Scienza e Letteratura nell'Italia della seconda metà del '900 (I)

Calvino, Kafka e il romanzo olivettiano (parte 1)

Negli anni Sessanta, a seguito del processo di industrializzazione, in Italia si sviluppa il dibattito sul cosiddetto romanzo industriale, che vede impegnati scrittori e intellettuali al servizio di grandi aziende. In particolare, intorno al progetto di una fabbrica-comunità matura un genere narrativo che per i suoi legami con la realtà di Ivrea, per i suoi richiami agli ideali di Adriano Olivetti, può essere definito romanzo olivettiano.  

1. Calvino e la letteratura industriale

Rispondendo a Fulvio Longobardi, che aveva inviato alla casa editrice Einaudi il dattiloscritto di un suo romanzo (L’agenzia), Italo Calvino utilizza la formula del kafkismo sociologico per definire la narrativa di fabbrica e, in particolare, quella di ispirazione olivettiana. “Non ricordo la Sua data di nascita – gli scrive il 16 giugno del 1965 – ma certo l’inizio del Suo libro è nel clima “metafisico” con cui scrivevano i giovani prima del ’43. (...). Ma dal kafkismo lirico degli anni ’40 siamo passati al (molto più pseudo) kafkismo sociologico degli anni ’60, quando cioè ognuno dei numerosi letterati funzionari dell’Olivetti (non mi riferisco tanto a Volponi, che ha un modo suo di vedere le cose, ma a tutti gli altri) ha scritto un romanzo in cui l’Olivetti diventava un’azienda misteriosa e allegorica” [1]. 

Per quanto occasionale possa risultare la circostanza, in questo breve giudizio Calvino non dichiara soltanto una certa titubanza nell’accogliere in una delle collane einaudiane il testo di Longobardi, ma compie una sorta di analisi sul fenomeno della cosiddetta letteratura neocapitalista: una geografia di autori e di testi, fortemente segnata dalla figura di Adriano Olivetti, che tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta aveva registrato gli esiti più convincenti. In quel lasso di tempo, infatti, vedono la luce Tempi stretti (Einaudi, Torino 1957), Donnarumma all’assalto (Bompiani, Milano 1959) e La linea gotica (Bompiani, Milano 1963) di Ottiero Ottieri, Il senatore (Feltrinelli, Milano 1958) e L’amore mio italiano (Mondadori, Milano 1963) di Giancarlo Buzzi, Memoriale (Garzanti, Milano 1962) di Paolo Volponi, Il congresso (Bompiani, Milano 1963) di Libero Bigiaretti: romanzi che, per gli argomenti trattati e per i legami personali e professionali dei loro autori con l’azienda di Ivrea, afferiscono a quella particolare esperienza culturale, generatasi a contatto con l’utopia, della fabbrica-comunità.

È vero che in Calvino, a monte del rifiuto, agiscono obiezioni di natura formale (l’uso che Longobardi fa di un certo lirismo, più accentuato nelle sequenze dialogiche). Però non meno rilevanti sono le perplessità che riguardano la disamina del fenomeno industriale, le tensioni morali e intellettuali, perfino il ruolo che gli scrittori intendono svolgere in una società che si scopre proiettata verso il modello capitalista. Il dattiloscritto di Longobardi, in altre parole, manifesta uno stile troppo di maniera non solo rispetto al modo di narrare che fa capo a Camus e a Vittorini (“quel terribile manierismo vittoriniano che tante vittime fece anche nei primi anni del dopoguerra”), ma anche alla più recente tipologia di romanzo aziendale di cui Il padrone di Goffredo Parise, pubblicato da Bompiani nei primi mesi di quel 1965, incarna un esempio con cui – suggerisce Calvino – “non conviene (...) confrontarsi” [2].

Italo Calvino

 

Secondo il parere di Calvino, il libro di Longobardi non manca di originalità. Però appare eccessiva l’adesione a un modulo narrativo cui si rifanno i giovani scrittori al debutto nel periodo compreso tra ricostruzione e miracolo economico, primo fra tutti lo stesso Parise che nel Padrone racconta conflitti e manie all’interno di una ditta commerciale sotto cui è riconoscibile una casa editrice milanese. “Di questa vicinanza con Parise Lei non ha colpa; – continua Calvino nella lettera – il Suo romanzo è stato chiaramente scritto prima o contemporaneamente al Padrone. Ma la colpa è di tutte e due, ad avere scritto qualcosa che era già troppo nell’aria. (Neanch’io mi salvo, e non potrei scagliare la prima pietra, ma La nuvola di smog è del ’58 e me la sono sbrigata con una trentina di pagine, partita chiusa)” [3].

Il riferimento autobiografico, posto fra parentesi, ha il sapore di un’implicita ammissione di colpa. Calvino non solo autorizza l’accostamento, con un grado di parentela assai stretto, tra La nuvola di smog e il filone delle scritture aziendali ma assegna alla vicenda del suo personaggio ossessionato dalla polvere la funzione di vaccino o di antidoto. Rappresentare la vita in un’impresa industriale può considerarsi un passaggio obbligato per chiunque intenda affacciarsi al mondo delle lettere nel secondo dopoguerra. Sotto certi aspetti costituisce un esperimento utile, ma da accantonare in fretta per evitare il rischio di restarci prigionieri. Ed è proprio questo l’errore imputato a Longobardi: quello di obbedire alla moda del romanzo di fabbrica, a qualcosa che a parere di Calvino alimenta un tipo di letteratura d’impianto sociologico o gravida di tensioni lirico- morali, verso cui aveva manifestato le sue riserve già al tempo dei Gettoni einaudiani.

2. Kafka all’origine della narrativa di fabbrica

Quando in Italia si parla di letteratura industriale, sembra che non si possa fare a meno di pensare al nome di Kafka. Ottiero Ottieri continua a citarlo nelle pagine della Linea gotica relative ai mesi estivi del 1954, che raccontano il suo ingresso nell’azienda Olivetti [4]. Molti anni dopo di lui, sul menabò 4 (1961), Marco Forti non mancherà di rilevare (in un romanzo da considerarsi agli albori della narrativa neocapitalista come Il senatore di Giancarlo Buzzi) la presenza di una matrice “kafkiano-esistenziale entro alla cornice storica ma paralizzante di un grande complesso aziendale, dove si sono persi scopi e ragioni se non di puro profitto economico” [5].

Forti non fa che ribadire le posizioni espresse, in sede di critica militante, da Glauco Cambon il quale ipotizzava, appunto, “un riecheggiamento del Castello di Kafka” [6]. Anche in questo caso il cenno all’autore delle Metamorfosi è emblematico. Buzzi  appartiene alla categoria dei cosiddetti intellettuali di fabbrica. Al tempo in cui il suo romanzo vede la luce per i tipi di Feltrinelli, si occupa dell’organizzazione culturale dei centri comunitari nella regione del Canavese e non è difficile scorgere nel suo libro la mistificazione dei rapporti tra imprenditore e dipendente che si registra all’interno di un’azienda e che condurrà il protagonista – un dirigente in carriera – a diventare vittima di un’allucinazione: essere visitato dal fantasma del vecchio proprietario, il senatore appunto, che compare ogni sera nel suo ufficio per assumere informazioni sul conto del figlio, erede dell’attività ma invisibile ai suoi dipendenti.

Il senatore non è esattamente un libro di matrice olivettiana (come sarebbe stato, cinque anni più tardi, L’amore mio italiano). Tuttavia rappresenta il primo tentativo di narrare il capitalismo – non la fabbrica – in forma di meccanismo complicato o secondo una “splendida ma ermetica liturgia” [7].

Più che dare fiato all’urlo delle sirene o alle voci operaie, Buzzi propone un gioco alienante e inverosimile, che si basa sul paradigma/paradosso dell’assenza e – tornando ancora una volta alla lettura di Cambon – “allegorizza l’informe vastità dell’azienda” [8]. È un romanzo, dunque, che disorienta il lettore, studiato per proiettare disincanto e sospetti sull’affermarsi in Italia del taylorismo. Anziché rappresentare le frustrazioni di un disoccupato campano o le nevrosi di un operaio piemontese (come in Donnarumma all’assalto di Ottieri e in Memoriale di Volponi), ridicolizza i principi delle human relations: una delle più allettanti conquiste del cosiddetto stile Olivetti, messe a nudo in tutta la loro fragile enigmaticità. Un clima di incredulità avvolge la fabbrica che sta a sfondo del Senatore, la rende una costruzione assurda, ne fa un luogo circondato da una coltre di “ovatta” e per questo “inattaccabile” [9]. Non casuale, perciò, apparirà la coincidenza del giudizio di Marco Forti (quando ravvisava un clima kafkiano-esistenziale) con le considerazioni che lo stesso Calvino aveva  espresso a Buzzi in una corrispondenza del 5 dicembre 1957: “Mi pare che il filone del [...] “kafkismo aziendale” sia una possibilità aperta alla nostra letteratura” [10].

La formula del kafkismo aziendale, in Calvino, racchiude indirettamente il bilancio di un anno – il 1957 – che può essere davvero considerato fortunato per il genere della narrativa di fabbrica. In febbraio e in settembre la collana dei Gettoni si era accresciuta di Tempi stretti di Ottiero Ottieri e Ghimkhana-Cross di Luigi Davì. Calvino per la prima volta prova ad accostare il nome di Kafka alle questioni inerenti alla letteratura capitalista. Dal kafkismo aziendale (nella lettera a Buzzi del ’57) al kafkismo sociologico (nella lettera a Longobardi del ’65) il passo è breve e significa legittimare una stagione in cui, per comprendere la società, bisogna sincronizzarsi su qualsiasi impresa industriale, carpirne i segreti, contestarne i difetti, denunciarne le contraddizioni attraverso le scritture che la eleggono a cornice narrativa.

Riunione di consulenti della Einaudi nel maggio 1965 (si riconoscono da sinistra Vittorini, Ponchiroli, Calvino ed Einaudi)

 

La corrispondenza a Buzzi di fine ’57 va segnalata per altre due ragioni. Innanzitutto apprendiamo che Il senatore era stato presentato alla casa editrice Einaudi nel tentativo di collocarlo nella collezione dei Gettoni (destinata a chiudere i battenti nel successivo 1958) e che nel frattempo era stato accolto con esito felice presso Feltrinelli. Poi è anche il luogo dove Calvino puntualizza un percorso, non scontato, cui va indirizzandosi una scrittura ispirata dai problemi connessi alla fabbrica: mettere in contatto i conflitti familiari, che sono alla base delle angosce di Gregor Samsa (il personaggio delle Metamorfosi kafkiane), con un mondo dagli equilibri nient’affatto cristallini com’è quello fortemente gerarchico (e per certe ragioni perfino labirintico) di un’impresa industriale.

Ottiero Ottieri

 

Nei romanzi d’argomento industriale, dunque, la grande tradizione mitteleuropea si rivitalizza intrecciandosi con il destino di un certo esistenzialismo alla Camus (evocato da Calvino nella lettera a Longobardi) o, nel caso di Buzzi, con l’inquietudine morale che può dirsi espressione paradigmatica di quel cattolicesimo alla Maritain e alla Mounier, assai caro al gruppo di Comunità. Basterebbe retrocedere di qualche anno per osservare in un’ispirata pagina critica di Franco Fortini come alcune componenti della visione kafkiana del mondo siano profeticamente in linea con il tipo di narrativa aziendale sviluppata da Buzzi e dal restante gruppo degli olivettiani. “L’alienazione umana – leggiamo sul Politecnico nell’ottobre del 1947 – di fronte alla potenza, alla gerarchia, la degradazione dell’uomo- cosa, disumanizzato a merce. Ogni personaggio kafkiano è padrone e schiavo (...). All’inferiore sembra che il superiore goda di una superba potenza; ma poi si vede che anch’egli è sottoposto a qualche altro” [11]. Fortini non allude ai fenomeni della cultura industriale – non è entrato ancora in contatto con gli ambienti di Ivrea – eppure la sua lucida riflessione conduce all’ombra delle fabbriche, in quei luoghi dove in epoca moderna si esasperano i rapporti e maturano gli scontri fra i gradini inferiori e superiori della società umana. Potrebbe essere questa la direzione da seguire per tradurre in termini primi la formula del kafkismo sociologico. Ed è probabile che Calvino, nel rispondere a Longobardi, avesse ben presenti il rimando a Kafka quale paradigma di una scrittura che esula dalla narrazione pura per abbracciare la propensione al saggismo, alla riflessione, nel tentativo non più di raccontare il mondo della fabbrica, ma di analizzarne le complessità. Il problema si trasferisce, così, dal livello semantico alla prospettiva dei generi letterari. In tal caso, quella del romanzo-saggio potrebbe risultare la formula più idonea per decodificare la realtà aziendale: superficialmente essa manifesta un’impronta narrativa, spesso invece – sottolinea Marco Forti, tornando nuovamente sul Senatore di Buzzi – “alterna volta a volta i caratteri del diario, del documento o del saggio, senza che nessuno di questi elementi prenda decisamente corpo” [12].

3. Calvino, Vittorini e Tempi stretti di Ottieri

Far entrare Kafka nei capannoni di un’officina è un esperimento ambizioso e carica la fabbrica di quei motivi che ne trascendono la nozione di tempio destinato esplicitamente alla liturgia del lavoro. Addirittura costringe a far migrare la sua immagine di luogo orientato da criteri di fredda razionalità nelle suggestioni dell’assurdo e del sogno, ma potrebbe anche rivelarsi un progetto ambizioso, avviato però all’insuccesso. Le insidie sono molteplici e, per quanto il racconto industriale possa coltivare il registro onirico-visionario, è pur sempre in agguanto il rischio di una letteratura malata, appunto, di kafkismo sociologico, prigioniera di una visione del mondo monotona e vischiosa, capace di produrre soltanto infelicità. Intorno a una questione di tale portata, che Franco Fortini racchiudeva nella formula della tristezza operaia, si gioca molto probabilmente il futuro della narrativa neocapitalista [13]. Ne è prova il giudizio pronunciato da Calvino in una lettera a Vittorini del 15 maggio 1956, a proposito di Gymkhana-Cross di Davì (1957): cinquantatreesimo volume della collezione dei Gettoni, destinato a svelare “la faccia allegra e scooteristica del mondo industriale” e a diventare il naturale contrappunto di un Ottieri, definito, sempre da Calvino, “scrittore di carne triste” [14].

Franz Kafka

 

Siamo ancora un po’ lontani dall’esplosione dei romanzi ispirati dalla matrice olivettiana, a circa un anno dalla pubblicazione di Gymkhana-Cross e di Tempi stretti, ma è già fin troppo evidente la posizione di Calvino tra l’“allegro Davì” e il “triste Ottieri”. Seguendo un procedimento a ritroso, prima ancora di riconoscere riverberi kafkiani negli ancora esili fenomeni della letteratura neocapitalista, sembra che Calvino preveda un doppio percorso: quello del “folclore industriale” (lo puntualizza nella lettera a Vittorini del 7 giugno 1955), che aspira a rappresentare officine e operai secondo il precetto della leggerezza e, nel caso di Davì, con “una notevole vivacità gergale e guappesca di periferia, con uno spontaneo piglio hemingwayano”, oppure lasciarsi condizionare da un’abitudine di marca neo-verista, che assimilerebbe la fabbrica a documento da analizzare [15]. In tal senso, assai ricca di spunti chiarificatori è una seconda lettera che Calvino indirizza a Ottieri il 15 maggio del 1956:

Le schiene di vetro [titolo iniziale di Tempi stretti] è un libro molto importante e atteso e utile, per la sua seria impostazione documentaria, e dove ti tieni fedele ad essa, (come anche ad esempio nelle descrizioni quasi topografiche di Milano) anche molto felice letterariamente. Sei soprattutto riuscito, rappresentando tre stabilimenti diversi per livello economico e tecnico e per atteggiamento delle maestranze e dei dirigenti, a dare un quadro della situazione industriale italiana nella sua complessità e interrelazione. Le riunioni politiche e sindacali sono sempre un grosso scoglio a raccontarsi, e anche tu non ti salvi da un appesantimento della narrazione, ma mettendo in primo piano i socialisti anziché i comunisti hai cercato di dare qualche pennellata inedita. (Ma molto da dire ci resterebbe proprio in una rappresentazione di questo tipo, sia sugli uni che sugli altri). [...] Quel che pesa sul libro è la tristezza. Che gli operai siano anche gente allegra e le fabbriche anche una via di libertà non si vede. Si vede che Giovanni auspica per la sua azienda uno sviluppo tecnico, anche se questo costerà, ecc., ma tutto molto tristemente. Tristezza vera, certo, ma appunto perché questo è documentario, non ancora poesia, che sola potrà scoprire – chissà mai come – l’allegria delle fabbriche [16].

Elio Vittorini

 

Quando Vittorini parlava di “validità documentaria”, presentando i Gettoni nel Catalogo generale Einaudi (1956), individuava un criterio cui dovevano obbedire i testi destinati a far parte della sua collezione, ma quasi certamente non attribuiva al termine il medesimo significato proposto da Calvino [17]. Mentre l’autore siciliano accostava la nozione di documento a una sorta di naîvité, a una condizione primigenia secondo cui la scrittura non aveva altra funzione che quella meramente testimoniale, Calvino riscontrava nel testo di Ottieri un’attenzione saggistico-scientifica nei confronti di un mondo sconosciuto, purtroppo non ancora giunta a compiutezza poetica. Un giudizio severo, ribadito anche nel risvolto di copertina (“È per queste doti “documentarie” che il libro si raccomanda”), da lui redatto in mancanza della consueta schedina di Vittorini che, proprio mentre il secondo «gettone» di Ottieri giungeva in vista del traguardo (il dato potrebbe essere significativo), si trovava in vacanza [18]. Indubbiamente su Tempi stretti non si incontra l’entusiasmo né del direttore della collana, né del suo più stretto collaboratore. La ragione sta probabilmente nelle tonalità opache con cui Ottieri presenta la Milano industriale e periferica: un luogo che non ha nulla a che vedere con la Olivetti di Ivrea ma che – confessa il suo stesso autore il 21 aprile del 1956 – risente “di varie cose osservate alla Olivetti” [19]. Vittorini vi ravvisa “il peso di certe intenzioni documentarie non realizzate”. Secondo Calvino, invece, il “documento” di Ottieri manca di poesia perché esprime un’introversa nozione di industria, o perché, più semplicemente, trascura il fatto che gli operai sono anche “gente allegra e le fabbriche anche una via di libertà” [20].

Sul piano della resa letteraria, dunque, il secondo “gettone” di Ottieri è rilevante per la novità dell’argomento, ma debole nei risultati di ricerca espressiva. La colpa non è certo da addebitare – come indicava Mario Boselli su Nuova Corrente – alla scelta di raccontare la fabbrica da una prospettiva interna (“il fondo della tecnica di Ottieri è il “documento”, nel senso che egli narra immaginando, commentando e riflettendo, stando sempre all’interno della complessa problematica industriale”) e nemmeno a un preciso disegno ideologico (esasperare il conflitto imprenditori/dipendenti) ma a un vistoso limite che mette a nudo tutte le difficoltà in cui muoveva i primi passi la narrativa che guardava alle officine delle periferie urbane. “Quello che mi dici sulla “allegria” delle fabbriche e sul loro aspetto di via della libertà sta molto a cuore anche a me” – confessa candidamente Ottieri a Calvino subito dopo aver ricevuto la lettera del 15 maggio 1956 – ma ancora non ci sono narrativamente arrivato” [21]. Tempi stretti, insomma, non è ancora un libro completamente maturo (come lo sarebbe stato, invece, Donnarumma all’assalto) e contiene il tipico errore su cui Vittorini avrebbe insistito nella premessa al menabò 4: considerare capannoni e ciminiere non diversamente da un idillio e, anziché misurare la “catena di effetti che il mondo delle fabbriche mette in moto”, farne un ritratto en plen air, seguendo i canoni del naturalismo [22]. Molti anni più tardi, ricordando i suoi rapporti personali con l’autore di Conversazione in Sicilia e i suoi tormentati trascorsi editoriali all’interno della collana einaudiana, Ottieri avrebbe sintetizzato le incomprensioni tra lui e Vittorini in una pagina finita a mo’ di testimonianza nella Storia dei “Gettoni” di Elio Vittorini:

Egli sosteneva che non fosse necessario scrivere di ciò che avveniva, all’interno delle industrie, che pur sapeva misteriose e drammatiche, ma che occorreva scrivere a livello industriale qualunque cosa, anche la campagna. Che io volessi descrivere per forza un’officina e il famoso rapporto uomo- macchina, parcellizzazione, sociologia, ecc. lo irritava: era, per lui naturalistico (...). Mi rimproverava di andare dall’ideologia alla realtà invece che dalla realtà alla ideologia. E sì che io nelle fabbriche ci avevo lavorato e osservato seriamente; ma la mia passione era cerebrale e il libro era grigio. A me non importava allora la poesia ma la didascalia e l’esplorazione nelle foreste vergini della grande serie [23].

Le parole di Ottieri sembrano il consuntivo del drammatico travaglio ideologico e anche la nostalgica testimonianza delle discussioni che, sul finire degli anni Cinquanta, fiorivano intorno ad argomenti ancora in forte gestazione. Il problema non consiste nell’assimilare gli operai ai contadini o di sostituire il mondo del naturale (è un termine, prima ancora che da Ottieri, adoperato da Vittorini nell’introduzione al menabò 4) con il racconto di macchine, utensili, turni notturni, lotte sindacali. Si tratta di una questione ben più radicale, che sfiora profonde ragioni di identità. Ed è sintomatico che dinanzi agli scrittori impegnati a occuparsi di industria si spalanchino non poche difficoltà, prima fra tutte quella di narrare un fenomeno che ha i suoi ritmi al di fuori dell’ordine legato al ciclo stagionale, il quale sta addirittura a spartiacque rispetto agli equilibri del vecchio mondo agricolo-artigianale e, per uno strano destino, è condannato a rimanere fatalmente prigioniero in un limbo di incomprensioni. Lo confessa sempre Ottieri in una pagina del suo Taccuino industriale, successivamente inclusa dentro La linea gotica:

Se la narrativa e il cinema ci hanno dato poco sulla vita interna di fabbrica, c’è anche una ragione pratica, che poi diventa una ragione teorica. Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra e non si esce facilmente. Chi può descriverlo? Quelli che ci stanno dentro possono darci dei documenti, ma non la loro elaborazione: a meno che non nascano degli operai o impiegati artisti, il che sembra piuttosto raro. Gli artisti che vivono fuori, come possono penetrare in una industria? I pochi che ci lavorano diventano muti, per ragione di tempo, di opportunità, ecc. Gli altri non ne capiscono niente. Anche per questo l’industria è inespressiva; è la sua caratteristica (...). Troppi oggi si augurano il romanzo di fabbrica, ecc., e troppi pochi sono disposti a riconoscere le difficoltà pratiche (teoriche) che si oppongono alla sua realizzazione. L’operaio, l’impiegato, il dirigente tacciono. Lo scrittore, il regista, il sociologo, o stanno fuori e allora non sanno; o, per caso, entrano, e allora non dicono più [24].

Sarà anche vero che Tempi stretti manca il bersaglio della poesia ma è altrettanto vero che Ottieri si candida a diventare il più lucido osservatore di realtà industriali o, come riassumerà intelligentemente Furio Colombo, a comportarsi come “qualcuno che esplora con amore una chiesa, ma senza fede” [25]. La prova tangibile soggiace proprio nel frammento di Taccuino industriale sopra citato: chi si trova all’interno della fabbrica (gli operai)  conosce, ma ha strumenti espressivi inadeguati; tutti gli altri – gli intellettuali, gli esperti di comunicazione, i dirigenti – osservano dall’esterno e suggeriscono le disfunzioni ma sono potenzialmente condannati a non comprendere, divenendo involontarie vittime di un’afasia. Ragionando per simboli, la linea gotica rappresenta non soltanto la demarcazione fra Roma e Milano, fra le culture delle due Italie (quella agricola-meridionale, lontana anni luce da quella industriale-settentrionale) ma anche lo spartiacque che in un’azienda si erge tra i piani alti, dove domina il “puro verbo”, e i reparti in cui trascorrono le giornate coloro i quali appartengono al mondo dell’operare e del “non verbale” [26].

Franz Kafka

 

Ciò dimostra che la narrativa industriale, indecisa fra tranche de vie e incubi kafkiani, fra trasfigurazioni metafisiche e saggismo antropologico, si trova all’incrocio di scelte strategiche destinate a recitare un ruolo determinante nella fortuna di questo genere letterario. In sostanza, nel decretare l’incapacità dell’intellettuale di conoscere i problemi della civiltà industriale, nel dare voce a un sentimento di frustrazione professionale (cui non saranno estranei né il Buzzi dell’Amore mio italiano, né il Bigiaretti del Congresso), Ottieri ammette implicitamente che il destino della letteratura di fabbrica sarà legato al grado più o meno capillare di competenza. Tuttavia non è l’unica difficoltà che si incontra. Al fondo dell’impasse c’è un motivo ben più radicale, reso bene da Calvino a Ottieri nella corrispondenza del 15 maggio 1956, quando faceva cenno all’“allegria delle fabbriche” e invitava a superare l’immagine del lavoro industriale quale epifania dei conflitti di classe.

La fabbrica, in altre parole, non è soltanto il luogo dell’alienazione operaia, come avrebbero sostenuto Volponi in forma narrativa nel suo Memoriale, e Gianni Scalia in forma saggistica sul menabò 4 [27]. Non è nemmeno il castello kafkiano, popolato da gente invisibile, come indicava Buzzi nel Senatore. Incarna invece un exemplum che contribuisce olivettianamente alla promozione umana fino a diventare l’ideale campo di battaglia dove prova a cimentarsi il nuovo cavaliere del progresso – l’operaio – orgoglioso di maneggiare un utensile come la chiave a stella dell’omonimo romanzo (1978) di Primo Levi.

Se davvero la strada maestra della narrativa industriale presuppone una visione della fabbrica “alla Davì” (e non “alla Ottieri”), il segreto per realizzare opere originali sta nel mettere in scena le dinamiche aziendali, scansando – per dirla con Vittorini – l’insidia del naturalismo. È ciò che Marco Forti vede realizzarsi nella Nuvola di smog (1958) dove Calvino – sostiene – “non è un Kafka disposto a documentare fino in fondo l’orrore metafisico” [28]. È probabile che sia la natura favolistica della scrittura di Calvino (evidentemente ancora attiva anche dopo la conclusione del ciclo dei Nostri Antenati) a distinguere il suo testo nella vetrina dei racconti aziendali. Il dato non sfugge né a una lettura ravvicinata, né a una ricostruzione posteriore di cinquant’anni. Basti confrontare le opinioni espresse da Gian Franco Vené nel 1960 sulle Ragioni Narrative (dove viene rimarcato che “questo senso fiabesco di fatalità si complica in un gioco di rapporti etici e sociali” [29]) e da Mario Barenghi nella sua monografia (Italo Calvino, le linee, i margini) in cui l’“opposizione sincronica” tra La nuvola di smog (1958) e Il cavaliere inesistente (1959) non fa che avviare un confronto sulla composizione di entrambi i testi e ribadirne la comune vocazione simbolica [30].

 

Note

[1] I. CALVINO, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di G. Tesio, con una nota di C. Fruttero, Einaudi, Torino 1991, pp. 519- 520: 520; poi in ID., Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Introduzione di C.Milanini,Mondadori,Milano 2000, pp. 872-873.

[2] CALVINO, I libri degli altri, p. 520.

[3] Ibidem.

[4] Cfr. O. OTTIERI, La linea gotica, Bompiani, Milano 1963, poi ID., La linea gotica. Taccuino 1948-1958, prefazione di Furio Colombo, Guanda, Parma 2004, da cui si cita, rispettivamente pp. 174-175, 179-180.

[5] M. FORTI, “Temi industriali della narrativa italiana” in menabò 4 (1961), pp. 213-239: 227.

[6] Cfr. G. CAMBON, “Per un giovane scrittore”, in Aut Aut, novembre 1958, pp. 338-341: 339.

[7] G. BUZZI, Il senatore, Vallecchi, Firenze 19812, p. 6.

[8] G. CAMBON, “L’amore italiano”, in Aut Aut, luglio 1963, pp. 75-77: 76.

[9] BUZZI, Il senatore, pp. 115 e 160.

[10] CALVINO, I libri degli altri, pp. 243-244.

[11] F. FORTINI, “Capoversi su Kafka” in Il Politecnico, ottobre 1947, pp. 14-19: 18.

[12] FORTI, Temi industriali della narrativa italiana, p. 228.

[13] Per la citazione di Fortini, cfr. “Astuti come colombe” in menabò 5, (1962), pp. 29-45: 39; poi nel volume eponimo [1965], per cui cfr. Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di L. Lenzini e uno scritto di R. Rossanda, Mondadori, Milano 2003, pp. 44-68.

[14] CALVINO, I libri degli altri, p. 185; poi in La storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini, a cura di V. Camerano, R. Crovi, G. Grasso, con la collaborazione di A. Tosone, introduzione e note di G. Lupo, Aragno, Torino 2007, II, p. 784.

[15] Cfr. CALVINO, Lettere 1940-1985, pp. 435-436, ora in La storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini, III, p. 1506.

[16] CALVINO, I libri degli altri, pp. 183-184; poi in La storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini, II, pp. 783-784.

[17] Cfr. [E. VITTORINI], I gettoni, in Catalogo Generale delle edizioni Einaudi dalla fondazione della Casa editrice al 1° gennaio 1956, Einaudi, Torino 1956, p. 63; poi ID., Lettere 1952-1955, a cura di E. Esposito e C. Minoia, Einadi, Torino 2006, p. 375; e in Letteratura Arte Società. Articoli e interventi 1938-1965, a cura di R. Rodondi, Einaudi, Torino 208, pp. 748-749.

[18] In La storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini, II, p. 798.

[19] Idem, II, p. 782.

[20] Idem, II, rispettivamente pp. 806 e 783.

[21] Idem, II, p. 785. La citazione di M. Boselli è in “Narrativa sotto accusa”, in Nuova Corrente, gennaio-marzo 1962, pp. 9-23: 15.

[22] E. VITTORINI, “Industria e letteratura” in menabò 4 (1961), pp. 13-20: 20; ora in ID., Letteratura arte società [2008], pp. 954-961: 961.

[23] In La storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini, II, p. 823-824.

[24] O. OTTIERI, “Taccuino industriale” in menabò 4 (1961), pp. 21-94: 21, poi in ID., La linea gotica, p. 183.

[25] F. COLOMBO, “L’Italia di Ottieri”, in OTTIERI, La linea gotica, pp. 5-17: 16.

[26] OTTIERI, La linea gotica, p. 216.

[27] G. SCALIA, “Dalla natura all’industria”, in menabò 4 (1961), pp. 95-114.

[28] FORTI, Temi industriali della narrativa italiana, pp. 221-222.

[29] G. F. VENÉ, “Per una storia dell’industria come contenuto narrativo” in Le Ragioni Narrative,marzo 1960, pp. 110-147:142.

[30] M. BARENGHI, Italo Calvino, le linee, i margini, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 66-69: 66.