatico, quel conflitto che François Jacob – come ho già detto – stigmatizzava per la pretesa di alcuni di dare risposte universali inconfutabili. Purtroppo, le religioni monoteiste che fanno riferimento alla “rivelazione” e a “libri sacri” mal tollerano la ricerca delle interpretazioni razionalmente plausibili dell’esistente e rinunciano con difficoltà a quel potere politico immenso che viene dal cosiddetto “dominio dello spirito”. Ma chi ha la accortezza di leggere un buon saggio come Uncommon sense di Alan Cromer (Oxford Univ. Press, 1993; in italiano con il titolo L’Eresia della Scienza, Cortina, 1996) potrà capire da sé, pacatamente, che cosa manca alla nostra cultura dominante per non subire i dogmi che ancora spazzano via il pensiero razionale.

 

Charles Darwin